PREFAZIONE

Gran parte dell’etica e dell’estetica moderna si è convinta che il significato profondo della vita dell’uomo sia tutto contenuto nell’orizzonte precario e fragile della sua irripetibile individualità. Nel divenire eracliteo dell’universo nessun individuo avrà mai in comune con un altro poco più di mezzo pelo, cioè il niente. Se anche per assurdo fosse possibile fare nascere nello stesso istante due cloni perfettamente identici, con il DNA non solo compatibile, ma fotocopiato e sovrapposto – condizione di per sé già impensabile per la scienza – sarebbero totalmente diversi perché il loro sviluppo seguirebbe comunque una moltiplicazione frattalica e casuale di micro eventi, combinazioni probabilistiche, reazioni chimiche e fisiche, capricci della sorte che in brevissimo volgere di tempo farebbe di loro due estranei. L’impossibilità di cogliere l’elemento comune diviene, allora, l’unica certezza. La certezza che è impossibile generalizzare; è impossibile dedurre il carattere comune e la categoria trasversale, valida per tutti gli individui. Ogni individuo, in una simile concezione, rappresenta l’intera storia del mondo ab origine e fino a lui: tale storia individuale del mondo, con la morte del suo custode, è destinata a dissolversi nel nulla. Quindi, la piena realizzazione delle potenzialità contenute nel singolo individuo è l’unico obiettivo moralmente perseguibile, l’unico risultato da ottenere. La vita di ogni uomo diviene l’intreccio inestricabile delle sue pulsioni, emozioni, aspettative, tutte ugualmente valide perché tutte autentiche, e il pensiero diviene un indicatore debole perché si rivela incapace di distinguere, in quanto funziona per categorie astratte – il bene, il male, il giusto, il peccato, la virtù, la colpa, ecc. – cioè il pensiero elabora delle generalizzazioni che sono soltanto una visione orfica della realtà, cioè un sogno a occhi aperti. L’uomo è dotato di un pensiero che gli è sostanzialmente inutile se non addirittura d’impaccio a realizzare se stesso: è un pensiero debole, in quanto non sa leggere fino fondo l’intreccio casuale, caotico e indistinto delle diverse condizioni e situazioni con cui ogni individuo è costruito.
Questa visione delle cose, non è l’unica, nel mondo moderno; nel caso specifico, essa non corrisponde neanche un poco alla concezione etica ed estetica che sviluppa Mino De Blasio, il quale è bene convinto che esista la distinzione ab origine delle categorie del bene e del male nel mondo, cioè egli mantiene accesa la certezza e la fede in quell’atto edenico di scelta compiuto una volta per tutte e dal quale è nato il grande errore che condiziona il mondo creato: la rivolta degli angeli, di cui parla la patristica e con il quale Dante inizia il viaggio all’Inferno, visto che proprio nel primo girone, tra gli ignavi, sono condannati gli angeli che al momento della ribellione di Lucifero si dichiararono neutrali, né con Dio né contro Dio, e per questo Dante li sprofonda negli inferi, e riserva loro la più umiliante delle condanne, l’unica che non può suscitare alcuna pietà perché non è prevista né pena né tribolo da sopportare, ma solo l’inappellabile indifferenza di Dio, per cui di loro conviene non ragionare, ma guardare e passare. La scelta di campo di Mino De Blasio è espressa, dunque, a favore di un pensiero forte, confortato e forgiato dalla fede religiosa, orientato da una visione metafisica e universale del bene, illuminato dalla pietà rivolta al dolore e alla sofferenza. In De Blasio, si è già detto in altre occasioni, che il dolore ha una valenza provvidenziale, di eco manzoniana: attraverso il dolore si distilla il significato profondo e luminoso dell’esperienza terrena, cioè si giunge a sperimentare l’autentica gioia di conoscenza della vita, per cui il dolore e la gioia sono, per Mino De Blasio, lo stesso inno musicale e beethoviano di partecipazione alla bellezza dell’universo. La bimba Elena, così provata dal dolore, è inondata dalla gioia esattamente quanto lo sono Liliana e Anna, rispettivamente la madre e la sua amica. Per Mino De Blasio vivere il dolore, dunque, significa accostarsi all’enigma della vita e intuire il profondo significato rivelatore e salvifico che è contenuto nella sofferenza umana, non meno di quanto sia manifesto nella gioia o addirittura nell’estasi contemplativa. Tutto ciò deve portare a convincerci che nel dolore non esiste una condizione di castigo o peggio di perdizione dell’individuo, e neppure vi potremmo scorgere un capriccio luciferino di tormento gratuito a danno delle creature indifese. Nel dolore De Blasio riconosce la grande occasione di epifania dell’esistenza di Dio, cioè l’occasione di inveramento della nostra condizione di passaggio mondano e terreno, la presa di coscienza della nostra fragilità e della nostra impotenza, ma, nel contempo, anche la manifestazione della nostra ingerenza nel disegno divino che ci sopravanza e che ci contiene.
Straordinaria importanza De Blasio attribuisce alla donna. Anche in questa condizione di preminenza del ruolo storico e culturale della donna sarebbe possibile scorgere una visione religiosa e specificamente cristiana cattolica, afferente al culto mariano che rappresenta sicuramente il cuore centrale della Chiesa, specie in epoca moderna. Ma manteniamoci in ambiti artistici. De Blasio parte da una concezione stilnovistica della donna, vista come angelo che si rende tramite di elevazione dell’uomo e strumento di affinamento delle capacità intellettive dell’uomo. Attraverso la donna e grazie a lei, l’uomo è portato a realizzare il meglio di sé per farne dono alla sua amata. Per essere degno della sua donna e per rendere prezioso il guiderdone che l’uomo le offre per assicurarsene l’amore, ecco che l’uomo si industria di essere sempre migliore, tempra in sé le virtù e si orienta alla ricerca e alla difesa della bellezza. La donna, quindi, contiene in sé due occasioni di primato: è prima, perché è sede della natività e perché più dell’uomo compie il dono della propria carne ai figli; ma è prima anche perché stimola come null’altro altro al mondo l’uomo a compiere il bene e a orientarsi, per amore suo, verso la ricerca della bellezza. Ma non si deve con ciò credere che Mino De Blasio sia interessato solo a ricercare i valori della fede in un’altra vita ovvero che tutta la sua poetica abbia uno sfondo di fede. Sarà sufficiente leggere il breve romanzo Il sospiro e seguire la vicenda di Elena e della sua battaglia contro il cancro osseo da cui è afflitta per rendersi conto che, in realtà, il nostro autore è totalmente immerso nella realtà odierna di questo mondo: il romanzo è un lungo viaggio dentro la struttura nosocomiale di oggi, e ci documenta sul lavoro dei medici, degli infermieri, degli addetti ospedalieri a diverso titolo, restituendoci come straordinariamente umano e vicino il quotidiano impegno del personale ospedaliero. De Blasio spezza più di una lancia a favore dei medici, cui restituisce loro quell’immagine di benefattori dell’umanità che le odierne vicende di malasanità e di concupiscenza di ricchezza ai danni dei pazienti hanno seriamente compromesso agli occhi dell’opinione pubblica. De Blasio ci documenta con convinzione e con sicurezza come le cose stiano in tutt’altro modo e come il medico sia ancora oggi l’unico convinto e strenuo alleato del paziente, e ne condivida tutte le fasi di lotta contro la malattia, motivo per cui egli gioisce delle conquiste di salute realizzate dal paziente e patisce con lui per le eventuali ricadute nella malattia o per le delusioni che si manifestano improvvise, in un patto silenzioso e automatico di fraterna alleanza nella battaglia intrapresa per la salute del prossimo. La figura sia del primario Cipriani sia del medico ospedaliero Roberto sono, infatti, cariche di bontà e di comprensione rivolta ad assistere i disagi fisici e psicologici di chi è malato, in misura non inferiore di quanto non siano entrambe cariche di sapienza professionale e di impegno scientifico. In fondo, ciò che trionfa nel libro, infatti, non è un panegirico rivolto alle conquiste della medicina moderna e ai suoi protagonisti, ma è, invece, l’affermazione di un primato morale e culturale della figura del medico, interpretato come rappresentante della speranza nella vita e nella buona salute.
Mino De Blasio è uno scrittore che non riesce a non essere ottimista. La sua è la fiducia nella buona volontà degli uomini di contribuire, ognuno per ciò che è in grado di fare, alla costruzione di un mondo migliore. Ciò non esclude che l’uomo non sia anche responsabile di manchevolezze, errori o di vere e proprie violenze perpetuate a danno dei più deboli e, sovente, a danno delle donne, come per altro è documentato nelle pagine del romanzo. Ma in De Blasio è mantenuta sempre aperta la possibilità del ravvedimento e la strada del perdono, che permettono il rientro nel gregge da parte della pecorella smarrita ovvero il ritorno alla casa avita da parte del figliolo prodigo. Così avviene per Umberto e Liliana, che al termine della loro odissea di lontananza, ritrovano l’occasione della rappacificazione, in modo che si compie quell’epilogo di speranza e di possibilità ritrovata della gioia comune che De Blasio vuole sempre accendere come luce a cui tendere in tutta la sua ampia e pregiatissima produzione letteraria.

Sandro Gros-Pietro

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