PREFAZIONE

Il mondo poetico di Michelangelo Cammarata è un’epifania di situazioni che si manifestano come tessere di mosaico, le une incatenate alle altre senza ammettere soluzioni di continuità. Una rappresentazione per murali affissi in seriazione: il lettore scorre velocemente lungo la via di fuga del libro, pagina dopo pagina, e il mondo gli scivola sotto gli occhi. Non si tratta del mondo reale, ma del mondo poetico dello scrittore, che è una deformazione della realtà, costruita con genialità e impertinenza. La tecnica della rappresentazione si mantiene fedele a se stessa: si tratta di micro-poesie, che solo impropriamente possono essere definite degli haiku, in realtà sono una misura versale elaborata dall’autore secondo la sua necessità espressiva. Un lampo, un raggio di sole, una netta visione, un riuscito slogan ideale, una porzione di discorso: l’allusione a un pensiero complesso e argomentativo. La raccolta considerata come corpo organico diviene una sola e pluriespressiva metafora: è la metafora della poesia, la metafora di ciò che scrivono i poeti, è l’illustrazione di ciò che essi osservano o meglio che vogliono credere che esista intorno a loro o meglio di ciò che esiste realmente nelle pagine dei libri e nella quotidianità della vita degli scrittori, ma non solo di loro si parla, anche di musicisti e di pittori. Certamente, quello di cui ci fornisce conto Cammarata, non è il mondo reale, il quale è intriso di violenza, sopraffazione, ingiustizia, dolore. Noi tutti sappiamo che il mondo è il tragico olocausto dei deboli straziati dalla follia sanguinaria dei violenti, che nascondono gli orrori della loro predazione con il genio e con la bellezza prodotta dagli artisti. Gli artisti creano un mondo parallelo, che scherma come fosse paravento la macchina della morte sempre al lavoro sul fondo scena. Cammarata, per l’appunto, ci illustra il paravento, e lo fa con disingannato mestiere e quasi con uggia, come di un prestidigitatore che conosce tutti i trucchi con cui le mani ingannano gli occhi e non se ne compiace affatto, ma conduce in ogni caso il gioco cui è demandato, perché così scorre il flusso degli eventi e nessuno può cambiarlo, come nessuno può impedire il percorso predestinato della vita e della morte e mutarne la concatenazione. Poiché si tratta del mondo degli artisti, il discorso diviene subito ellittico, regolamentato da altri canoni che non siano quelli della logica e della consequenzialità. Predomina la fantasia, lo scardinamento dei nessi, l’inversione delle direzioni, gli approdi fantastici, le visioni scombiccherate, gli accostamenti arrischiati, le deformazioni del reale. Il mondo dei poeti consente che piovano stambecchi dal cielo, le fragole piangano nei campi, i pesciolini cinguettino, le stelle miagolino e le pesche ascoltino il canto dei pettirossi. Sarebbe semplicistico parlare di surrealismo e di visionarietà, che indubbiamente sono categorie e codici di bellezza bene noti a Cammarata. A Cammarata, invece, interessa eseguire la prestidigitazione con lentezza, a dispetto della rapidità essenziale dell’haiku, perché vuole che il lettore veda il trucco, si accorga del salto delle corrispondenze, capisca il criterio necessario dell’onesta falsità artistica, intuisca le leggi dell’immaginazione poetica. Il lettore capisce subito che egli sta leggendo l’altra faccia della realtà, quella che non esiste: cioè la faccia dell’arte.
Che cosa contiene l’arte? L’arte è innanzi tutto l’autocompiacimento narcisistico per le visioni che nascono nella mente come proiezioni e deformazioni del mondo reale, ma l’arte è anche il meticciato che ha scaturigini diverse, e che si riunisce in un unicum nella complicità delle mescite d’osteria: “Un fiasco di chianti / nell’osteria / mentre un meticcio masturba il suo cane”. C’è una condizione di solitudine che è trasversale ad ogni espressione creativa; c’è un’osservazione silenziosa del mondo, che serve ad assimilarlo in profondità per esternarlo nell’invenzione deformante della poesia; la solitudine – che è anche voiyerismo nel senso freudiano di curiosità indagatrice e intellettuale – funziona da humus fertile che fa germogliare il pensiero artistico e poetico. Ma la solitudine del poeta non necessariamente si riduce a una concezione solipsistica del mondo. Non è il caso, infatti, di Michelangelo Cammarata, che nella sua solitudine ideativa fa germogliare un concento inesauribile di voci, personaggi, situazioni, volti, scene del mondo e precisi agganci affettivi alla donna amata.
Nelle pagine del libro ci si imbatte più volte nella controfigura del poeta che scrive haiku o che medita sull’opportunità di scriverne; talvolta ci si imbatte anche in una caricatura riduttiva del poeta, che viene rappresentato o nominato in termini di “grafomane” o qualcosa di simile, con un intento confidenzialmente autoironico e scherzosamente commiserevole. Talvolta si incontrano maschere inquietanti che potrebbero loro stesse essere altrettante metafore del poeta sotto mentite spoglie, perché tutto ci può stare, ma che più verosimilmente sono i numerosi burattini che vivificano il teatro della vita, per cui troviamo gendarmi, barboni e mendicati, un’umanità di confine, che si colloca al limite del territorio della normalità. Ma il contenuto principale dell’arte è rappresentato dalla natura, giusto perché il Foscolo dice che la terra appare insieme «bella d’erbe famiglia e d’animali» e allora ecco il grande tripudio epifanico di un ricchissimo bestiario di aquile, oche, gabbiani, rondini, passeri, orioli, colombe, merli, fringuelli, pettirossi, cornacchie gorgheggianti salmi, spigole, carpe, pinguini, lontre, scoiattoli, pecore, stambecchi, muli, serpi, pitoni, farfalle, formiche, fuchi, cicale, chiocciole, topi ed elefanti che proiettano proboscidi indagatrici lungo percorsi di fantasia. Lungo i versi ci accompagnano gli studi di Chopin e le arie di Scarlatti. Ci perdiamo in molti nonsensi e ci ritroviamo in altrettante verità lapalissiane o topiche scontate, ma ciò che alla fine ci guida è la speranza. La speranza, forse, non è solo un bel vocabolo, fra i più ricorrenti dell’intero libro, ma è anche la riga vergine per eccellenza, cioè il discorso che ancora non è stato interamente pronunciato, l’utopia che resiste e l’orientamento che ci unisce in un identico intento di riuscita positiva per tutti. La speranza è un approdo alto, incontaminato, luminoso, che stempera e assopisce l’ironia caustica serpeggiante in tutto il libro. La speranza non è la carta da gioco più importante che tiene in mano il poeta, ma è l’obiettivo premiale di tutta la scrittura: si scrive per alimentare la speranza che ci sostiene nella vita. Il ritornello, la ripetizione delle stesse parole, il duplicato dei versi in tutto o quasi uguali a se stessi, il motivo o l’aria che si replica più volte costituiscono una caratteristica fondamentale e portante della solennità liturgica del discorso, intonato come una preghiera rivolta all’obiettivo perfetto della speranza.
Il libro di Michelangelo Cammarata è un compendiario di tratti essenziali della scrittura poetica, funziona come tesoretto di situazioni, esercizi, proposte e soluzioni; è scritto con piglio ironico e graffiante, ma anche partecipato alle sorti del gioco che è in corso sulla pagina; è la proposta di un incontro ravvicinato con il tesoro della poesia, ricostruito per rapidi flash di figure, sketch e lampi, secondo una tecnica delle immagini che sembra presa a prestito dal mondo mediatico della televisione e del cinema, e che invece affonda le sue radici primigenie in una tecnica rapida ed essenziale della concatenazione poetica che in Oriente ha tradizioni secolari e che in Occidente non ha sicuri antenati, ma che trova ambienti consonanti niente meno che nei salmi e nei versetti biblici.

Sandro Gros-Pietro

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