PREFAZIONE

Bisogna subito dire che questa non è semplicemente una raccolta di poesie, ma un vero “libro” provvisto di una sua ratio ben riconoscibile, attraverso cui l’autore ci propone un ideale consuntivo della propria vita, dalla scoperta adolescenziale della parola poetica sino alla tarda maturità. Quasi un romanzo di formazione alla maniera della Vita nuova dantesca, alla quale si apparenta anche per il potente valore conoscitivo assegnato all’amore. E a proposito di Dante, non si può non sottolineare subito l’epigrafe che compare in apertura, tratta da un passo anche teologicamente cruciale del Purgatorio (XXII, 60-61).
In questo romanzo c’è proprio tutto Bruno. Il suo lavoro di docente di lettere e la passione di letterato militante. I ricordi d’infanzia, i paesaggi familiari di Stradella e dintorni (le passeggiate con il nonno a Montalino!). Naturalmente la fede, tutt’altro che pacificata ma piuttosto tesa a un franco colloquio con un Dio a cui si può (si deve?) chiedere conto del male del mondo. E persino la politica, però interpretata soprattutto attraverso un risentito filtro morale.
Ma infine, o meglio in principio, ci sono gli affetti domestici. Le due figlie Chiara ed Elisa, una terza figlia perduta prima della nascita ma riconosciuta e chiamata per nome, quello manzoniano di Lucia (Maria Tramaglino si intitola non per nulla un intonato romanzo di Civardi). Soprattutto la moglie Maddalena, che lo ha accompagnato nella scoperta della “vita nuova” prima di lasciarlo troppo presto per il solito male inguaribile (non però incurabile, come dimostrano qui certi struggenti versi, per esempio nella poesia I tempi del tempo).
È inevitabilmente un libro retrospettivo ma, altrettanto inevitabilmente, vitale. Come confessa con candore in Premessa, Bruno ha voluto metterci anche una scelta di testi che risalgono al 1965 (quando aveva 15 anni!) e che sente ancora parte importante di sé, non semplicemente affettuosa memoria. Ho anzi il sospetto che, come Foscolo con il suo Ortis giovanile, il nostro poeta abbia rielaborato anche successivamente quei materiali sentendoli appunto come una cosa viva.
Ma, come ho detto all’inizio, questo è soprattutto un “libro” perché le sue diverse parti si combinano con coerenza e corrispondono a una precisa “struttura”, per usare una brutta parola.

Vediamone lo svolgimento. Dopo un testo proemiale, seguono due libere evocazioni dell’Odissea: Echi, titola l’autore; chissà se frutto dell’esperienza di docente o di discente. A ogni buon conto si tratta dell’episodio di Elpenore, presso il cui tumulo «viandante non è passato, che l’abbia onorato, o veduto». Sentimento di abbandono che si coniuga con quello dell’Ancella di Itaca, destinata – lungo tutte le peregrinazioni del suo padrone Ulisse – all’alienante lavoro della macina. La stessa macina, con quel movimento che inesorabile ritorna, si trasformerà più avanti in metafora: esattamente nella lirica Fuga, a rappresentare un male di vivere colto appunto nel «rigirare la noria consueta, / la macina della propria fatica». Sia detto subito che analoga figurazione si lega a lemmi come ruota, rotore e motore, o anche appunto noria, e poi carrucola e persino giostra: parole che connotano da un lato il movimento – spesso inane – dell’esistere (l’uomo è definito «ruota vitale» nella poesia Il Bivio); dall’altro lo scorrere del tempo, secondo un ruit hora che Civardi desume non solo dai suoi classici ma anche dalla propria esperienza, si veda per esempio il rapido sfumare di un Natale d’infanzia: «Poche ore, o nemmeno, dura il sogno / di chi ha bisogno il mondo a sé dintorno, / e questo fugge, come fugge un giorno». Il lettore prenderà buona nota degli echi leopardiani e petrarcheschi di questi ultimi versi, così come dei ben congegnati endecasillabi. Ne riparleremo, ma proseguiamo intanto nel nostro excursus attraverso il “libro”.

La sezione Adolescenza e giovinezza comprende testi meno puerili di quanto dichiarato dal titolo, consistenti – i più riusciti – in rapidi e quasi surreali versicoli (palazzeschiani?) applicati a riflessioni profonde desunte da Leopardi, il primo amore obbligato di ogni poeta. Versicoli, anche di una sola parola, la cui misura non abbandonerà più il nostro autore, accompagnandolo sino alle sue stagioni più tarde: sono dunque un suo stilema. A mio parere sono qui meno efficaci certe composizioni che si distendono sul modello della strofe lunga dannunziana. Fa eccezione la poesia Meridiana, che sin dal titolo occhieggia appunto al grande Vate, ma scegliendo una misura ridotta che mi pare più adatta alle corde di Civardi, le quali attingono all’assoluto per vie più quiete e domestiche.

Segue il capitolo Amore e disamore, che innesca l’assunto narrativo di questo canzoniere (non spreco la parola: dico proprio in senso petrarchesco). Decisiva la prima di queste liriche, Volo nuziale, con l’idillio che sboccia in una fiera di paese tra gli «sconosciuti colori» di una «selva fiorita / di giostre» prima di disvelare l’incanto: «Le vecchie / biciclette / frullavano su / invisibili / ali. // Mai ritorno / fu così bello. // Irripetuto e casto / volo nuziale nostro». Notevole in tutto il testo la scansione settenaria, spesso franta in due membri minori: il poeta, allora ventiduenne, si mostrava insomma già scaltrito artigiano. Sono in questa sezione le già ricordate poesie dedicate alle figlie e un paio di testi lunghi, forse troppo lunghi, sul modello della Laus vitae dannunziana. Ma irrompe qui netto anche il tema religioso, con l’agostiniana domanda sul perché Dio ammetta il male e soprattutto con la lirica che si intitola Bestemmia, ove con incalzante ritmo iterativo Civardi si pone domande come queste: «Siamo balocchi / d’un Mangiafoco sommo? / Dio, padre / o padrone? / Padre padrone / o Padrone padre? / E che fa la gran Madre?». Con la coerente conclusione: «Bestemmiato il genitore, / non resta che / nel génito sperare / perdono, amore». Anche questa affabulazione barocca, tipica del mistico, è contrassegno del nostro poeta.

Al mio gusto appaiono meno felici le poesie politiche (sebbene condite ancora di religione e umana compassione) di Storie senza storia. Tuttavia funzionano benissimo come motivo centrale, vero discrimine, del canzoniere. La più interessante è quella sul Generale Pinochet, sotto forma di una lettera-apostrofe firmata da una sfilza di personaggi non casualmente assortiti, cominciando da Socrate Ateniese ed Emanuele di Nazareth per continuare con san Francesco, Celestino V, Erasmo, sino a Kant, ai giudici Falcone e Borsellino, e così via (utili coordinate per comprendere la posizione ideale dell’autore). Ricompare in questa lirica l’efficace espediente iterativo caro a Civardi: «Timoroso che mani affamate / lo colpiscano e fuggano nel buio, / nel buio dove lei le ha cacciate». E poco più sotto: «E quando le nostre flebili, / flebili voci d’amore». (I corsivi sono miei).

Il breve capitolo di Disfiorato fiore riguarda i testi dei quarant’anni di Bruno ed è incentrato sulla perdita della terza figlioletta, ancora nel grembo della moglie. Uno strazio però cantato a ciglio asciutto, senza nessuna indulgenza a certa retorica del dolore. Anche qui il meglio viene, più che da effusioni di parole e pensieri, da alcune rapide folgorazioni che recuperano il brio della prima maniera. Per esempio nell’elegia cimiteriale Riposano: «Lassù sottoterra / riposano i nonni / e le vecchie ossa / si sfanno nel fango, / in silenzio. // Riposa / mio padre / ed il corpo / robusto / si smonta, / si sgretola, / ròso / dall’acqua ferrosa / del fango. // Riposa / Lucia, / nella piccola / scatola bianca. // Ma da che si riposa, / se neppure ebbe il tempo / di essere stanca?». Dove, oltre alla bella invenzione finale, è ancora notevole il gioco iterativo e allitterante sulla linea riposano – nonni – ossa – si sfanno – fango – Riposa – si smonta – si sgretola – ròso – ferrosa – fango – Riposa …

Bruno è nel decennio dei cinquanta quando compone i testi di Con Cristo, senza Cristo. Il primo dei quali è dedicato al «corpo materno» della moglie, che si indovina toccato da un primo manifestarsi del male e che il poeta – rimodulando l’Ungaretti di Sono una creatura – contrappone alla propria anima: «Come questo tuo corpo / così caldo, sinuoso, / così tenero ed ampio, /così rigoglioso, // corpo-grembo, corpo-seno, / corpo-luogo amoroso / dei figli tuoi, del tuo sposo, // non fragile o sottile, / ma tanto profondamente, / anzi radicalmente / femminile, / … / come questo tuo corpo / così, con la tua, / anche l’anima mia / assalita, colpita, / deturpata, violata, / ormai depauperata, / inaridita, / … / anzi totalmente, / radicalmente devastata // e piange esausta, / temendosi tutta / perduta». Si fa più nitida la chiave religiosa, come per esempio nei bei novenari nascosti (si tratta in realtà di versicoli più brevi, però scanditi su quel ritmo) della poesia Il Pastore il cui protagonista, con la maiuscola, è chiamato da forza irresistibile a condurre sempre più in alto le sue pecore. Ma, come ci spiega l’autore, «La forza / che attira / il Pastore / non può possederla / un gregge / che muore». È dunque necessario tornare indietro e ricostituire con gran fatica il gregge. Di qui la domanda finale, che è quella di un mistico: «Perché mai / allora / andar così forte, / se le Tue pecore / dietro / minaccia / la Morte?» (si noti ancora la maiuscola, stavolta di Tue). Potente anche la rappresentazione di A casa di Lazzaro, in particolare nell’incipit: « Scosta la pietra / posta / sulla tomba. // Ti desterai / col puzzo che ne esce»; e nella chiusa: «Questo / l’hai tu voluto, / narrano // (ed ancora / quaggiù l’eco rimbomba) // La sola via d’accesso // è adesso / la tua tomba». Anche qui si noteranno misure tradizionali scomposte in versi più brevi. Per esempio due endecasillabi nei primi versi, cinque settenari nei successivi. Sono molto belli anche gli altri testi di questa sezione, tra i quali mi pare spicchi l’ultimo, dall’evocativo titolo Atque in perpetuum: «Verbo diverso / non esiste: // all’empio, // o il Tuo / eterno // o l’etterno / silenzio». Con la conclusiva citazione dantesca preceduta da rimbombanti ripercussioni che non si dimenticano.

Segue la sezione La strada dei nonni, con memorie e paesaggi d’infanzia, che creano una pausa salutare rispetto al successivo drammatico sviluppo del libro. Apre la filastrocca Un vecchio ed un bambino (con la chiosa: «Lui era il nonno, / ed io son quel bambino»), seguita da sapide poesie dialettali che affondano le loro radici nella cara civiltà contadina di cui appunto è voce il dialetto, però nobilitato da misure metriche canoniche, soprattutto l’endecasillabo. Ma sul tema di fondo s’innestano meditazioni religiose, qualche spunto dall’amato Leopardi (La Stanza è in parte esemplata sulla Sera del dì di festa) e persino un umile e ruspante esempio di epos partigiano. La più originale di queste liriche è forse il sonetto Adèss che i dònn, soprattutto per il ritratto autocritico (accentuato da una citazione cavalcantiana in epigrafe) del poeta in preda a un’invincibile abulia. Eccone un lacerto: «Sto insì, sénsa di’ gnént, pâr tûtt âl dì: / g’ho in mân la pâna, e so’ bón no da scrìv, / ciàp un lìbar da légg, e gh’la fo no».

Ancora un inserto sociale o senz’altro politico nel capitolo intitolato Altre storie. Irrompe la cronaca di Rai e Mediaset, di Nassiriya, dei profughi. E certo non mancano ottimi spunti, come in Eneide albanese: dove Civardi mette in guardia un giovane profugo dai miti volgari dell’Italia contemporanea, alternando il ‘racconto’ con citazioni virgiliane e concludendo (stavolta con richiamo al «garzoncello scherzoso» del Sabato del villaggio): «Attento, scherzoso garzone: / t’aspetta il cordone / della polizia // o la malavita di periferia. // Volevi una terra di sogno. // Avevi bisogno / la terra d’Evandro e Pallante, / di Turno, Cammilla e Latino. // Invece, / tra ignobili noie, / ti trovi una terra affollata / di Paridi, d’Elene // e troie». Dove anche il botto finale non suona stonato. Nel complesso, però, mi sento di confermare che quando il nostro poeta si propone di esprimere un messaggio così esplicito risulta meno schietto e convincente.
È però sempre interessante l’uso delle fonti. Guardate come in Nassiriya egli riesca a combinare diversi materiali (dall’Ungaretti di In memoriam al Saba di Città vecchia) per rappresentare la sua fantasia poetica: «… la cantilena del Corano nella mente / impazzita per amore».
Anche la sezione appena ricordata ha una precisa funzione strutturale. Essa infatti costituisce un ultimo distacco dal filo conduttore del libro, per preparare i due successivi capitoli che lo chiudono in un vero crescendo drammatico verso il grande vuoto della morte di Maddalena. Ma in entrambi cresce anche il livello poetico, sempre più sicuro, come di una maturità che non si fa vecchiaia.

Il titolo Inconclusioni allude meno a una poetica negativa, montaliana, che a un senso biblico e cristiano del ruit hora: c’è più Giobbe che non un insensato scacco esistenziale e metafisico. Fa parte di questa sezione la breve ma intensissima lirica Cuore, dove Civardi con grande sapienza poetica riprende e perfeziona quella figurazione barocca che abbiamo già incontrato: «Cuore, / o cuore ottenebrato, / immobile rotore / di rutti di peccato, // ch’io ti scopra e denudi / del velo miserando / di che sei riparato. // Il nero magma infetto / che putrido in te pulsa / (mentre l’anima è avulsa) / inciso il duro petto, / appianerà, sgorgando, il gran tumore. // Bisturi del dolore, grazie ti rendo, / se mi rendi amore». Dove ritroviamo, con l’amata cadenza settenaria, anche alcuni lemmi prediletti come anima e soprattutto cuore. La loro elevatissima frequenza in tutto il canzoniere ci dice non di un vieto ‘romanticismo’, ma piuttosto di una profondità di assunto che è essenzialmente morale, nell’accezione petrarchesca. Ma si legga anche la seconda parte dell’Armonia prestabilita, dove il poeta così si raffronta con l’ottimismo leibniziano da cui deriva il titolo: «Qualche supremo Babbo, / che ha nobili ragioni, // o una cosmica serie di stagioni / disposta a nostro gabbo, / che ripropina a modo / il suo ciclico brodo?». Con la sarcastica conclusione: «Beh, se vuoi dell’angoscia / fare senza, / il tutto definisci // Provvidenza». È il Leopardi della Ginestra, che però non si arrende mai veramente al non senso della vita: se è vero che, nella successiva lirica I tempi del tempo, pur ricordando la malattia della moglie – «la tua / (e un po’ la mia) / quella del corpo / che l’anima ferisce» –, il poeta può abbandonarsi a una conclusione come questa: «Quanti tempi / nel tempo, / motore della vita / che viviamo. // Ma verrà finalmente / il tempo senza tempo, /dell’amore sicuro, / il tempo che non muore, // il tempo vero e puro». Parole di speranza, ben scandite ancora sulla misura settenaria, che potrebbero essere poste in esergo al libro. Ma c’è posto, in questa sezione anche per il funambolico Ultimo (un altro) canto di Saffo, che sapidamente mima la lezione del professore con inserti greci e non solo. È un Civardi tanto profondo quanto autoironico, capace di virtuosismi come questi: «Ritorna il canto / o forse / torna il conto // È la luce d’Artemide / e d’Apollo, // del Buon Apollo, all’ultimo lavoro // e noi non siamo spenti, / ma / assorbiti // dentro più intensa / (molto più intensa) // luce». Il corsivo dell’autore riproduce un famoso verso dantesco; così come al sommo poeta esplicitamente richiama il titolo dell’ultimo componimento della sezione, Comedìa, infarcito di altre consimili citazioni sino al finale che introduce, nel nome di una luce sperata, al capitolo conclusivo del libro: «È vita tutta nuova. // Tu berrai ogni oblio / per presentarti a Dio, // poi nel cerchio di luce meridiano / sorridere vedrai un volto umano».

Per arrivare a questa luce il poeta dovrà però bere l’amaro calice del dolore, subito dichiarato nel Salmo (allude al dodicesimo della Bibbia) composto per la Pasqua del 2017, che inaugura la sezione eponima Le insufficienti armonie. La moglie vicina alla fine, Bruno ci lascia un’alta confessione cristiana mescolando fede schietta e umano risentimento: «insieme con il pane quotidiano / mastico pena e dolore. // Fino a quando, Signore? Fino a quando? // Tu sei eterno giocatore, / e rilanci la posta all’infinito. // Io son quasi tentato / di rovesciare il tavolo di gioco, / di buttare le carte e andare via, // tutto arrabbiato». Mi pare questo il vero testo della morte di Maddalena, anche se più esplicitamente vi fa riferimento il successivo, e pure struggente, Accanto a Maddalena che muore. Qui Bruno si affida a Dio «Come un bambino alla sua mamma», chiedendo calore e consolazione, per concludere con un vero colpo d’ala: «Oggi so questo: è molto faticoso / vivere / (anche morire, vedo, è faticoso), / ma peggio di tutto/ è sopravvivere». Il livello poetico di questi ultimi versi mi pare in assoluto il più alto del libro. Si prenda il successivo Carnevale, folgorante gioiellino in cui è respinta la ferale allegria della festa, a cui Bruno preferisce la pur mesta intimità della casa («Il resto mi fa male», come leopardianamente conclude). Oppure Nebbia (nel «grigio colore del nulla /…/ Cammino tra questa gente / come tra vani fantasmi»). O la lirica successiva, giocata ancora sul topos allegria fuori-tristezza dentro: («Primavera ritorna. / Tu no, non torni»). E nel successivo onirico ‘notturno’, che vale la pena di riportare integralmente: «Questa notte al mio fianco / giacevi tu / t’ho sentita, nel buio / sono certo / un sogno / o forse un segno / e timido, tremante / ho allungato la mano / sei fuggita … /ma continua ad amarmi, / a visitarmi / ombra di vita». Come si vede, la misura si fa più breve e concentrata, ma proprio perciò più limpida; mentre il poeta padroneggia sempre meglio l’apparato retorico, dalle partiture fonico-ritmiche (prevale qui la dentale sorda t: tu – t’ho sentita – timido – tremante – fuggita, ecc.) al ben vigilato bisticcio sogno-segno. Ma bisognerebbe citare anche la poesia Il gorgo, con quell’espressionistico «ghigno beffardo» che Bruno riconosce nelle acque increspate del fiume in cui pure da giovane si era tuffato con la sua bella; la stessa dolce e terribile Voce, quella della moglie che di notte, «nella stanza nuziale senza nozze», invita il marito a non cercarla nella primavera e neppure nei fiori nati sulla sua tomba, per concludere: «Sai che io sono carne / putrida, / in sfacelo / sotto la nera terra, amore mio. // Né stare a occhi bassi / tutto il tempo // o sentirai più grande / la nostra insufficienza».
Tra le altre liriche di questa sezione, tutte apprezzabili, ricordo ancora almeno Nascesti, composta a poco più di un anno dalla scomparsa di Maddalena e caratterizzata da un tono più elegiaco, con distese sonorità iniziali («Nascesti nella bella primavera. // E così rinascevi ogni stagione / che sa di rose e teneri germogli, / di fresca fienagione») che cedono però il passo a una chiosa livida e luttuosa, in cui non manca la polemica con Dio: «Non ti raggiunge sole/ al di là della pietra che accarezzo, / ghiaccio tra le dita. // Il cuore si è strappato / e a nessuno consento il ricucirlo, // ahimè, neppure a Cristo».
L’elegia si tramuta in speranza nell’ultima poesia, della sezione e del libro intero, dove il poeta ricorre alla duplice sicurezza del sonetto e della sua buona parlata dialettale per raccontarci un Incubo quieto che insiste più sul secondo che sul primo membro dell’ossimoro: appunto la quiete di una luna che – ancora Leopardi – s’insinua tra piante e muri, in alto le stelle, mentre il poeta non vuole rinunciare a questa pace contemplativa per un momento ritrovata. E fa impressione leggere, con il solito Leopardi, anche un Petrarca dialettale (da Solo e pensoso) in versi come questi: «E tâcc e cà e piânt e strà e muntàgn / e câmp, e tûtt âl mond, âl vâ stà scûr, / ’me vûn ch’âl g’ha vârgògna ammà a guardàl: // ma la lûz âd la lûna e di cumpàgn / la frûga i piânt e la va zu pr’i mûr / tân delicata, che la fa no mal».

Conclusione dunque quasi a comedìa, dichiarata del resto anche dalla citazione manzoniana in epigrafe a questa lirica: «a tanto strazio / cadde lo spirto anelo / e disperò; ma …».
Pudicamente il poeta omette l’ultima parte della citazione. Gliela aggiungo io come augurio, per lui e per tutti: «… ma valida / venne una man dal cielo, / e in più spirabil aere / pietosa il trasportò».

Gianni Mussini

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