PREFAZIONE
UNA STORIA CHE PARTE DA MORETTA

Partiamo da Moretta, innanzitutto, anche se la sua storia, come è per tutte le città della provincia, si perde nelle nebbie dell’Alto Medioevo. Dell’epoca romana qualcosa si sa, perché tra Piemonte e Valle d’Aosta non c’è praticamente luogo in cui il grande impero non abbia lasciato tracce di insediamenti militari e civili, oltre alle ben tre città auguste, Torino, Aosta, Benevagienna che da sole testimoniano, con Alba Pompeia e Pollentia, l’importanza strategica attribuita da Roma alle nostre terre. Ma, caduto l’impero, tutto torna nel buio e bisognerà attendere almeno sei secoli per ritrovare il filo di una storia finalmente documentabile.
Come si sa, il punto di svolta è l’anno Mille, quando le rade e povere nostre popolazioni vivono nello sgomento e nell’attesa della fine del mondo. Ma poi, visto che il sole tornava a sorgere anche nei giorni successivi la temuta catastrofe, il mondo avrebbe ripreso a sperare.
L’apocalisse temuta avrebbe allora assunto le più rassicuranti parvenze di una ripresa dell’economia, con la rinascita del commercio e dei traffici, e cioè di un movimento quotidiano via via più fitto che permetteva di superare la staticità quasi immobile della vita e dei destini personali che avevano segnato le precedenti generazioni.
E allora anche quel luogo chiamato Moretta o la Moreta iniziò ad assumere una più nitida fisionomia. Non fu per merito di qualche illustre fondatore locale, ma per le imprevedibili combinazioni della fortuna e della storia che assunse, nella fattispecie, le sembianze di Adelaide di Savoia.
Sposa in terze nozze di Oddone Biancamano, figlio del mitico fondatore della dinastia, gli aveva portato in dote vasti possedimenti al di qua delle Alpi. Rimasta nuovamente vedova e impossibilitata a governarli direttamente, Adelaide li avrebbe affidati alle cure delle potenti congregazioni religiose insediate sul territorio, tra cui i benedettini neri per la Valle di Susa e quelli di San Colombano per le pianure diradanti verso le Alpi Marittime; questi ultimi erano insediati in un edificio di quella Staffarda che di lì a poco sarebbe diventata una delle più grandi abbazie piemontesi grazie ai più potenti cistercensi, chiamati da Filippo I di Saluzzo a prenderne possesso.
I destini dell’Abbazia e della vicina Moretta finirono così per coincidere e, quando i tempi cambiarono e il potere politico-militare si sostituì alle congregazioni religiose, furono i Savoia-Acaia a individuare proprio in Moretta una piazzaforte strategica a contraltare dell’Abbazia di Staffarda e ad iniziare la costruzione di un castello che rendesse visibile il comando dei luoghi e il prestigio di chi li possedeva. Ciò che evidentemente non avevano intravisto né il marchesato di Saluzzo che su quelle terre aveva dominato per primo né gli Angiò che ne avevano avuto troppo breve signoria.
Da quel momento però tutti incominciarono a considerare l’importanza di quella contrada e di quel castello e, di conseguenza, la sua proprietà fu appetita da varie e bellicose dinastie del Piemonte. Tra le quali, infine, e siamo a metà del ’300, la potente casata dei Solaro di Asti ebbe più stabile sopravvento, riordinando le relazioni di un’area più vasta che partendo da Moretta, da Monasterolo e dalla vicina Villanova Solaro, comprendeva un territorio rilevante di quella piana fertile per acque e ricca di animali e boschi (tra cui il mitico bosco Aimondino).
Ma non era finita. Le ricorrenti invasioni dei francesi, le declinanti, alterne fortune dei Savoia e del marchesato di Saluzzo, la triste fine degli Acaia e, infine, la guerra franco-spagnola, con un Carlo V che per due mesi si fermò nella nostra pianura per organizzare le truppe, avrebbero introdotto anche Moretta e il suo castello nelle vicende convulse della “grande Storia”.
Siamo ormai a metà del ’500, e cioè a ridosso della incredibile avventura umana di uno sconosciuto Davide Rizzio che nel castello di Moretta dimora a servizio del suo conte e di lì partirà per diventare coprotagonista di una delle più fantastiche storie di corte mai avvenute e di un incrocio di amore e morte così straordinario da muovere le fantasie di pittori, scrittori, tragediografi, musicisti e registi cinematografici di tutto il mondo e per ben cinque secoli.
Vediamoli, dunque, i personaggi di questa storia.
Il conte di Moretta, innanzitutto, è Carlo Ubertino I di Solaro ed è un signor conte. Emanuele Filiberto, artefice, come vedremo, della resurrezione dei Savoia, lo ha scelto e mantenuto nel novero dei suoi più fidati collaboratori, sia per le sue dimostrate capacità strategiche militari che per la sua personalità, le sue competenze e per il nobile casato da cui proviene. Lo nomina infatti più volte suo ambasciatore presso le quattro più importanti corti d’Europa (Roma, Francia, Spagna e Inghilterra) e poi in Portogallo e Scozia, traendone così un legame di fedeltà che connoterà per i secoli a venire la famiglia Solaro fino ad annoverare, tra i discendenti di fine settecento, un Angelo Solaro di Moretta nominato vicerè del Regno di Sardegna. Inoltre, incroci di parentele che lo legano, tramite la moglie Lucrezia, ai Della Rovere del futuro Gerolamo, vescovo di Torino, accrescono la sua importanza nella corte. E introducono sulla scena anche il secondo protagonista della storia, il già nominato David Rizzio di questo libro che lo stesso Gerolamo, ancora giovane vescovo di Tolone, sceglie come suo stretto collaboratore, prevedibilmente su suggerimento proprio di Ubertino e di Lucrezia. Questi non è per nulla o soltanto un menestrello come lo si dipingerà per motivi di dileggio politico, ma un uomo di fine intelletto, un umanista cinquecentesco raro da trovare, in un Piemonte povero, sfibrato e declinante mentre il resto d’Italia produce sfolgoranti tesori d’arte e di cultura. Conosce infatti le lingue principali del continente, e benché di origine incerta (probabilmente uno spurio della famiglia dei Ricci di San Paolo), ha avuto importanti contatti con i paesi d’oltralpe. Non è un caso, né solo per allietare le serate, insomma, che Ubertino lo stimi e gli diventi amico, tanto da portarlo con sé presso Maria Stuarda in una delicata ambasciata, pensata per suggerire alla giovane regina scozzese, rimasta vedova, collegamenti matrimoniali che le ridiano maggior forza diplomatica nello scacchiere europeo, in un tempo in cui, tra l’altro, Scozia e Inghilterra, sotto la sferza della riforma luterana, si dividono tra fedeltà al cattolicesimo romano e adesione alle nuove forme religiose proposte dal frate tedesco.
Quando, nel 1561 partono dal castello di Moretta per il lungo viaggio, hanno un duplice mandato: quello del cardinale Ippolito d’Este che ricorda bene la fedeltà guelfa dei Solaro e quello di Emanuele Filiberto proprio nel tempo dei suoi più clamorosi successi europei.
E veniamo a lui, a Emanuele Filiberto: la sua vicenda umana ha qualcosa di miracoloso perché ultimo e unico sopravvissuto dei sei figli di Carlo II di Savoia assiste al disfacimento quasi completo del ducato che è destinato a ereditare. Il padre, infatti, ha perso praticamente tutto e i francesi, conquistata Torino dilagano per l’intero Piemonte. Intristito e ramingo (quando morirà a Vercelli, resterà un anno senza adeguata sepoltura), cerca almeno di salvare il figlio, mandandolo al servizio di Carlo V che di Emanuele Filiberto è zio materno, per via di quei continui incroci dinastici in cui i Savoia si sono abilmente avventurati. E là avviene il miracolo. Carlo V stravede subito per lui, per i suoi modi mai affettati, per la sua disponibilità, per l’ammirazione e devozione disinteressata che legge nei suoi comportamenti e anche per la passione militaresca che gli vale, a un anno dal suo arrivo, la nomina a comandante della guardia imperiale e di tutta la cavalleria fiamminga. Ma è solo il primo passo, perché, dopo aver dato grandi prove di intelligenza e di valore in tante battaglie, Emanuele Filiberto viene scelto nel 1553 come comandante supremo dell’esercito imperiale ad appena 25 anni. Poi, quando Carlo V si dimette, nel ’55, lasciandolo a fianco di Filippo II, questi, nuovo re di Spagna, ne farà il comandante del suo esercito e governatore dei Paesi Bassi. Il che gli permetterà d’essere protagonista di grandi campagne militari, culminate con la vittoria di S. Quintino che stronca le ambizioni francesi e determina nuovi equilibri europei. Il poco più che trentenne Filiberto ora sa che i lunghi anni trascorsi a servizio gli permetteranno di ambire al solo vero obiettivo del suo grande volo: la restituzione del ducato. Alla pace di Cateau Cambrésis partecipa ai lavori. Non ottiene tutto, ma molto: Torino diventerà capitale e Moretta ritornerà sotto la stabile protezione dei Savoia.
Questi sono i personaggi della storia narrata in questo bel libro a cui manca ancora la protagonista femminile: la regina Maria Stuarda. Giovane, intelligente e bella sposa di Francesco II, delfino del re di Francia, passa gli anni della giovinezza nella sfarzosa corte francese tenendo testa alla ostile Caterina de’ Medici. Morto il marito nel 1560, a due anni appena dal matrimonio, rientra in Scozia nel periodo più difficile della lotta tra protestanti e cattolici, per i quali ultimi parteggia con un equilibrio non ricambiato dalla nobiltà scozzese protestante che trama contro di lei, soprattutto dopo il suo matrimonio con il capo dei cattolici scozzesi Lord Darnley. Quest’ultimo tuttavia, immaturo e dedito all’alcool, non le è di aiuto nella delicata missione di governo, soprattutto dopo che la moglie, terminata l’ambasceria di cui s’è detto, ha chiesto al nostro Davide Rizzio di rimanere da lei come consigliere e poi addirittura, dal 1564, come segretario particolare. Gelosie e torbide manovre politiche conseguenti porteranno non solo, nel marzo del 1566, al brutale assassinio di Davide, sospettato di essere l’amante della regina e spia del Vaticano, ma a una serie di lotte intestine che elimineranno a uno a uno tutti i protagonisti dell’oscura vicenda, fino alla decapitazione stessa di Maria Stuarda.
Per fortuna, rimarrà vivo suo figlio Giacomo, un bambino che, staccato dalla madre a pochi mesi dalla nascita, avrebbe saputo attendere per 21 anni, come unico erede, la morte di Elisabetta I d’Inghilterra, sua parente, per diventare proprio lui, figlio degli scozzesi Stuard, il primo re d’Inghilterra e Scozia unificate. Non era questo, in fondo, il sogno della madre Maria?
“Benissimo – direte voi – abbiamo capito. Questa è effettivamente una vicenda di straordinario interesse, per l’incrocio di politica, sentimenti, affetti, amori, tradimenti, sangue, congiure, decapitazioni, paradossali sviluppi di destini che coinvolgono singoli e imperi. Ma basta questo perché Moretta se ne senta coinvolta? Basta un’ambascieria fallita, partita dal suo castello o l’assassinio di un menestrello piemontese di incerta nascita e lignaggio, per intestarsene la partecipazione? Insomma: c’è altro che non sia stato ancora detto?”.
Sì, c’è; ed è l’ingrediente più marcatamente romantico di questa incredibile storia e cioè il mistero che verte su una domanda: chi è il padre vero di questo Giacomo I che inizia una riguardevole storia dinastica al comando di un regno che diventerà, per qualche secolo, la prima potenza mondiale? È Lord Darnley, poi a sua volta assassinato per vendicare Maria, o il Davide Rizzio, sospettato amante della medesima al tempo del concepimento?
E chi era davvero il Davide Rizzio la cui vita si racconta in queste pagine?
Una fonte per lo più attendibile come l’Enciclopedia Treccani non ha dubbi nel definirlo senz’altro come “uomo politico” e nell’attribuire l’ostilità di Darnley contro di lui “al forte ascendente politico di Rizzio sulla regina, rafforzata dal sospetto che egli ne fosse l’amante”. E altre fonti sottolineano un altro sospetto: che fosse un uomo del Vaticano, inviato in Scozia per tutelare e proteggere la fedeltà cattolica della regina, in un periodo di cruente lotte intestine, fomentate dai protestanti e assecondate da buona parte dei nobili della sua corte.
Quale che sia la risposta, una cosa è certa: l’uomo di Moretta ebbe un’influenza decisiva sulla vita di Maria, della Scozia e di quello che sarebbe poi diventato il grande impero britannico.
Quanto alla paternità di Giacomo I, le corti ostili d’Europa non ebbero dubbi e si sa che il re di Francia, non attivava nessuna prudenziale cautela nel buggerarlo come “figlio di Davide”, a sua volta spregiativamente definito il menestrello di Moretta.
Altro che nobili origini, altro che lombi ragguardevoli per il nuovo e temibile re d’oltre Manica!
Ed è superfluo aggiungere che nelle corti d’Europa a quella versione, tutt’altro che priva di possibili riscontri, si diede un più che interessato credito.
Questo libro svela il mistero?
Diciamo che ci offre tutti gli elementi per farcene una opinione.
L’autore, il torinese Davide Riccio (discendente o casuale portatore dello stesso nome?), ci offre infatti un ritratto molto documentato e sorvegliato nello stile e nei giudizi e sa divincolarsi tra l’immenso catalogo delle varie fonti con grande perizia e indiscutibile correttezza. Non risolve l’enigma, d’accordo e non ci dà nemmeno una sua franca opinione sul medesimo, come è giusto che sia, ma ci apparecchia un tavolo completo di argomenti da cui ciascuno potrà trarre le proprie conclusioni.
A Moretta e dintorni non potranno comunque che inorgoglirsi. Nella storia “ufficiale della città” voluta nel 2001 da un sindaco illustre come Mario Piovano e stilata dopo impegnative ricerche da due studiosi come Giorgio di Francesco e Tiziano Vindemmio, di David Rizzio non c’è traccia perché trattasi di eventi estranei al più definito e locale argomento.
Ora il nuovo sindaco Giovanni Gatti, affascinato dalla storia di Rizzio e, poggiando sul dato storicamente indiscutibile che proprio dal castello di Moretta partì la fatidica ambasceria verso la Scozia che gli fu fatale, ha sostenuto l’impresa di questa bella e interessante biografia che non mancherà di muovere la fantasia e l’orgoglio dei suoi concittadini.
Perché tutti i primati attuali dell’economia morettese sono indiscutibili, ma è altra cosa sapere che, già 500 anni fa, la città fu al centro di una serie di variabili che spinsero il suo castello, il suo conte e la sua corte alle vertiginose altezze della politica e della storia d’Europa.

Sergio Soave

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