Introduzione

Quando ho ricevuto la mail di Fabrizio in cui mi chiedeva se potessi scrivere l’introduzione alla sua ultima fatica, Inseguendo una visione, sono rimasto lietamente sorpreso e anche un po’ inorgoglito da questa richiesta. Io non sono uno scrittore, anzi, né sono un critico letterario. Sono un semplice lettore dilettante che ha avuto la fortuna di conoscere Fabrizio e di apprezzarne la scrittura nei suoi due precedenti libri.
Poi sempre nella stessa mail Fabrizio aveva allegato un breve riassunto del libro e mi annunciava che a giorni me lo avrebbe inviato completo per poter scrivere l’introduzione. Ho aperto l’allegato e un po’ mi si è gelato il sangue ed ho iniziato a preoccuparmi maggiormente perché il riassunto del suo libro verteva sulla creazione del “giardino più bello del reame”. Raccontava di piante aromatiche, fiori, verdure, piante ornamentali, insomma tutto quello che riguarda la “Natura”. Ed ho iniziato a sudare freddo. Perché? Perché io “Odio la Natura”… oddio la parola odio è un po’ esagerata. Diciamo che ho un totale rispetto per la Natura a tal punto che io sto qui e lei là. Abbiamo poco da condividere: io sono un cittadino da quando sono nato, vivo nel cemento, nello smog, nel traffico. Io mi vedo meglio a New York piuttosto che in una cascina delle Langhe. Pensate che un mio spettacolo inizia con: “Odio la Natura”. Un incipit non proprio fortunato soprattutto se lo spettacolo si rappresenta in una località di campagna, come è successo.
A supporto di questa teoria porto argomentazioni illustri come Pavese oppure Rohmer nel suo film Il raggio verde, ma in effetti è solo un escamotage artistico per introdurre le letture di brani letterari, canzoni e di poesie (affermo anche che odio la poesia, forse perché non la capisco molto, ma è sempre un mio limite).
Con queste premesse emotive mi accingo a leggere la sua ultima fatica letteraria. È un “manoscritto” nel senso che ho stampato il file che mi ha inviato poiché non sono tanto capace di leggere i libri sul Mac. Un altro mio limite, ma non siamo qui per analizzarmi bensì siamo qui per leggere il libro di Fabrizio.
Per affrontare la lettura mi sono messo vicino gli altri due libri che ha scritto Fabrizio. È un modo osmotico per affrontare la nuova lettura. Sento che il nuovo libro sarà all’altezza dei due precedenti, che mi sono piaciuti molto.
Però prima di affrontare l’argomento del nuovo libro vorrei semplicemente raccontarvi come ho conosciuto Fabrizio. Abbiamo lavorato nella stessa Società di assicurazioni. Lui nei rami prettamente assicurativi, io prima nel mondo informatico, poi in quello della formazione.
Ed è in questa mia seconda funzione che ho avuto modo di approfondire la sua conoscenza. Gestivo insieme a dei giovani colleghi le aule virtuali, antesignana della formazione a distanza divenuta indispensabile durante il Covid19. Lui accompagnava le sue giovani colleghe che tenevano i corsi nelle aule adibite dalla Società e mi teneva compagnia in regia. Iniziamo a chiacchierare e scopro molte affinità con Fabrizio. Innanzitutto, siamo entrambi figli unici, cosa abbastanza frequente per quelli della nostra generazione. Lui del ’57, io due anni in più. Lui cresciuto in zona Santa Rita, io in zona Francia, sempre a Torino. Lui padre di due ragazze, gemelle, io padre di due figlie, non gemelle, ma pur sempre femmine. Lui metà langarolo, come me, ma l’altra sua metà sempre piemontese, io invece mezzo marchigiano, ma va bene così. Una cosa ci divide. Il calcio. Lui nerazzurro, io bianconero. Ma il reciproco rispetto non ci fa scendere nelle tristezze delle rispettive tifoserie.
Prima Fabrizio lo avevo solo incontrato casualmente, ciao ciao e basta, ma questa condivisione forzata ha fatto in modo di approfondire la conoscenza e mi si è aperto un mondo. Scopri nei colleghi delle attitudini che mai avresti pensato. Sapevo della sua passione per il gioco delle bocce, ma non sapevo del suo amore per la scrittura. Mi raccontava che stava preparando un libro di racconti sulla sua adolescenza, la sua crescita nella zona di Santa Rita.
I giochi di strada che si svolgevano con passione da quelle parti erano gli stessi che praticavamo noi in zona Francia e probabilmente gli stessi in zona Mirafiori o Falchera. E dire che non c’erano i cellulari o Internet che facilitasse il passaggio di informazioni eppure, a parte qualche piccola differenza, le regole erano le medesime. Precise e inderogabili. E noi come soldatini ci attenevamo scrupolosamente.
Esce il libro. Già il titolo, secondo me, è perfetto. Rappresenta con tre parole, due verbi e un nome proprio, tutta l’autoironia sabauda che caratterizza la scrittura di Fabrizio. Volevo essere Robin racconta con leggerezza, simpatia e con già citata autoironia la crescita di un ragazzo negli anni sessanta in una Torino in pieno boom economico. Indimenticabile è il racconto delle partite di pallone nel parco Rignon, la trattoria Veglio, quella dei nonni, con tutti gli aneddoti annessi, la preparazione meticolosa del presepe e dell’albero di Natale, attività che coinvolgevano l’intera famiglia settimane prima della famosa nascita. Ma un posto privilegiato nel mio cuore l’ha lasciato la meticolosa narrazione delle mitiche partite di calcio-tappo. Non entro nel merito per darvi modo, acquistando il libro, di godervi in pieno tutto il lavoro di preparazione a queste fantastiche partite di un Subbuteo artigianale, con pieno coinvolgimento anche della nonna per la preparazione del campo di gioco. Per gli uomini della mia generazione, un po’ sfigatelli, è un racconto imprescindibile. Così come è stato un tuffo nel passato il racconto della visione dei film a fine settembre solo per la zona di Torino durante il Salone della Tecnica. Grazie a quei film in bianco e nero io mi sono salvato alla maturità, ma questa è un’altra storia…

Poi arriva il secondo libro. Un libro che non avrei mai voluto leggere e sicuramente Fabrizio non avrebbe mai voluto scrivere.
Come per il precedente Fabrizio ha usato la tecnica del racconto in forma di diario. Ci sono esempi illustri quali Svevo, Bulgakov e Tabucchi. Ho letto che “il diario è una forma prenatale di scrittura. Chi scrive un diario è un pre-scrittore. Non cerca lettori, cerca sé stesso”. E mai come in questo secondo libro (scrivo secondo ma in realtà è il terzo perché Fabrizio ha anche scritto un libro sul gioco delle bocce, ma io non avendolo letto per me questo è il suo secondo) lo scrittore entra nel dettaglio preciso con una lucidità direi chirurgica. Vi riporto l’incipit che di per sé è devastante.
“Ha risposto I. dal Giappone: è proprio un mieloma”.
“Minchia!”
“Io vado da L. per capire come ricoverarti”.
Patrizia mi dà un bacio sulla fronte e se ne va diretta allo studio del nostro medico di base.

Guerra ai cattivi racconta con una precisione disarmante tutto il calvario che Fabrizio ha affrontato dopo la diagnosi tremenda che avete letto. Lo fa con il suo stile narrativo, che ormai mi è famigliare, sempre tenendo lo sguardo sul racconto, ma mai lasciandosi vincere da una comprensibile disperazione. La sua scrittura è sempre acuta, dettagliata anche raccontando una malattia devastante non perde mai la sua “visione sabauda” del mondo. Il lavoro dei medici, degli infermieri, la dedizione di sua moglie Patrizia sono narrati con rispetto della professionalità e dell’amore messi a dura prova anche dal contesto in cui si opera. Siamo in pieno Covid19. Tutto è maggiormente complicato, come se fosse possibile complicare questa tremenda malattia. E così dopo aver citato l’incipit vorrei proporvi il finale del libro (non è un giallo e non faccio spoiler di nulla!)

“Anche l’attesa è un cammino. Mi aspetta un tratto di strada accidentato, un percorso impervio, il più difficile fin qui affrontato perché la meta è incerta e senza tempo. Se l’attesa è un cammino, allora Buen camino.”

E il Buen camino ci ha portato questo libro. Inseguendo una visione. Qui troviamo Fabrizio in età più adulta che prende decisioni sulla sua vita insieme a sua moglie Patrizia. Scelte importanti che portano il cittadino di zona Santa Rita a Torino a vivere a San Bernardino di Trana. E qui le affinità con Fabrizio iniziano a divergere. Io non sarei mai andato a vivere fuori città e forse nemmeno lui, ma l’amore fa fare delle cose particolari, e lui per amore ha fatto una scelta importante. Probabilmente non sono stato innamorato a tal punto, oppure l’oggetto del mio amore non mi ha mai posto ad un bivio del genere, in tutti i casi lui ha preso questa decisione che gli ha cambiato la vita, e visti i risultati raccontati nel libro, gliel’ha cambiata in senso positivo.
Sempre con la sua scrittura precisa e minuziosa ci racconta come è entrato nel cuore degli abitanti di San Bernardino, come è riuscito a farsi accettare, lui mister cravatta visto come un elemento estraneo al contesto campagnolo. Poi per vari motivi organizzativi hanno dovuto cambiare abitazione, ma la scelta è stata condizionata dall’amore per la natura sbocciato tra Trana e Giaveno. Hanno trovato una casa in Torino con annesso un giardino. E da lì iniziano una serie di racconti, vicissitudini famigliari, aneddoti gustosissimi sulla preparazione del più “bel giardino del reame”.
Tutto è raccontato con leggerezza abbinata ad una precisione a me sconosciute. Leggendo le parole di Fabrizio sembra di essere lì insieme a lui a prendere le decisioni su come organizzare la piscina, su come distribuire le varie zone dedicate all’orto, ai fiori. Sei trasportato nel suo mon­do, un mondo a me completamente estraneo, ma che pian piano inizio ad apprezzare.
Non voglio togliervi il piacere della sorpresa, ma ritengo che alcuni passi del libro siano indimenticabili (Tanto se leggete queste righe il libro lo avete già acquistato, quindi il più è fatto!!!)
L’elogio dell’auto-bloccante è stupendo, come lo è immaginare Fabrizio canticchiare canzoni neo-melodiche ai pomodori Pachino (un piemontese doc che canta neo-melodico è imperdibile). Le numerose citazioni letterarie sono molto pertinenti e arricchiscono il racconto. Troviamo il poeta Arminio, il russo Dostoevskij, il grande Cardarelli ed il premio Strega Annamaria Ortese e molti altri.
Inoltre, ho ritrovato citati alcuni film in bianco e nero che mi avevano terrorizzato in gioventù e che hanno fatto lo stesso effetto su Fabrizio.
Oltre alle dotte citazioni botaniche ho trovato meraviglioso e poetico il rapporto che l’autore ha con il suo gatto Birbo. Un’altra affinità con Fabrizio è l’amore sconfinato per il felino domestico. Starei ore e ore ad osservare un gatto.
Ragazzi, in conclusione, se siete della nostra generazione e siete di Torino, leggete questo “Trittico della memoria” per ritrovarci accumunati ad un mondo che non c’è più, ma che ci ha reso quello che siamo adesso. Se non siete di Torino leggetelo perché capirete che siamo altro oltre bugia nen. Per i più giovani, se avete un po’ di fantasia e curiosità di vedere come vivevano i vostri genitori e forse nonni, immergetevi senza remore in queste pagine.

Se gli americani si possono vantare per la trilogia di Philip Roth composta da Pastorale Americana, Ho sposato un comunista e La macchia umana, noi sabaudi e langaroli rispondiamo con la trilogia di Fabrizio Veglio Volevo essere Robin, Guerra ai cattivi e Inseguendo una visione. Beh, forse la mia parte sabauda-langarola con questa affermazione ha lasciato posto all’altra parte che alberga in me, vale a dire quella marchigiana, un po’ più estroversa ed esuberante.

Buona lettura.

P.S. Dopo aver letto Inseguendo una visione guardo con meno scetticismo e forse con più ammirazione Alessandra, la mia compagna, mentre cura con amore i vasi con le piantine che abbiamo nel nostro appartamento cittadino.

Giulio Liberati

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