PREFAZIONE

Susanna Tamaro nel suo fortunato bestseller Va’ dove ti porta il cuore scriveva: «Orfana? Si dice così quando muore una nonna? Non ne sono proprio sicura. I nonni sono considerati così accessori da non richiedere un termine che ne specifichi la perdita. Dei nonni non si è né orfani né vedovi. Per moto naturale si lasciano lungo la strada così come per distrazione, lun­go la strada, si abbandonano gli ombrelli». E proprio intorno alla centralità affettiva di questo legame, tutt’altro che relegato all’oblio, ruo­ta la corposa raccolta poetica di Piera Giordano: ogni testo si configura infatti come appassionato tentativo di non lasciare andare, di mantenere vivo, almeno nella memoria, il vol­to della nonna, al quale l’autrice accosta spesso il proprio. Nel confronto serrato, somiglianze e divergenze definiscono i tratti peculiari di ognuna: è un gioco di rifrazioni e di rispecchiamenti, radicati nel cuore pulsante di una genealogia femminile che come inscindibile filo rosso tiene strette insieme, nel groviglio ambiguo di luci e ombre affioranti dall’intimità familiare, donne che abitano porzioni di tempo e di mondo differenti. Una relazione, quella tra nonna e nipote, che l’autrice racconta a partire dalla propria esperienza autobiografica, e che pure assume i contorni di una narrazione paradigmatica e universale, in cui a essere chiamati in causa sono sì i sentimenti personali, evocati senza sbavature in un sommesso controcanto che puntella i versi esaltandone l’autenticità, ma anche e soprattutto i destini di due generazioni di donne che si fanno portavoce ognuna della propria vicenda esistenziale da un lato, e dall’altro della Storia, quella con la “S” maiuscola, di cui sono testimoni e protagoniste, incarnando le differenti declinazioni di un plurale femminile che si fronteggia da epoche lontanissime, eppure tangenti lungo il medesimo, precario confine.
La vita di nonna Teresa, classe 1919, è ricostruita minuziosamente nelle sei sezioni che compongono il libro, in un andirivieni temporale che mischia insieme passato prossimo e remoto, con un montaggio ardito che svela in principio gli ultimi anni, la malattia e la scomparsa della donna, per poi virare di tono al seppia della sua giovinezza e risalire la maturità fino all’approdo della lunga vedovanza, evocando così la cronaca di un’epoca intera – qua­si un secolo –, con i suoi avvenimenti cruciali, dall’emigrazione in Argentina alla guerra che porta con sé distruzione, fame e stenti, dalla ricostruzione che caratterizza il dopoguerra ai venti di cambiamento che scuotono le fondamenta della società negli anni Sessanta, e così in avanti, decennio dopo decennio fino quasi al limite dei giorni nostri. Gli eventi di caratura epocale sono fittamente intrecciati alle vicende familiari più private, ciò che rende emblematica l’anonima traiettoria esistenziale di Teresa, simile a quella di molte sue coetanee, femmine dalla tempra d’acciaio, forgiata da lavoro, sacrifici e dolore, su cui si è fondata la rinascita di un Paese intero.
Come per contrasto si abbozza invece sfuggen­te e inquieta la fisionomia dell’altra protagoni­sta dell’opera, la nipote, di cui si colgono fram­menti d’infanzia, occhi di bambina che osservano il segreto delle cose rivelato dalla nonna in un percorso di iniziazione e di formazione che la segnerà in modo indelebile, e scorci d’adolescenza distratta e inappetente che conducono al territorio friabile di una adultità leggera al vento, ancora e sempre in cerca di un equilibrio e di una forma che tardano a germogliare.
La scrittura di Piera Giordano si coagula intorno ad alcuni elementi tematici ricorrenti: ad esempio gli oggetti del quotidiano domestico, minutaglie disseminate a scandagliare una routine a volte opaca, che fa da sfondo all’emorragia irrefrenabile del tempo e ai gesti come un’orazione cocciuta ripetuti dalla nonna nell’esercizio implacabile della cura degli affetti, della casa, della bottega, del giardino e di ogni angolo di questo mondo da rattoppare; il cor­po come campo di battaglia assediato dalla vul­nerabilità e dalla morte, colto e rappresentato nella netta discrepanza cronologica che il raffronto tra nonna e nipote genera, ma anche soglia che si apre dalla fessura dello sguardo al perimetro degli abbracci per accogliere l’Altro; il richiamo ad alcuni elementi naturali, presentati in rutilanti metafore: in particolare l’acqua, citata a più riprese, che sembra alludere simbolicamente al liquido amniotico, genesi e nutrimento del rapporto tra le due congiunte. Ed è un’esagerazione d’acqua che esonda, l’energia che si sprigiona da Teresa, al solo guardarla in una vecchia foto giovanile, una sorta di divinità-madre ancestrale, grazie alla quale, scrive l’autrice, per tutti noi fu vita, fertile territorio in cui tre generazioni di discendenti hanno attecchito nuove fioriture d’esistenza. E anche dopo la sua scomparsa, franata nel precipizio / del non-ci-sei, quell’energia indivisa continua a perdurare insieme ai ricordi incollati addosso come una seconda pelle, investendo in pieno la nipote che finalmente, nella distanza immedicabile dei corpi, sembra riconciliarsi con l’eredità più sofferta, quella somigliante sostanza d’a­nima che la unisce senza più esitazioni alla sua progenitrice, e le fa dichiarare con consapevolezza: la tua voce / è ora la mia […] ti sto vicina senza misura […] sono come te […] io sono questa fontana / e tu quest’acqua / che mi scorre dentro.

Silvia Rosa

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