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Autore: Elio Andriuoli
Editore: Genesi Editrice
Formato: libro
Collana: I Gherigli,
Pagine: 152
Pubblicazione: 2011
ISBN/EAN: 9788874142934
Aforismi, pensieri e riflessioni
Le prime cinque sezioni di questo libro sono già apparse, in edizione parziale e con lo stesso titolo, presso la Genesi, in quanto costituenti la silloge vincitrice nel 2010 del Premio “I Murazzi” di Torino per l’Inedito.
POSTFAZIONE
“Che cos’è il tempo? Lo so, se nessuno me lo chiede, ma se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so più”. Nell’undicesimo libro delle Confessioni di Agostino, come nella poesia Il tempo di Elio, il vero oggetto misterioso su cui ci si interroga è l’eternità, cioè Dio, colui che è senza declinazioni e senza misure: colui che è senza tempo. Agostino dice che non si può spiegare questo mistero: esseresenza declinare il tempo. Eppure non si può avere alcuna forma di conoscenza e di orientamento nel reale, che comporta una continua misurazione e correlazione, se non si accetta l’enigma del tempo, che è consumo eterno, quindi è senza consumo: è ciò che non è, un enigma irrisolvibile. La poesia di Elio Andriuoli, nella sua espressione più alta, che è quella dei libri pubblicati a datare da Epifanie del 1996 cui seguono Il caos e le forme e Per più vedere, è una riflessione illuminata e colma di speranza intorno all’enigma della creazione. L’osservazione di ciò che c’è nel mondo, insieme alla memoria di ciò che c’è stato e alla speranza meditata di ciò che ci sarà in futuro, riempie i versi di stupore e grazia.
Sono proprio queste forze a contendersi lo spazio lirico della ricerca interiore: l’ansia dell’enigma che sovrasta la vita e lo stupore ammirativo della creazione. Ansia e stupore sono le emozioni fondamentali della poetica di Elio Andriuoli. L’ansia deriva dall’enigma insolubile, che è antico come la mitologia greca. L’ansia è rappresentata dall’icona dello specchio che nasconde il mondo reale dentro la finzione della rappresentazione: ogni rappresentazione della realtà è altra cosa dalla realtà stessa. “Ciò che cerchi non esiste; se ti volti, perderai ciò che ami” dice Ovidio di Narciso inginocchiato alla fonte per ammirare l’incomparabile bellezza della sua persona, riflessa nello specchio dell’acqua. Narciso possiede solo un fantasma della bellezza, ma quel fantasma, che lui cerca nell’acqua, non esiste nella realtà. Eppure, lui non ha che quel fantasma cui ispirarsi e se si volta, lo perderà. Paolo riprende lo stesso concetto nella lettera ai Corinzi, quando osserva che la nostra conoscenza è una larva di ciò che è la realtà (videmus per speculum in aenigmate), ma è l’unica rappresentazione di cui disponiamo. Il problema è se al poeta sia concesso quel “più vedere” che sta tanto a cuore a Elio, come già a Dante, e che Piccarda rimprovera benignamente al suo illustre visitatore: non serve vedere di più, ma l’obbiettivo della creazione è colmarsi nello stupore ammirativo di ciò che esiste. Ci sia concessa un’osservazione quasi blasfema: ciò che appaga, dunque, è essere un flâneur universale, cioè riempirsi gli occhi, il cuore, la mente dello spettacolo dorato e moltiplicativo della creazione. Appaga vivere la creazione anche nelle testimonianze che provengono dallo specchio continuamente consultato dagli artisti e dai poeti, che è una larva e un fantasma che non esiste. Ma veramente l’uomo, nella sua espressione più alta della bellezza, che può avere come icona Narciso, è solo una larva? è solo ciò che non è? Forse, che questo enigma dell’uomo – essere un non-essere – non è paredro al grande enigma del tempo, il quale è consumo di ciò che non si consuma, perché il tempo dura in eterno? Forse che questa fratellanza di enigmi non è espressione di azzardo della voce? La voce, ovviamente, è metafora dell’arte e specificamente della poesia. E l’azzardo è la presunzione che la voce esprima quel tale più vedere che è l’obbiettivo della scala verso il cielo costruita da Dante per raggiungere la celeste visione.
Tutte le metafore fino ad ora esposte appartengono alla poesia di Elio quanto gli appartengono quelle altre icone che provengono dalle amate, amatissime e meditate, frequentazioni del mondo dell’arte e della letteratura, come i liocorni, i bestiari poetici, la consultazione dei libri sacri, le tante corrispondenze elettive con gli altri scrittori. Ma c’è, nella poesia di Elio, un livello ancora più alto di appartenenza e di immedesimazione con ciò che ama (ciò da cui non deve distogliere lo sguardo per non perderlo). Si tratta delle estasi familiari vissute a braccetto della moglie Liliana quando insieme passeggiano per le vie di Albaro o si affacciano sulla scogliera ad ammirare il mare o si incontrano con gli amici poeti di tutta Italia e non solo o ammirano il ritorno della primavera e si commuovono per l’aprirsi dei boccioli ai raggi del sole. Allora, sì, il loro cuore è zeppo di stupore ammirativo. Tuttavia, la contezza del tempo che si consuma e il procombere della vita verso la finale dissoluzione della materia suscitano nel poeta nuovamente il risorgere di quel tal sentimento di ansia, che è l’altra autentica faccia della poetica andriuoliana: cosa c’è dietro lo specchio? L’altezza indiscutibile di Andriuoli sta nella sua perfetta onestà di poeta: egli ammette di avere paura, di provare non solo ansia, ma autentica angoscia. Egli fa della paura del dopo (l’anticoTimor Dei) la visione più alta, al di sopra delle scienze rassicuranti, cui il poeta riesce a giungere. È, dunque, questo l’unico “per più vedere” che sia concesso a chi pratica la poesia. La poesia, ci dice Andriuoli, arriva al punto altissimo di restituire integra all’uomo la piena consapevolezza di essere votato alla morte e di provarne una provvida angoscia. Convivere con questa terribile consapevolezza e con questa inconsolabile paura è l’unico atto di eroismo umano che meriti di essere rispettato. È questo l’autentico morituri te salutantche l’uomo coraggioso pronuncia, rivolgendolo prima di tutto a se stesso, ma poi rivolgendolo all’intera umanità che osserva ogni singolo uomo nello specchio dell’arte, e si gusta lo spettacolo terribile della sua morte: quella morte che il poeta racconta con l’azzardo della voce.
Sandro Gros-Pietro
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