PREFAZIONE 

La trama del romanzo La spilla di Anubi appare allo stesso tempo realistica e fantastica e in tal modo richiama alla mente le caratteristiche del realismo magico che fu già di Franz Kafka, autore tra l’altro anche citato da Paola Ottaviano. È un romanzo breve che, nella sua pragmatica concisione, architetta una serie di ponti e di corrispondenze tra luoghi e tempi diversi, nonché tra tematiche e stili letterari differenziati fra loro. C’è un ponte lungo circa cinquemila anni tra la contemporaneità consumistica dell’attuale civiltà laica del benessere e l’epoca favolosa e magica, impregnata dai misteri dei poteri degli uomini e delle divinità tipici dell’antico regno egizio. In aggiunta c’è una corrispondenza tra due città molto diverse fra loro: la solare Roma, Città Eterna, e la melanconica Torino, città tuttora rivestita da una baroccheggiante veste di rigore sabaudo. Il confronto fra due città come spunto ornativo della trama romanzesca venne in mente per primo a Charles Dickens in quel suo unico romanzo storico che si denomina Tale of two cities – Racconto di due città – nello specifico si tratta di Parigi e Londra, ai tempi della Rivoluzione francese. Mario Soldati, nel 1964, riprende il tema del confronto geografico-temporale con uno dei suoi maggiori capolavori letterari, Le due città, proprio Torino e Roma, come avviene nel libro di Ottaviano. Vale la pena richiamare alla mente questi precedenti, perché Ottaviano è una scrittrice accorta, che alimenta in sé una vigile e ampia memoria letteraria, mai esibita pedantemente nella scrittura, ma che agisce come centrale creativa di riferimento, a monte dell’opera originale da lei inventata. Anche i contenuti e le tematiche stabiliscono delle corrispondenze tra l’analisi socio-politica degli alacri ambienti medio borghesi italiani, seppure tormentati dalla noia e dalla routine del quieto vivere abitudinario di memoria moraviana, e l’indifferenza superficiale e guantata di sfarzoso lusso degli ambienti smodatamente ricchi cui appartiene la contessina Eugenia Maria Francesca Borsieri della Giudecca.
Elena Carsi, la protagonista del romanzo, è una colta ragazza matura, di professione restauratrice, che lavora alle dipendenze del ministero dei Beni Culturali. Il suo mestiere la porta ad amare gli oggetti che testimoniano il passato. Sono gli oggetti – cioè le cose – l’unico tramite di comunicazione con il mondo da cui deriviamo. In questa affermazione di Elena già ritroviamo celata l’ideologia del determinismo materialista, in base alla quale sono le cose che fanno la storia e non le idee o i rapporti interpersonali. Elena, nelle sue perlustrazioni presso antiquari romani, viene convocata da Rosetta, moglie di un robivecchi, che le propone di acquistare per mille euro una spilla da lei stimata risalente al periodo Liberty dello scorso secolo. L’affare è veramente buono, perché il gioiello è d’oro massiccio, smaltato nei colori lapislazzulo e rosso carminio ed Elena non ha difficoltà a rendersi conto che il valore del prezioso è di molto superiore alla cifra richiesta da Rosetta. Anche la negoziante ne è consapevole, ma da un lato vuole omaggiare l’amica restauratrice e ancora di più vuole disfarsi dell’oggetto perché sa che proviene dall’esumazione della tomba nobiliare della prozia omonima della contessina Eugenia. Per Rosetta gli oggetti sottratti ai morti sono veicoli di malocchio, per cui preferisce trasferirlo all’amica che non pare sia superstiziosa. Elena porta la spilla all’amica Aurelia, degente in ospedale e ormai avviata alla fine ineludibile perché pervenuta allo stadio terminale di un cancro maligno. Aurelia pare illuminarsi di un’attrazione magnetica verso il gioiello e chiede all’amica di poterlo indossare per qualche giorno. Succede l’imprevedibile, un fatto che la scienza medica non riesce facilmente a spiegare. Ed ecco, allora, che Elena Carsi si impone di venire a capo delle origini misteriose della spilla e dei suoi presunti poteri taumaturgici. La sua indagine la porterà a Torino, con il beneplacito della sua direttrice: la restauratrice si prende alcuni giorni di permesso dal lavoro e si immerge negli archivi della biblioteca del Museo Egizio di Torino fino a compiere una scoperta esaltante quanto enigmatica. Nello sviluppo di questa avvincente trama, si è detto che Paola Ottaviano sdipana un’intera serie di tematiche sociali e politiche, attinenti al valore paesaggistico delle città, alle condizioni di vita nella modernità, all’indagine storica del mondo antico, al dramma psicologico e sociale degli orfani e a molte altre questioni formative ed educative, di alto contenuto etico e politico. Tuttavia vi è un discorso che merita un particolare richiamo, ed è quello dell’eutanasia e del testamento biologico, che l’autrice pronuncia in occasione della visita in ospedale di Elena all’amica Aurelia degente allo stadio terminale. Senza alcuna retorica, ma con la forza nuda dell’emozione diretta e del ragionamento schietto, Paola Ottaviano scrive una pagina tra le più nobili e convincenti della recente prosa italiana a favore della libertà di scelta per una morte felice, affrancata dall’insistenza cinica dell’accanimento terapeutico, adombrata come autentica forma di imposizione di una tortura, paragonabile alla violenza delle medievali morti imposte sul rogo col pretesto di liberare le anime dei condannati dalla morsa del diavolo.
Paola Ottaviano è una scrittrice sagace e fantasiosa che conquista il lettore con un atteggiamento di amichevole confidenza ispiratrice. Per lei sarebbe giusto applicare lo stesso parere espresso da Pier Paolo Pasolini per commentare Le due città di Mario Soldati: “L’assoluta leggerezza della scrittura di [Paola Ottaviano] significa fraternità. Il suo rapporto col lettore non è autoritario, ma mitemente fraterno”.

Sandro Gros-Pietro

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