Nelle alate forme di una lirica breve e metaforica, Antonio D’Elia insiste nel concetto lapidario per la quale “Le cose raccontano la nostra storia” e come Ovidio nelle Metamorfosi cerca l’identità nella trasformazione continua degli oggetti e delle persone che ci circondano e che scompaiono nell’enigma del tempo, dell’eternità, della confluenza dell’essere nel non essere, ma che ostinatamente continuano a oltranza a mantenere la loro presenza in una alterità divenuta ormai, agli occhi del poeta, lo scontato enigma ab æterno, un ossimoro domestico e fino rincuorante. Nel concento dei mille volti di donna, di amici, di artisti, giovani e vecchi, nonché nel lessico familiare dei luoghi e degli oggetti quotidani avviene sotto gli occhi incantati del poeta questa continua dichiarazione delle generalità originarie delle cose che si presentano come pagine di storia e che si trasformano metaforicamente in occasioni di mito, con la perdita dell’identità primigenia e con la resurrezione nella persistenza vitale in forme visionarie dal sonno di Endimione e dal sogno orfico, secondo un’espres­sione intellettuale che affonda le radici nell’origine della nostra cultura, ma che si proietta in una dimensione virtuale di postmodernità perfettamente rappresentativa dell’ultima frontiera della parola poetica occidentale.

Sandro Gros-Pietro

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