Premio I Murazzi per l’inedito 2015 (Primo premio assoluto)
Motivazione di Giuria

Lo straordinario percorso di riflessione e di scrittura compiuto da Fabio Dainotti nel corso dell’intera vita dedicata allo studio della letteratura italiana e al sacerdozio dell’attività di corsivista, saggista e poeta, trova nel mirabile libro di poesia Lamento per Gina e altre poesie una piena rappresentazione simbolica della bellezza e della profondità del pensiero poetante sviluppato dallo scrittore di Cava de’ Tirreni nel corso di oltre mezzo secolo di ininterrotta attività, a principiare dalle forme di tardo ermetismo per giungere ai contrasti poetici del quotidiano, in modo da mettere a confronto le poesie degli esordi con quelle dell’attualità più recente, facendo emergere la continuità del sogno della poesia, pur nell’evoluzione degli anni e nel cambiamento formale delle mode della parola poetica.

 

Prefazione

Tra gli scrittori salernitani più rappresentativi del patrimonio della poesia italiana contemporanea sicuramente Fabio Dainotti rappresenta un caso privilegiato e distinto. Privilegiato, direbbe Francesco Adorno, perché non essendo egli salernitano di nascita, ha l’inquietudine sentimentale di non sentirsi totalmente a casa propria in alcun patrio luogo. Distinto, perché egli ha il grande merito di non avere mai inteso la poesia esclusivamente in termini di scelta del linguaggio e, quindi, di non essersi mai lasciato sopraffare dalla disputa in­tellettuale sulle possibilità storiche di denotazione e di descrizione della parola poetica. Viaggiatore di lungo corso nelle patrie lettere – ma anche fuori confine, in specie nelle letterature francese e angloamericana – Fabio Dainotti, fino dagli esordi di L’araldo nello specchio, ha afferrato saldamente l’unica consistenza pregnante che possiede la letteratura e che ne giustifica l’esistenza in termini di attività umana costruttiva, illustrativa e decorativa: l’incontro della poesia con la vita e l’esercizio di interpretazione e di racconto della me­de­sima. Direbbe Califano: tutto il resto è noia, cioè di­sputa erudita e pedante sul “significato dei significanti”, ossia una glossa a piè di pagina, in corpo minuscolo. In verità, è questa la malta bastarda con cui il poeta costruisce la casa delle parole: è l’incontro che egli ha con la vita. Ed il linguaggio è ovviamente il sapiente miscuglio degli elementi edificanti: cemento, calce, sabbia e acqua. Cioè elementi poverissimi e comuni, che poi, assemblati nella poesia, sortiscono l’effetto del­l’aere perennius, cioè dell’opera d’arte con una ca­pacità di durata superiore, perché, proprio come agisce la malta bastarda, l’impasto del poeta non serve a mettere insieme delle “belle parole”, ma invece distribuisce in modo perfetto la proporzione e il peso degli even­ti raccontati, in un’idea di architettura della vita che rimane per sempre un esempio mirabile e memorabile.
Se poi si volesse scrivere la nota a piè di pagina, in corpi minuscoli per la gioia dei filologi più esigenti, si potrebbe dire che Fabio Dainotti prende le mosse dal più alto ermetismo italiano di Ungaretti, Montale, Quasimodo e di Alfonso Gatto in particolare, ma poi di Sinisgalli, Bertolucci e prima ancora dai versi di Saba e di Sbarbaro. Ma non c’è in lui una derivazione e una dipendenza connotate, né la creazione di una figliolanza; non identifichiamo in lui un epigono né fortunatamente il caposcuola censore di uno stile definito. Al contrario, troviamo sempre quel viaggiatore di lungo corso che va all’incontro diretto della parola con la vita e che costruisce l’architettura degli eventi, delle riflessioni, dei sentimenti, delle emozioni, delle speranze e delle delusioni: il diario incantato e luminoso di un percorso esemplare, quale appare l’opera in versi di qualsivoglia poeta di vaglia, cioè anche una fantasticheria, una deformazione ispirata della realtà del vissuto e del­le rielaborazioni mentali, che ne diviene cifra e marchio, ancora più affascinante dell’illustrazione piana.
L’intarsio versale è una specialità dell’impasto poetico di Fabio Dainotti. Ma sbaglierebbe il critico che volesse attribuirgli chissà quale valore vuoi di erudizione o di devozione creativa, rivolta ai grandi maestri della storia letteraria ovvero agli anonimi protagonisti del calamaio, che pure essi ricevono attenzione e citazione da parte del poeta di Cava de’ Tirreni. Per Dainotti l’intarsio poetico è una vertigine nel contempo semplice e magistrale, come lo deve essere stato per l’ebanista Giuseppe Maggiolini il quale, forse, non sa­rebbe riuscito a concepire un mobile privo di intarsi, ma quella sua specialità espressiva non divenne mai l’architettura portante delle sue creazioni, le quali chiaramente vengono definite di stile neoclassico e tardo ba­rocco, e non già di stile intarsio, che di per sé non esiste. Similmente, possiamo definire Fabio Dainotti co­me uno dei più validi rappresentanti del post o del tar­do ermetismo italiano, avvicinabile a Mario Luzi, con invenzioni espressionistiche e immaginiste. Però la bellezza e la leggerezza dei suoi intarsi poetici non va mai sottaciuta, perché è molto di più di un vezzo filologico. Si prenda esempio dallo stupendo poemetto Lamento per la morte di Gina, che è sicuramente una delle più mirabili odi scritte in morte di un “eroe”, nel corso di tutta la poesia italiana del secondo Novecento. Seguendo l’indicazione già pascoliana, poi ripresa da Gozzano e dai crepuscolari, l’eroina di questo stupendo epicedio è una mezza figura anonima della storia, cioè la zia del poeta, moglie benestante di un agiato medico condotto. Ma è l’incontro con la vita celebrato dal poe­ta nei versi, così asciutti e scabri eppure limpidi e perfetti nella loro pregnanza immediata di significati, che rende memorabile questo omaggio in morte offerto a un’oscura rappresentante della buona borghesia bresciana. Si tratta di un epicedio che si trasforma mirabilmente in un canto di vita, cioè in una dolcissima e schietta evocazione di luminose istantanee, tutte così autentiche e gustose, molte delle quali dotate di una eco inimitabile di profondità e di polifonia per accenti e per rimandi a situazioni analoghe o differenti già celebrate da altri poeti, con un caleidoscopio di armonie e di di­scordanze, come voci in controcanto, derivanti dalla scelta sapiente degli intarsi poetici, come se la morte di Gina fosse un “pianto antico” già compiuto infinite vol­te nella storia della poesia, esattamente come è la morte di ciascuno di noi nella realtà dei fatti, cioè un’esperienza che si rinnova sempre diversa e sempre uguale.

Sandro Gros-Pietro

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