Fare chiarezza tra le voci

Leggendo Incompiere, la sensazione è quella di trovarsi di fronte a una scrittura anti-idilliaca, nervosa, circolare, all’interno della quale un io lirico (come vedremo piuttosto camuffato e moltiplicato) fa i conti con un qualche suo grande irrisolto (o potremmo appunto dire incompiuto), e soltanto su questa base di scorbutica fratellanza e di condivisione ferita può avvenire il necessario patto con il lettore. Posto ciò, vale la pena di seguire le simmetrie scavate sotto una superficie che a prima vista dà un effetto sfrontato e quasi aggressivo di gremito, ma soltanto come reazione a un vuoto carsico del soggetto. Una certa esuberanza dello stile e insistenza catalogatoria (si veda, in termini puntualmente retorici, l’uso assillante dell’anafora: “Troppo rapido, / troppo buio. / Troppo stanco, troppo distratto.”; “Annegare / per non concedere. / Annegare / come volenteroso sacrificio umano. / Annegare / per voto di silenzio” e molte altre ancora) va intesa proprio come febbre elocutoria in risposta a una ferita di senso, la Cosa heideggeriana e poi soprattutto lacaniana (dal Libro VII. L’etica della psicoanalisi, un riferimento che traspare in filigrana) “che in me alberga” come vuoto da costeggiare indefinitamente. Anche la polifonia interiore che Guarneri costruisce nell’arco dell’opera gioca a ribadire che non esiste soggettività che non poggi su fondamenta abissali, da Rodez (personaggio-metonimia per Artaud, ricoverato per anni nell’ospedale psichiatrico dell’omonima località) al vasaio e al bottaio, che per mestiere contornano l’assenza (“Abbraccia il vuoto, libretto del confessionale. / Veste il vuoto, sarto dell’abisso. / Il bottaio è il sacerdote del vuoto”). Si dà poi tra queste voci un continuo avvicendarsi, simile a un pudico dialogo di bisbigli (con didascalie come “Rodez ha raccontato al vasaio:”, “Il bottaio diceva che Rodez ha detto:”, “Rodez ha detto al Cordaio qualcosa, ma il Vasaio ha sentito solo questo:”), che come i finti paratesti che incorniciano il libro mette letteralmente in scena il tema del disagio psichico (risuona un chi parla? nei corridoi della mente) e insieme lo stempera nel gioco manieristico delle proiezioni.
Gran parte dell’attitudine lirica di questo libro si fonda proprio sul rapporto problematico con il confessionalismo, avversato nella sua modalità ostentata, mascherato e anche sviato sotto titoli discordanti o accensioni umoristiche, ma comunque oscillante tra le due polarità infantili della minaccia onnipotente (“Vi amo così tanto che se rinasco sarò un virus”) e della richiesta di aiuto. Un’ambivalenza simile, tra cupo rifiuto degli altri e desiderio di attenzione, attraversava anche Carnaggio, l’opera precedente di Guarneri, distante molti anni (Aracne 2015). L’infanzia come dimensione ancora in parte inesplorata, sogno ricorrente e ferita di incompiutezza è figura centrale di quest’opera, e se la prospettiva del dopo permette di riconoscersi complici della propria oscurità e dei propri smarrimenti (“Eri tu ed eri solo, / sei sempre stato tu / a farti paura / dal buio nella stanza”, “Nascondermi non mi riesce più bene / come quando ero bambino e il gioco finiva senza trovarmi”, “E invece da quarant’anni conto, faccia alla porta, / per un infinito nascondino”), così come della propria inevitabile irresolutezza (“A forza di usare l’imperfetto / lo sono rimasto”), nondimeno brucia la scopertura dell’abbandono, sotto le spoglie di un’autoparodia cristologica (“Vestitemi almeno, / procurate una protesi a questo invalido / a quest’orfano una coperta. / […] Padre, perché mi hai abbandonato?”) e tanto di più nella penombra pressappoco disperata del ricordo di una stanza (“Senza ninna e senza nanna / in una notte non si compie l’infanzia”). Le voci fin lì trasfigurate in un teatro d’ombre della psiche si precisano di colpo nelle voci che raccontano al soggetto la prima parte della sua esistenza, sempre incomprese, sempre fraintese (e fraintendimento è un’altra parola chiave di questo libro, come anche, perché non dirlo, di nuovi testi a cui l’autore si dedica da qualche tempo), come accade nella bellissima Dicciare su carte, che qui riporto per intero:

Di certo vi sarete guardati in una foto d’infanzia.
Ebbene la fiducia nei racconti sostiene la vostra identità.
Dicono
che eravate in un bosco
ma si vedono un prato e due alberi.
Dicono
che avevate giocato poco prima a rincorrere lucertole
ma si vedono un prato e due alberi.
Dicono
che poi al ritorno in auto avete dormito
ma si vedono un prato e due alberi.
Dicono che avevate un carattere dolce
ma si vedono un prato
due alberi
e un bambino.
Eppure vi riconoscete.

L’idea dell’incompiuto nell’arte si salda quindi, assai felicemente, alla nota patetica dell’incompiuto biografico, affettivo (“Quando una fessura attraversa l’infanzia / non è l’innocenza / ma la fede a restare incompiuta”). Il verbo, calco dal francese raro inachever, è un hapax in italiano, il che denota una difficoltà basilare a concepire l’incompiuto come un processo e un divenire, e non soltanto come risultato voluto e specialmente fortuito (al termine di Categorie ci viene proposta una breve casistica degli incompiuti, ma la spinta tassonomica arriva già senza fiato, posto che “l’elenco completo delle opere incompiute è irrealizzabile”). Il valore euristico che l’autore attribuisce all’incompiuto sta forse in quel sogno di infinità che lascia aperto il cerchio, se l’infanzia è ancora “una speranza di ricordo/ la promessa della pagina capovolta”, se “il frammento gravido porta l’impronta della memoria materia” e non può mai esaurirsi, né sulla carta né sul proprio corpo, l’analisi di sé. L’agonismo di questo libro dipende in gran parte da questo successo a metà, da questo fallimento a metà: ciò che non si è compiuto non smette di riproporsi senza fine nella scrittura, e lì trova di volta in volta il proprio struggente, momentaneo compimento.

Andrea Accardi

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