Prefazione

“Ho attraversato ottanta / frontiere del tempo, / festeggiato ottanta natività. / Per ottanta volte l’anno vecchio, / con la coda fra le gambe / e una scia di escrementi, / è caduto dietro la scarpata, / mentre il nuovo si annunciava / con trombe e tamburi, / promesse di grandissime vittorie, / sinfonie e superbe avventure.”
Così inizia il poemetto, Il tempo e la memoria, di Giovanni Chiellino, un’opera bella di poesia, circa cento pagine, in versi liberi, dove l’inchiostro sfuma vivace sulle tracce dei ricordi.
Un lavoro, vario ed avvincente, che nasce dal vissuto, dove protagonista è lo stesso autore, che rivive il sentimento della vita, lungo i sentieri del tempo e dello spazio.
Questo genere di poesia, che si nutre del ricordo, nella scansione del tempo, bene s’inserisce tra le pagine elette della tradizione memorialistica.
Cresciuto alla scuola dell’insegnamento classico, il poeta rivive l’eco dei grandi maestri, antichi e moderni, in una cifra del tutto personale.
Magie simboliche, ridestate dalla memoria, si rincorrono, come in una giostra festiva, sul palcoscenico della pagina lirica. Omero, Dante, Petrarca, e tanti e tanti altri, fino a Montale, Saba e Sbarbaro, si danno appuntamento sul palco della forma e dello stile.
Chi non ricorda le memorie che si raccontano nel Notturno del D’Annunzio, i momenti d’alta suggestione lirica in Montale o La trama delle lucciole, cantata da Camillo Sbarbaro?
Tanto e di più ritorna nel canto di Giovanni Chiellino, medico e poeta, che dalla Carlopoli della Magna Grecia ha tentato con la fiaccola della poesia di portar luce ovunque, lungo le strade dell’Italia bella.
Motivi ispiratori sono la natura, la famiglia, la gente di città e campagna, dei monti e del mare, un formicolio di persone care che accompagnano il poeta lungo i sentieri del cosmo: “abile sarto la memoria / a ricucire col filo dei ricordi / lembi di vita strappati dal tempo” (In esergo dell’introduzione).
La madre Giuseppina, con lo sposo Giuseppe, lavoratore instancabile, mai fuor dalla numerosa nidiata, giunta “ormai all’ottavo parto, / con questo, disse, / chiudo la partitura / di gravidanze e figli, / quasi una sinfonia, / che dedico al mio Dio / perché mi dia la forza / di seguirne la via”.
Per il poeta, l’ambiente familiare ed i luoghi d’origine costituiscono il palcoscenico della propria genesi poetica: Carlopoli, “Via Roma, l’Arco, la Ruga / e al fondo il nostro nido, / la casa dei miei avi, / il cui terrazzo s’apre / ai verdi altipiani della Sila”.
Non viene dimenticato il formicolio paesano, i fratelli, come Rosa Maria Concetta, “maestra di pettine e navetta”, il calzolaio, che “diede ai miei piedi / certezza nel cammino” e i compagni di gioco sul campo di calcio: “Peppino, difensore forte, ma lento / Marino, il portiere dai riflessi di gatto”, e tutti, i dodici, vengono rievocati con tocco d’alta suggestione lirica, fino al sublime grido biblico: “Perché non ti fermi, tempo, / sugli attimi che segnano / una vita?” Là dove s’incrociano gli affetti più cari, non resta che “la banderuola che ruota, / ruota fra le dita del vento”.
È l’eco che accompagna l’andare del poeta, che non cessa di sognare il proprio tetto in riva al mare, come, in Montale, ne La casa dei doganieri: “Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana / la casa e in cima al tetto la banderuola / affumicata gira senza pietà”.
Altrove si muove il passo con il consiglio di nonna Rosa: Padova, Venezia, Torino, dove l’arte del medico futuro non cessa mai di parlare con la poesia, l’amore, la vita.
Ma restano i ricordi tra i banchi di scuola e, in particolare, sulle praterie, con la puledra Stellina, come quando il poeta, ancor adolescente, cadde svenuto, e la cavalla non si mosse per tutto il giorno.
La mamma Giuseppina, saggia e previdente, interviene sempre prima che prevalgano i contrasti nella famiglia, come tra Giovanni ed Antonio, l’ultimo ed il penultimo della numerosa nidiata: “Io e mio fratello / e per tutto il giorno non parlammo / (…) lei ci ascoltò / (…) ci carezzò i capelli e ci mandò a dormire.”
Una scena toccante che ci ricorda I due fanciulli di Giovanni Pascoli: “A letto, il buio li fasciò, gremito / d’ombre più dense; vaghe ombre, che pare / che d’ogni angolo al labbro alzino il dito: // Dopo breve ora, tacita, pian piano, / venne la madre, ed esplorò col lume / velato un poco dalla rosea mano”.
Il Pascoli viene definito poeta astrale da Giovanni Getto, poeta cosmico si può definire Giovanni Chiellino. Insieme condividono “il mondo che si apre agli occhi dell’uomo che vive nei campi” (G. Getto, Studi per il centenario della nascita di G. Pascoli…, Bologna 1962).
C’è nel Poeta di Carlopoli una curiosità cosmica che richiama ai saggi della filosofia presocratica, da Parmenide ad Eraclito, e della misura della scuola pitagorica, porta l’indole della Magnagrecia: “Panta rei – Carpe diem. / E di attimo in attimo, / nel vortice del tempo, / l’esistere dilegua”.
Ma restano, nella memoria, gli amici cari, come lo zio Bruno, che, monaco nel mondo, impedito di varcare le soglie del monastero, per volontà del nonno materno, insegnò al poeta i punti cardinali della cultura e della morale.
Restano gli amici della prima giovinezza, come Piero da Zara, che, fuggito dalla guerra, agile, alto, la madre, bionda e slanciata, sembrava una diva, volendo imitare Il barone rampante di Calvino, saltando da un albero all’altro, cadde, si fratturò una gamba, fu portato in ospedale e non tornò più al paese; Bertilla, l’amore inciso per sempre nella corteccia del cuore; Maròlo “caldo nido d’amplesso”.
Padova tutta si raccoglie nell’aula Ippocrate, Torino tutta nel giardino della pediatria. A Padova è commovente l’incontro del futuro dottore con la madre Giuseppina, ch’altro non sognava che un medico in famiglia.
A Torino, la vita s’incrocia con maestri di saggezza e d’inchiostro: Pierantonio Milone, docente universitario e primario ospedaliero, grande nella poesia e nella pittura, Mirka Corato, poetessa e pittrice, Liana de Luca, scrittrice di fama universale, ma, in particolare, Nevio Nigro, cattedratico in pediatria e poeta sublime dal tocco di grazia, che un vuoto ha lasciato negli amici, partito senza il loro permesso, Francesco Zicari, amico, collega e conterraneo.
A Venezia il canto rinviene in Gino Pastega, scienziato in medicina e poeta sommo, lo stilo d’oro, che “vince di mille secoli il silenzio” (Ugo Foscolo).
Ovunque, nella sua poesia, Giovanni Chiellino porta con sé il salso che riveste di mare la propria simbologia, come lungo i sentieri di Spagna, Francia e Paesi lontani, dove “La bionda fanciulla / dal pallido viso ridente / (…) Scatta, sul ponte del grigio castello, / una foto (…) // e scompare nel gelido vento del Nord. / Nello sguardo rimane un sorriso, / che scioglie gli alti ghiacciai / dove il passo sovente si arrende”.
Sintesi del canto chielliniano resta il ronzio lontano d’affetti, di luoghi, di vita, e “Lo stupore del vento / sussurra una preghiera”, che il tempo non cancella: mamma Giuseppina, papà Giuseppe e tanti oramai rapiti fra gli incanti dell’eternità.
Una lirica, unica ed inconfondibile, che nasce dal sentire forte e dalla dolcezza dei sentimenti, rapita dal lampo e dalla rugiada dell’ispirazione; unica, per la po­tenza della metafora, capace di scolpire con tocco mi­chelangiolesco e con la grazia del Bellini.
Un poema per tutte le età, in particolare per piccoli e grandi, onde scoprire il piacere della scrittura e lasciarsi trasportare dal fascino della fantasia.
Un poeta d’antica saggezza è Giovanni Chiellino, che della Magna Grecia il sapore conserva delle cose, sapor rerum prout sunt, consapevole che tutto passa al battito del tempo e tutto resta, perché l’uomo, microcosmo nel macrocosmo, come recita Protagora, è misura di tutte le cose, e tutte all’eterno dona nel canto del verso.

Armando Santinato

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