Prefazione

Il titolo del libro, Il volo delle rondini, riprende quello della poesia dedicata dalla Poetessa a suo figlio. In verità la scrittrice di figli ne ha due, Marco e Christian, ma volutamene nella poesia eponima non si specifica quale dei due sia, esattamente per marcare che un uguale sentimento di amore lega la madre ad entrambi, senza distinzione alcuna. C’è un’altra poesia – o meglio una prosa poetica – che ha valore simbolico di ricapitolazione dell’intero libro, ed è Papaveri scalzi. Quest’ultima è una lettera rammemorante l’infanzia della Poetessa, che si rivede nella foto di quand’era una bimbetta di cinque anni: alta e snella come un papavero, con le scarpette bucate perché il piede, per effetto della crescita, “sboccia sulla punta” come un fiore. Queste due poesie costituiscono gli estremi dell’angolo giro dentro il quale si campisce l’intero mondo poetico di Lucia Macro: il mondo esteriore della famiglia e il mondo interiore della vicenda autobiografica. La famiglia non è presente solo nelle persone degli amati figli, ma ci sono anche i genitori, la mamma e il padre, nonché i nonni. Il padre, in particolare viene ricordato per la sua perizia di abile meccanico, e infatti si legge che “le ruspe ruggiscono allegramente solo al comando del tuo tocco magico: Artista dei Motori”. Alla madre, fra gli altri versi, è particolarmente significativa la poesia Lettera di una madre, nella quale la Poetessa dà contezza dei messaggi educativi materni: “Amate ogni cosa di voi, / amate il vostro diritto di esistere”. Non si deve sottacere la presenza, nel mondo familiare, dei nonni e in particolare della nonna Sipontina, figura di dolcissima umanità, carica di affetto, rappresentata in aura di dolcezza e di amore. Un primo carattere di questo bel libro di poesie lo potremmo, allora, individuare, in questa sorta di lessico famigliare, quasi in eco del libro di Natalia Ginzburg, tale che esso ricostruisce, nell’atmosfera calda e sempre rinnovata della nostalgia e dell’amarcord, la dolcezza e l’armonia del nido familiare, così come lo descriveva Giovanni Pascoli, nel passaggio delle generazioni, dai nonni, ai genitori, ai figli.
L’intero libro di Lucia Macro si presenta come un unico canto d’amore. E anche per quest’espressione ab­biamo una poesia eponima nella quale la Poetessa esprime come ottativo insaziato e ineludibile una necessità costitutiva di dare e di ricevere amore, sempre congiunto a un alone di ricordanze del passato, al canto rassicurante e conciliante delle ninne nanne: “Vorrei rimanere allacciata / alla tua veste, coi tulipani / color zafferano / e respirare il profumo antico / dell’infanzia”. Aleggia nei versi un’aura di nostalgia o più esattamente di amarcord felliniano, che si esprime nella vitalità realistica e sensuale dei ricordi del passato, vissuti come fossero tuttora autentici ed attuali, come leggiamo nei luminosi versi “Vorrei di nuovo sognare con te, al tramonto, / raccontare le fiabe più belle, sussurrate / quand’eri bambino, con cristalli di stelle / e gocce di luna”. Il sogno rappresenta il tappeto magico sul quale volano i versi e i pensieri verso una proiezione di speranze e di gioie, poste al riparo dalle offese del destino e dall’erosione del tempo: nello splendore della parola poetica i sentimenti si conservano inalterati e vividi di suoni e colori, come se rimanessero sempre attuali, in un dialogo di quotidianità giornaliera, che supera la barriera del tempo e gli ostacoli fisici delle distanze, come leggiamo in Stella cometa: “I tuoi occhi mi implorano di replicare, ancora / una do­manda, un racconto. Come stai, Sophie?” // “Ho mangiato la torta di mele. Avevo una gran sete… ho bevuto un calice di stelle” // No, Sophie, non ti ho chiesto se hai bevuto o mangiato. / Aspetto che tu mi dica se stai bene, / a no­vant’anni, hai ancora i nastri d’ambra fra i capelli / sorridi, ai mille volti della luna. / Ricami ghirlande e frutti di bosco, ruscelli d’alabastro / ma fai fatica a udire i suo­ni della natura, / il volo di un’aquila, lo scrosciare delle cascate”. Sullo stesso piano onirico si trovano altre bellissime poesie, come Gibilterra e La nave dei sogni.

La natura è uno scenario ricco di magia e affascinante che la poetessa non si stanca mai di contemplare. L’amore per la natura e per la maestosità dei paesaggi risale anch’esso al tempo dell’oro dell’infanzia, come leggiamo nella vibrante poesia Monti Dauni, dedicata ai paesaggi incantevoli dell’entroterra di Foggia: “Ho lasciato lì, le mie radici / le ho lasciate tra i Monti Dauni / dove gli alberi in fiore giocano col sole / l’aria profuma di origano e limoni // Ho lasciato i miei ricordi / fra i capricci del vento / e cespugli di ginestre, irrequieti / fiocchi di neve gialla / sfilano silenziosi, tra gli anfratti / mascherati delle case di roccia…”. L’amore per la natura viene anche trasceso in contemplazione estatica dell’immenso creato, in particolare modo del cielo: il cosmo incanta la Poetessa con il brillio palpitante degli astri che trapuntano lo spazio infinito: “La notte spense / tutte le luci / e fu allora che le stelle / si unirono in cerchio / a formare un girotondo // una pioggia d’argento / illuminò il firmamento, / la luna strizzò l’occhio / al calar del sole / e i grilli cantarono in coro”.
Il sentimento di amore che è diffuso nell’intero libro – lo abbiamo già definito il canto d’amore – trascende il territorio ideale del “nido familiare” e si trasfonde in un’offerta di fratellanza e di condivisione aperta a tutto il genere umano, ma in particolare appare indirizzata alle genti che più soffrono e che hanno perduto la pace, la casa, il lavoro e sovente sono anche stati colpiti negli affetti familiari. Il pensiero è rivolto alla tragedia degli emigranti, in particolare a coloro che fuggono dalle guerre civili, dalle vessazioni dei più forti sui più deboli, dalle torture e sovente anche dalla fame e dalla miseria. Talvolta, questi “dannati della Terra” divengono vittime dei più sordidi speculatori, capaci di approfittarsi delle disgrazie delle genti più deboli per fare di loro autentici schiavi condannati a lavori massacranti o donne avviate allo sfruttamento della prostituzione, come leggiamo nel­la realistica poesia Ritorno a Skopje: “A sedici anni ha im­parato il mestiere / troppo in fretta… notte maledetta: / «scivolata dal barcone al paradiso» / ma che dico… / è ca­duta nell’inferno all’improvviso / prigioniera del suo aguzzino / Catturata, maltrattata, violentata / uno sco­iat­­tolo senza via d’uscita: – Anastasija –”. In altri casi, come nella poesia Africa, il pensiero della Poetessa prende forma di uno sprone, un incoraggiamento, un sostegno ideale rivolto a tutti i popoli neri del continente africano, discendenti del biblico Cam, figlio di Noè, a risorgere dall’infausta sorte in cui sono caduti e rivolgersi con speranza e tenacia verso il futuro, nell’aiuto solidale delle persone di buona volontà che ancora esistono su questo Pianeta, ove sembra trionfare solo la logica dell’uomo lupo mannaro di altri uomini.

L’intero libro di Lucia Macro, il cui nome di battesimo è già un presagio e una rivelazione di luce e di calore, è proprio ciò che il titolo lascia presagire, cioè un volo di rondini, che da sempre, in poesia, rappresenta il simbolo della libertà e, con il garrire nei cieli limpidi della primavera, esprime anche la gioia della vita e l’incanto per la bellezza del creato.

Sandro Gros-Pietro

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