PREFAZIONE

Sono versi che hanno un contatto magico con il suo mondo passato, soprattutto con gli affetti famigliari a volte felici e il più delle volte dolorosi. Nelle stanze della “vedova”, così definisce la sua casa dell’infanzia Lorenzo Piccirillo, sono custodite gioie e dolori, ma anche squarci dell’enorme fatica di vivere:

La corruzione del tuo vecchio fu fatale
ogni volta che passo per quella strada
la «vedova» mi sorride.

Sicuramente qui i ricordi, ma ancor più l’intensità di vivere, fanno sì che ogni istante della vita del poeta rimanga fedele a tutte quelle figure amate e anche non amate che silenziose culminano in improvvise accensioni visionarie. L’autore è fedele alla voce antica e sciamanica di quei luoghi rurali, una masseria che accoglie e allontana fantasmi ormai lontani, creature sognate o vissute che non rinunciano alle parole, mute o gridate, imposte più che altro dallo stesso poeta:

Sono andato giù nella cantina
sotto la gonna della «vedova»
ho messo le mani nell’anfora smaltata
me le sono graffiate.

Tutto ruota attorno a questo luogo, misterioso e cupo, a questo mondo che s’interseca e si fonde con le persone che lo abitano. Il filo che collega un componimento all’altro è, comunque, l’invincibile nostalgia, che però non è soltanto una forma di tensione verso il passato, ma anche lo specchio nel quale si riflette l’occasione di una vita diversa e perché si possa cogliere ancora qualche traccia di verità. Tuttavia, senza rinnegare ciò che c’è stato e che hanno formato e aiutato il giovane Lorenzo nella sua crescita e come uomo, con le sue paure e le sue incertezze.
Viene da chiedersi però a distanza d’anni se il poeta abbia mai avuto il coraggio di distaccarsi sia da questo luogo sia dalle sue presenze? Al di là di quel confine immateriale a me pare invece che tutto ciò continui a irradiare immagini e momenti ancora densi nel cuore e nella mente del poeta. Forse perché attraverso i suoi versi il poeta è spinto a riflettere sulla complessità dei sentimenti e sulla necessità di liberarsi dei segreti racchiusi nell’animo, per sconfiggere così la sofferenza o meglio la melanconia.
Non si può parlare, quindi, di dolore e di morte in maniera antitetica al bene e alla felicità se non come complementari alla vita:

Adesso che puoi guardarmi
mentre indugio nello spavento
di ritracciare il solco vivendo
mi sento in pegno di ripassare
l’alfabeto morale del tuo bene.

Il ricordo, dunque, come essenza di un io complesso che dialoga con la propria anima e scompone il suo vissuto che la sua psiche vorrebbe cancellare ma che non è possibile rimuovere. Lo intuì Gaston Bachelard rivelando che “il passato della nostra anima è un’acqua profonda”.
È una poesia di immagini e per immagini quella di Piccirillo, ma soprattutto di domande e di risposte, di dilemmi che non è possibile svelare se non con il desiderio passionale della sua anima. Come in questi versi:

Ho poggiato il labbro alla sorgente
della tua memoria ho bevuto
e bevo una mistura
[di miele e veleno].

Difatti, se William Wordsworth considera la poesia come “lo spontaneo straripamento delle potenti sensazioni”, non a caso i versi di Piccirillo che racchiudono la vita e la morte, la gioia e il lutto, sembrano riportarci all’amato Eugenio Montale e alla realtà quotidiana espressa in Xenia, a quella poesia di “inappartenenza”, alla poesia che “magnifica il Tutto in fuga”.
Ecco perché credo pure in una lettura in chiave psicanalitica di questo lavoro poetico ricordando tra l’altro la dialettica freudiana tra eros e thanatos che rappresenta la scoperta in poesia del magma onirico dell’inconscio, con i suoi fantasmi e le sue fisionomie mi­steriose, i suoi inseguimenti e suoi agguati.
Questo troviamo nella poesia di Piccirillo, non solo nella sua indagine onirica, non solo nel suo inconscio, soprattutto nel suo vissuto. Io credo sia significativa allora la definizione dell’inconscio che ne ha dato Emanuele Severino: “l’inconscio è la verità della co­scienza”.
Il racconto di Piccirillo va avanti fino a quando non assume una connotazione catartica, liberatoria anche sotto il linguaggio poetico che assomma il linguaggio di altri linguaggi, com’è tra l’altro la vita, stratificazione del tempo e dello spazio. Diversamente da quei poeti che prediligono il surreale, Piccirillo si muove nel margine di un realismo, a volte ingenuo, a volte impegnato, se non altro trattenuto da quella forza di gravità che tiene legato il nostro destino alla vita.
Questa raccolta si presenta come un diario veritativo, che è al di là delle cose, che è in se stesso e oltre se stesso. Insomma, per il poeta la memoria è da considerarsi una funzione consolatoria della coscienza del tempo. Da qui dovremmo partire, dai versi di chiusura di questa raccolta, perché si possa intuire l’esistenza quotidiana degli uomini e non solo dei poeti:

Se posso disturbare per la chiusura
abbasso e chiudo persiane e finestrelle
con la verità in vestaglia che ride.

Leone D’Ambrosio

Anno Edizione

Autore

Collana

Recensioni

Non ci sono ancora recensioni.

Scrivi per primo la recensione per “La vedova e il fuoco amico”

Il tuo indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati