Prefazione

È impossibile, soprattutto se donne, non sentirsi subito coinvolti appena si comincia a leggere questo emblematico romanzo di Edith Dzieduszycka, Intrecci, che sin dall’inizio si annuncia come un’analisi attenta e ragionata di temi e situazioni tipiche della femminilità. Analisi ragionata ma non fredda, sia ben chia­ro, anzi partecipe dei problemi che assillano le protagoniste e che sono quelli di sempre, irrisolti perché impossibili da risolvere, come la quadratura del cerchio.
Così, attraverso le storie personali di Valeria e Clara – in cui si fa presto a riconoscersi, certo non nella totalità ma in isolati episodi della loro e della nostra vita – gli elementi che compongono l’universo femminile, spesso illogico e contraddittorio, sfilano davanti a noi invadendo i nostri pensieri e trovando conferme di dubbi, ansie, paure inconfessate.
Un universo spesso illogico e contraddittorio dicevamo, perché bisogna ammettere, per essere imparziali, che alcuni stereotipi sulle donne, se non sono proprio verità, di certo la rasentano. Che siano fatte a “modo loro”, che, in particolare quelle in coppia, non siano mai davvero contente o soddisfatte e ci sia sempre qualcosa che non va, sono preconcetti che contengono spesso una buona percentuale di realtà. Per rendersene conto (oltre che interrogarsi onestamente) basterebbe leggere uno dei più bei romanzi della letteratura mondiale, Oblomov di Ivan Goncharov, in cui si trova descritto in maniera perfetta tale insolubile rebus. Olga, la donna da Oblomov amata ma perduta per la sua rovinosa apatia, ha sposato il suo più caro amico, Andrej Stolz, e vive felicemente con lui. Ed è talmente felice che, a un certo punto del loro matrimonio, si intristisce ed è sopraffatta dall’angoscia. Andrej (figura maschile che non sembra uscita dall’immaginazione dell’autore, tanto è vicina all’ideale di uomo che ognuna segretamente costruisce dentro di sé) si preoccupa per lo stato in cui si trova l’adorata moglie e cerca di indagare parlando con lei. Olga è giovane, sana, innamorata e dal­la vita sembra aver avuto tutto: non può nemmeno lamentarsi dell’uomo che ha accanto, “simply the best” come cantava Tina Turner. E allora? “Forse tu sei arrivata a quel momento, in cui la vita si ferma… non ci sono più enigmi, essa s’è rivelata tutta…” ipotizza Stolz. “La felicità trabocca, si ha tanta voglia di vivere… e a un tratto vi si mescola questa tristezza e amarezza” ammette lei. Suo marito, per confortarla, aggiunge poco dopo: È la tristezza dell’a­nima che domanda alla vita il suo segreto. Semplicemente il migliore, appunto. Anche perché Stolz/Goncharov può voler significare che la sensibilità delle donne è tale da far loro sentire il brivido dell’infinito, del mistero che va oltre l’esistenza. Allora tutto ciò che è terreno, e quindi finito, perde di importanza: persino la gioia non riesce a riempire quel senso di vuoto chiuso da sempre e per sempre in fondo al cuore.
Chiarito questo, possiamo affrontare serenamente le vicende di Valeria e Clara, che vivono l’una con un compagno, Giuseppe, e l’altra con il marito Riccardo e tre figli. L’inizio della narrazione ci fa sentire subito vicino ai protagonisti in questo piccolo mondo quotidiano dove ritroviamo accadimenti, ragionamenti e conclusioni che conosciamo bene e che viviamo ogni giorno in prima persona. Soprattutto nei pensieri, perché la storia si sviluppa nei lunghi monologhi interiori di cui le donne sono tanto esperte; quelli cioè rimuginati nelle lunghe ore di solitudine, mentre gli uomini sono al lavoro e i bambini a scuola, mentre cucinano o stirano o caricano gli elettrodomestici. Gesti talmente di routine da favorire tormentose elucubrazioni mentali; e non importa se si ha la fortuna di avere un lavoro: le incombenze raddoppiano ma l’isolamento resta. Nonostante ciò, quel­le ore solitarie sono confortate dall’attesa del ritorno dei propri cari e dalla convinzione che ci si stia sì sacrificando, ma per loro e per il loro benessere, sentendosi pure in colpa se si trovano dei momenti da dedicare a se stesse.
All’aprirsi del sipario – mi sia concessa quest’espressione teatrale che focalizza così bene il punto della situazione – troviamo Valeria che si tormenta macerandosi in un flusso continuo di pensieri, per niente inconscio, quando è sola in casa davanti alla sua solitudine. È allora che comincia a interrogarsi sui fatti del suo stare insieme con Giuseppe: troppi segnali, troppi sintomi stanno a indicare che il loro rapporto è cambiato e non certo in maniera positiva. Ma la cosa che di più brucia a Valeria, peggio di uno schiaffo in faccia, è di venire aggredita dalla più subdola delle violenze: il silenzio. Perché cercare di avere un dialogo con il proprio uomo, fare proposte di viaggi nel tentativo di migliorare il rapporto, essere triste o allegra e ricevere in cambio un silenzio pesante più del piombo è, a tutti gli effetti, una violenza che fa sentire la donna che la subisce umiliata e disorientata. Peggio, impotente di fronte a qualcuno che volutamente fa finta di non aver sentito i suoi richiami e nega in questo modo il suo stesso diritto a essere considerata una persona, dandole la sensazione non di chiedere, ma di mendicare un gesto di affetto, una parola amichevole.
Per fortuna, almeno per lei, c’è il lavoro fuori casa, la scuola – dove potersi sentire ancora utile a qualcuno – e le amiche, anch’esse alle prese con i propri fallimenti e con i tradimenti maschili, con le quali scambiarsi opinioni e confrontarsi sulla propria infelicità.
In ben altra circostanza si trova Clara, inchiodata a letto con una gamba ingessata: nel tentativo di riporre indumenti e oggetti in cantina, è scivolata per le scale ed è rimasta a lamentarsi nel buio finché il portiere non l’ha sentita. Il più stupido degli incidenti e lei la più stupida delle donne, si ripete con rabbia. L’inattività forzata le fa male più della frattura riportata, acuita dall’atteggiamento generale della sua famiglia – situazione che tutte conosciamo bene – dove l’eccessiva gentilezza e i continui “devi riposare, non preoccuparti” non riescono a mascherare il disagio e il disappunto per il fatto che la colonna portante della struttura domestica è fuori gioco, incapace di eseguire quell’enormità di cose che fa ogni giorno. Difficile ignorare che i suoi cari siano ansiosi che lei guarisca al più presto.
Invece, non c’è nulla da fare, solo aspettare che il tempo pas­si. Clara lo sa e si rammarica, perché guarire in un batter d’occhio non dipende, purtroppo, da lei. Così, all’improvviso, da lavoratrice moglie e madre superimpegnata, si ritrova a non fare niente, se non ascoltare musica, guardare vecchie fotografie e in­ventarsi una fiaba da raccontare ai due bambini, Nico e Filippo. Ed è proprio la favola che la fa cadere nella trappola delle variazioni sul tema, dei pensieri vaganti in libertà, dei ricordi dimenticati tanto tempo prima. Dell’interrogare a fondo se stessa. Affiorano allora in superficie le domande che nessuna ha mai voglia di porsi e a cui ci si affretta a trovare risposte confortanti. È soddisfatta della sua vita, di suo marito in particolare? Certo, sicuro. Ma intanto si affaccia alla sua mente il nome di un altro uomo, un affascinante divorziato, conosciuto a cena in casa di amici, e di cui ha taciuto l’esistenza al marito.
Con il procedere della fiaba nella sua fantasia, complice l’oppressione dell’ozio, i pensieri di Clara si fanno sempre più profondi e tormentati, fino a quando arriva a chiedersi se le frasi gentili del marito, dei figli e persino delle amiche che vengono a trovarla, non siano altro che maschere per nascondere noia, fastidio, disinteresse. Anzi, giunge a pensare che forse tutto non sia altro che finzione e che nessuno di noi, in realtà, sappia veramente che cosa passa nella testa di chi ha accanto, ma stia solo recitando una parte. Proprio come Erving Goffman, sociologo canadese, scrisse nel suo celebre libro del 1956 La vita quotidiana come rappresentazione, in cui paragona la vita sociale a un teatro quotidiano dove noi, gli attori, agiamo in uno spazio scenico che si divide tra la ribalta e il dietro le quinte e dove il risultato da raggiungere è il riuscire a presentarsi davanti agli altri nel migliore dei modi.
Intanto, la scena reale si movimenta con un improvviso problema della figlia Camilla, che comincia a peggiorare a scuola e a mostrare chiari segni di un indefinibile disagio. Clara chiede al marito, riluttante (ma non è una novità perché i padri poco ama­no in genere questo compito) di andare a parlare con Valeria al posto suo. Alla fine Riccardo va e conosce l’insegnante di sua figlia, amica di sua moglie, che gli svela che cosa sta succedendo nella classe. Un incontro casuale che avrà delle conseguenze inaspettate.
I due protagonisti maschili, bisogna ammetterlo, non brillano nel romanzo se non per la loro mediocrità e il loro piccolo egoismo maschile. Anzi, sarebbe meglio dire pragmatismo maschile, perché l’affetto che dimostrano appare dettato dalla necessità di stare tranquilli nel comfort delle proprie case, con a disposizione le compagne pronte a rassicurare il guerriero che torna stanco dal lavoro e dai suoi problemi. È chiaro, per fortuna, che non tutti sono così. Ma è anche giusto prendere atto che, invece, molti sì.
E se il finale che riguarda Valeria può forse apparire inevitabile, quello che riguarda Clara lascia sorpresi, anche se certe nuvole scure si stavano già addensando all’orizzonte e potessero farlo presagire. Immergendosi sempre più nella sua fiaba inventata è come se a un certo punto Clara si identificasse con la vicenda “entrandovi” di prepotenza e diventandone a sua volta protagonista nella ricerca del Mistero. A poco a poco riaffiorano in lei oscure memorie lontane forse risalenti alla sua infanzia. Non ci verrà detto chiaramente quale sia la verità che lei ha tenuto per anni dentro di sé ma, ancora una volta, ognuna di noi è chiamata a riempire quello spazio aperto con qualcosa di molto personale, che ha voluto lasciare indietro per continuare a vivere come se niente fosse stato. Il finale di Clara, insomma, è anche il nostro ed è lasciato aperto perché ognuna di noi possa misurarsi con il suo passato.
Dzieduzsycka è eccezionale a rappresentarci i tormentati pensieri dei suoi personaggi, quasi un’altra storia nella storia, dove ognuno lancia silenziose accuse (gli uomini alle donne e le donne anche a se stesse) nel rivivere i fatti, reinterpretandoli e rendendoli accettabili o meno alla propria coscienza. Il suo scrivere è un gioco sottile e raffinato che ci conduce inevitabilmente a fare paragoni, a mettere in gioco sullo stesso piano tutti noi, uomini e donne di buona volontà, se lo siamo.
Inutile dire che il romanzo si legge d’un fiato: non si può proprio fare altrimenti. Troppe volte, per non voler dire sempre, siamo tutti chiamati in causa per invitarci a guardare un po’ più spesso dentro di noi, operazione necessaria per poter interagire serenamente con le persone che a vari titoli amiamo e che ci amano. O, almeno, dovrebbero.

Eleonora Facco
Consulta Femminile Regionale del Lazio per le Pari Opportunità Ottobre 2014

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