Prefazione

La poesia di Livio Bottani è espressione della mente impegnata a elaborare la nozione di consapevolezza sia della fugacità sia della persistenza della vita umana. Malgrado l’attenzione riservata dal poeta alle forme del discorso, sovente ricondotte alla misura armoniosa dell’endecasillabo e ad onta del non infrequente ricorso alle figure retoriche tipiche del linguaggio poetico, il dettato di Livio Bottani non ha cittadinanza lirica, melica, orfica o epica, ma, invece, sviluppa ordito e trama entrambi razionali e riflessivi: dialogo avviato dal poeta in tenore di indagine a contraddittorio e di approfondimento con sé stesso, esercitato nel vocativo rivolto a un “Tu” generico che aleggia per i versi. Talvolta, la vaghezza di quel tu si appalesa in una figura altra dall’autore, ma continua a conservare il suo anonimato di maschera polivalente e di volto velato dall’indeterminazione delle possibilità. C’è un’insistenza sulla formula dell’universalità della condizione umana: nessuno scappa e tout se tient. Il ricorso a una poesia di metodo, sospesa tra filosofia e sociologia con propaggini di psicologia e con contenuti di etica e sfumature di estetica, ci conduce lontano dai mo­delli veristi, dalle cronache sulla realtà, dai diari di bordo o peggio ancora dai cahiers de doléances di cui sono stucchevolmente zeppi i repertori poetici di attualità. Livio Bottani, in verità, realizza una ricapitolazione delle sconfitte della mente, alla luce dell’impenetrabilità del segreto inestricabile dell’esistenza. L’approdo è quasi socratico: quel sapere di non sapere diviene la dimensione universale dell’insensatezza umana, il conclamato smacco della balordaggine e, quindi, della follia di essersi tanto interrogati e di non avere raccolto alcuna soluzione, ma soltanto delle distrazioni dal tema, come accadrebbe al pescatore in riva al mare, che facesse aggallare solo scarpe rotte e altre vuotaggini, ma non il nutrimento che lo possa definitivamente saziare.
C’è un’arsura di durabilità oltre i confini della vita. La prima parte del libro è percorsa dal fremito di riuscire a dare una continuità di immagine di sé stessi, oltre il termine della vita biologica. Il non omnis moriar di oraziana memoria è il pungolo che stimola alla ricerca dell’opera esemplare: la testimonianza costruita con le parole del poeta, la composizione poetica aere perennius, ma che in realtà appare come un mito impossibile, un atto vanamente consolatorio, che non può risarcire dei sacrifici fatti per ottenerlo, anzi, neppure appare raggiungibile, perché è un inganno, è un falso miraggio. Non a caso il libro di Poesia di Bottani inizia con la poesia In memoriam, che tragicamente irride al nero inchiostro dei poeti che cercano le “egregie cose” di foscoliana me­moria, da scolpire per sempre nell’eternità del creato, ma approda invece alla disperata cancellazione di ogni memoria, alla scomparsa di intere città nel de­serto che le ha cassate e disciolte per sempre, come è di Nitria. Come si legge nella poesia Figura, c’è una “maschera” umana anonima, ma rappresentativa dell’intero genere, cui il Poeta si riferisce in termini drammatici: “Avanzi nell’orrore / cercando di sfuggire il colpo / che proviene da una mano impietosa. // È una corsa la tua / nel vuoto spaventoso di una civiltà perduta, / scaduto il senso del destino / che accomuna i mortali”. L’uomo è uno sterminatore di altri uomini: anziché dedicarsi alla conservazione della memoria dell’umanità, si dedica con maggiore zelo alla cancellazione delle civiltà antiche e alla di­struzione o al martirio di quelle sopravvissute: “Sia­mo i massacratori, / i torturatori / dei nostri simili, angeli sterminatori nel creato”, si legge nella poesia Angoscia. Il richiamo all’angelo sterminatore di Luis Buñuel contribuisce a portare il discorso di Bottani sul piano critico dell’insipienza della cultura borghese, paralizzata nell’anima dai suoi stessi incubi e dall’incapacità di uscire dalle gabbie che essa stessa si è costruita tutto attorno a sé. Scrive il Poeta: “Vissero sperando in un ricordo / che non potesse sprofondare/ […] / Ma la memoria è debole, / e an­che di te un giorno / cui alcuni forse si richiameranno, / con tutta la tua miniera / di volti e nomi scolpiti, / di povere opere e confitte parole, / non si rammenterà nessuno”. Eppure, la sfida del poeta verrà co­mun­que perpetuata, come si legge in Sfida: “Dando un’impronta alle tue paure, / al tuo terrore di esistere, / tenti di imporre un senso / a ciò che non ne ha”. Ma ad attendere il poeta c’è solo la sconfitta dovuta alla sua incapacità di interpretare “il segreto della notte e del giorno”, come si legge in Prealbe: “E fu così che gli anni se ne fuggirono / girando a vuoto in una corsa all’ultimo respiro”.
Si apre un altro orizzonte con l’osservazione condotta dal Poeta nei confronti dell’antica civiltà cinese in Asia: “C’è l’orgoglio di essere / un’antica civiltà della cortesia, / nell’abbandono all’addimorare solerte / di masse in movimento senza patemi”. Non significa che il dramma dell’oblio e della cancellazione delle vite passate venga abolito, ma la sapienza filosofica dell’accettazione gentile della nostra caducità, rende la vita poetica, in tutta la sua interezza e resistenza. Il “Triste animal post coitum”, dopo l’estasi del piacere, si lascia sprofondare nel languore della nostalgia e innesca il vortice delle passioni e delle resurrezioni: il sapere è amaro, e acquisire la consapevolezza significa accorgersi che lentamente stiamo tutti scomparendo. Dunque, oc­corre seguire l’insegnamento di Augusto, testimoniato dallo storico Svetonio, che gli attribuisce il proverbio “festina lente” – affrettati adagio – ovvero, dice il Poeta: “tienitelo caro il tuo dolore, / e scegli con cura i miti / cui aggrapparti nel naufragio”. Con l’allegoria potentissima del “naufragio”, Bottani intende richiamare come un “lampo” e come una visione la concezione leopardiana della “dolcezza” usata nello sprofondare del pensiero umano nell’immensità del mare destinato ad inghiottirlo. È un atto di accettazione: è un’arresa gentilezza al confine ristretto delle potenzialità umane; è il sapere della morte, “e con esso stai già facendo i conti, / e li farai ogni volta / durante il cammino”. Si chiude, così, la prima parte del libro, dal titolo apertamente filosofico e allucinogeno – Papaveri e fiori di loto –, in cui il Poeta ha cercato di dare conto dello sforzo d’Icaro esercitato da tutti i poeti, che si peritano di conquistare un cielo che tuttavia non appartiene a loro. Ma quanti angeli sono evocati in questi versi, tra il serio e il faceto, tra il sacro e il profano! C’è una condensazione di emanazioni della divinità, “fra eoni ognor rinnovati”, e angeli caduti dal cielo o a passeggio per le vie del mondo o vanamente evocati, attesi in improbabili epifanie dietro l’angolo della strada. Ed è proprio questa l’atmosfera in cui scricchiola il pennino dei poeti di tutti i tempi, con un transumanare delle cose e delle persone verso una tangente di realtà surriscaldata o iperbolica, dove il metafisico si manifesta co­me un camuffamento della realtà.
La seconda parte del libro si chiama Pietre di inciampo e giusto rende conto delle asperità e delle insidie del cammino, dovute alla presenza reale delle cose e delle persone mondane, che sono gli ostacoli allo sviluppo del nostro percorso e nel contempo so­no gli spunti e i pungoli a riprendere con ancora più foga il perseguimento della meta, “per una breve eternità, finché la morte non verrà”, tanto per usare le parole adottate da Georges Moustaki, a conclusione della nota canzone Lo straniero. Il Poeta subito chiarisce che noi “Siamo maestri nell’arte della sconfitta. / Le sue forme sono molteplici / e ne abbiamo tracciate di contorte. / Non per ciascuna vale merito o demerito, / poiché la vita distribuisce i dadi a ca­saccio. // Tra inganno e disinganno la faglia è stretta, / e il distratto la scavalca con passi insicuri”. La centralità del discorso viene spostata sullo studio e sull’interpretazione della realtà, come procedimento principale per creare l’edificio in­crollabile della me­moria. Proprio quella stessa fatica di costruire la me­moria, che, nella prima parte del suo discorso, il Poeta ha così severamente deriso e svilito, ora viene celebrata come unico pilastro capace di sorreggere la costruzione di qualsiasi opera umana. Subito viene citato il popolo eletto dal Dio della Bibbia e viene celebrata la figura fondamentale dello Zakhor, che sta a capo della “religione del ricordo”, celebrata attraverso i due distinti momenti del rito e della recitazione, che costituiscono il metodo di insegnamento del Talmud. Tuttavia, la memoria viene interpretata come componente paredra dell’oblio: memoria e oblio so­no le due pale sullo stesso altare. L’altare è la storia dell’uomo, che appunto si vivifica e si perpetua nel­l’oblio e nella memoria. Ancora una volta il riferimento di Bottani è rivolto alla pienezza orientale del simbolo del Tao, le due metà della sfera che si compenetrano e si autogenerano nella perfezione di un cerchio chiuso, come fosse l’Eden. Ora il discorso del poeta si arricchisce della pienezza della vita e di eventi della realtà. Qui si innescano le componenti etiche, sociologiche, politiche, psicologiche, cui si è fatto riferimento all’inizio di queste osservazioni introduttive. Ora l’umanità viene presentata nella sua criminale responsabilità di agire come la distruttrice dell’intero pianeta Terra: non solo gli uomini sono “sterminatori” di uomini, ma uccidono le altre creature viventi, depredano il pianeta, modificano e im­poveriscono l’ambiente, soffocano il delicato respiro biologico della vita all’interno dell’esigua pellicola di vita che ricopre la superficie della terra. Accanto alle istanze ecologiche di salvaguardia della natura, premono ora nel discorso anche gli obbiettivi politici di ribellione al potere detenuto dalla corrotta democrazia borghese, si trovano pagine in chiave autobiografica dedicate ai fermenti rivoluzionari del Sessantotto, come si legge in I tagli nel cesso, “Chissà che volevi! / Pensavi solo / di volartene via / da quell’amaro sessantotto: / dell’altro, unico e vero, / nulla sapevi…” o in versione bohémien e anticonformista, come si legge in La soffitta. “La soffitta era la tana / e il tuo rifugio: / li ricevevi i tuoi docenti. / Dentro c’era una rete / e un materasso, / un tavolino, / valigie piene di libri”. Similmente si trovano splendide poesie che svolgono temi etici, estetici e filosofici, come la riflessione sull’ineliminabile ossessione del dolore e sulla panacea dei rimedi adottati per liberarsene, come si legge in Phármakon. Sono immagini e occasioni poetiche, quadri della memoria, ricostruzione di momenti, tra studio, gioco e primi amori, nella nostalgia magica dell’adolescenza e fino dell’infanzia.
Nella terza parte del libro di Livio Bottani, che si chiama Pensieri come fuchi, è raccolto un “poetare per occasioni”, cioè una ghirlanda cortese e gentile di osservazioni pacate, quanto lucidamente arrese al vanitas vanitatum che è l’unico sale della vita. Si manifesta anche una ripresa de­gli argomenti trattati, ma con riflessioni concilianti e arrendevoli all’inoperosità del fuco, incapace di contribuire al “linguaggio gregario dell’arnia” – per usare una celebre espressione di Giorgio Bárberi Squarotti – e quindi destinato all’eliminazione, nella convinzione che non esiste un riscatto salvifico su cui far conto e che meno che mai esso potrebbe sgorgare dal pennino del poeta, come si legge in Cos’è che salva? Si fa strada anche un’etica nuova, che consiglia alla formica di Esopo di porgere in dono alla cicala quanto le necessita per sopravvivere. E a proposito di moniti, exempla e paradossi tratti dall’antichità, quello che assume un valore di universalità è il paradosso del filosofo cretese Epimenide per il quale, pronunciata la frase “Tutti i cretesi sono bugiardi”, quale che sia l’interpretazione che si voglia dare, essa ri­sulterà comunque una falsità, perché, ci spiega il Poeta, “Le fantasie vengono di continuo / ad af­fiorare come da una fonte / inesauribile: debbono dare consolazione / per quel sapere amaro / di una destinazione al niente”. Non sorprende allora che la chiusa di questo bel libro di Poesia, così fondo e ampio, sia un approdo che possiede degli accenti nichilisti: “Basta… / quante macchie / sulla nivea carta. / Basta! // La testa sulla tavola, / gli occhi chiusi. / Nulla, nulla.”

Sandro Gros-Pietro

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