Nota dell’Autore

Se fosse una novità suonerei le campane a festa, ma non è proprio il caso. Infatti, ho parlato e ho scritto per la prima volta di geoepica – neologismo ancora non registrato nei repertori del lessico – al convegno Il bosco sillabico, tenutosi a Pavullo nel Frignano, il 13-15 maggio del 2005. L’anno dopo si è tenuto a Torino il convegno poetico Natura benigna / Natura matrigna, il 24 e 25 marzo 2006. Sulla rivista Vernice sono riportati gli interventi nei nn.°° 31/32 e 33/34 dei sopraddetti anni. La definizione risale ai termini greci, geo ed epos, terra e parola: canto, espressione, memoria, leggenda e fantasia del Pianeta. Il Pianeta è protagonista poetico, nella sua terrigna e terragna consistenza, spessore biologico, materiale, storico: incommensurabile archivio di notizie, fra le quali l’uomo è una piccola, pericolosissima e infestante presenza assassina, che deturpa l’azzurro rilucente della Terra, stampato nella volta dell’inchiostro stellato. Tuttavia, con quale umana grazia avviene la diabolica rovina dell’azzurro! Tra quali nobili sentimenti, alti dolori, fierissime storie di sangue e di pene indicibili si consuma l’uomo, che graffia quel volto azzurro e si autodistrugge insieme alla superficie biologica del Pianeta. La geoepica è un discorso sensibile a questo tipo di tematiche. È una poetica ellittica. Ruota intorno a due fuochi, uno piccolissimo, terribilmente attivo e bruciante, nel breve periodo: l’uomo. L’altro fuoco è un polo im­menso, lento e apparentemente inerme, ma inesorabile e immutabile, nella sua disarmante immobilità d’azione: il Pianeta, appunto, di cui l’uomo, ahimè, fa parte. Ne nasce una dialettica per lo più in due tempi. Come il motore delle motociclette d’antan: si tratta, dunque, di meccaniche e di arnesi poetici piuttosto noti. Tutte le geoepiche hanno la caratteristica di trascendere l’io-poeta e l’aspetto di ricerca dell’individualità narrante, che ha già ispirato e cospirato per tutto il Novecento: potrebbe anche bastare, almeno per un secolo. Il discorso in forma narrativa anela a uno sviluppo poematico, che non è la regola vincolante, ma è una soluzione probante e probabile. In anni recenti si è vista fare della mirabile geoepica da Veniero Scarselli, da Corrado Calabrò, da Giovanni Chiellino. Antesignano della geoepica, negli anni Settanta e Ottanta potrei dire che è stato Giovanni Ramella Bagneri. Non ci sono sole le geoepiche, ma anche altri costrutti in versi. La poesia è una visione epifanica del mondo reale: per il solo fatto di finire in versi, le cose divengono divine. C’è una deformazione celebrativa che le rende esemplari, icone e simboli della realtà a cui alludono. Dice Silvia Marzano: arcani di-segni. Meglio non si potrebbe dire.

PRESENTAZIONE

In casa mia mi sa meglio una rapa, piuttosto che porco o tordo in casa d’altri, anche se cito un po’ a memoria. Chi scrive così è Ludovico Ariosto: il quale, a giudicare dalla casa natale di mamma Malaguzzi a Reggio Emilia, di rape in vita sua deve averne mangiato poche. Mentre è vero che, dalla villa estiva del Mauriziano, Ludovico vedeva le mura del Lazzaretto, già allora ricettacolo di mentecatti e pazzarelli. Come governatore della Lunigiana, aveva libero accesso alla struttura, all’interno della quale è facile supporre ab­bia tratto lo stampo dei propri eroi maniacali (Orlando), paranoici (Rodomonte), schizofrenici (Astolfo). Dignitario alla corte degli estensi, mecenati costretti a mantenere il potere con l’utilizzo di accorte politiche matrimoniali, Ludovico capiva benissimo che parlare di epica in senso tradizionale non era il caso, e scriveva il più straordinario e moderno dei poemi cavallereschi: ove gli eroi, con l’apparenza di combattere per un ideale superiore, in realtà descrivono la storia ipertrofica dell’io; quando viceversa Angelica, seguendo l’estro femminile per accoppiarsi all’inetto ma recettivo Medoro, in realtà descrive la storia del mondo, l’istinto alla vita (Schopenhauer; alle nostre latitudini meno filosofiche: Leopardi) che la Natura impiega per perpetuare se stessa. Geoepica, neologismo: la parola eroica non è riferita alla storia dell’uomo, ma alla storia del Mondo.
Sandro Gros-Pietro, cui spetta la paternità del termine, intellettuale poeta editore con tutta evidenza poco avvezzo a nutrirsi di rape, scrive e licenzia le sue “Geoepiche”. Il guerriero crociato, croce rossa sul petto, attraversa il passo del Moncenisio diretto al monastero di Novalesa, i padri lo riceveranno al mattutino chiedendo novella di Santa Gerusalemme conquistata. Fischia il vento infuria la bufera. Da un mas­so a strapiombo sull’abisso sbuca ringhioso il lupo, il capo branco conduce la muta affamata, il cavaliere crociato impugna la spada e combatte, Orlando a Roncisvalle ma non ci sono i mori ci sono i lupi, non c’è il corno cui affidare l’ultima voce, ma c’è la fredda luna impassibile del Moncenisio. Iato temporale: nove secoli dopo, stessa intemperie, il medesimo passo del Moncenisio, un avventuroso disc-jockey ha scelto l’impervia salita in luogo dell’agevole autostrada, lo tenta il brivido sull’orrido in agguato. Lo attendono gli amici al forno del paese per la colazione, prima che sorga il sole. Alla svolta del crociato, a centro strada transita una famiglia di cinghiali, il verro difende la femmina e i cuccioli e non cede il passo, il disc-jockey brandisce il volante come l’elsa di una spada e tenta la manovra impossibile, l’auto annaspa e precipita: al lume, è ovvio, della silente luna. La storia dell’io (del crociato, del disc-jockey) ha pari dignità rispetto alla storia dell’io ferino (il lupo, il verro). Ma soprattutto è la storia del Moncenisio, epica e immutabile, nei secoli dei secoli.
“Geoepica”, appunto.

Il problema è il linguaggio. Se l’io ha perso la capacità di definirsi eroicamente e l’epica è morta, tanto vale tentare tutta l’epica possibile, pensa un poeta come, mettiamo, Veniero Scarselli. Se l’epica è morta, l’unica cosa possibile consiste nell’evocarla in modo affettuosamente imitativo. L’operazione ha il sapore di una cerimonia funebre, ove però il defunto (l’io epico) è oramai tanto lontano da non suscitare dolore, ma una condizione affettuosa di nostalgia. Il linguaggio, come accade in tutte le evocazioni, è allora improntato ad una drammaticità volutamente enfatica. Così fa il puparo siciliano, quando racconta le smisurate imprese gli smisurati amori gli smisurati dolori, e il pubblico partecipa perfettamente consapevole di assistere a una cerimonia del ricordo (dell’io, quando riusciva a definirsi epico). “Orrore orrore orrore”, scrive Sandro sulla scena dei lupi che di­laniano il crociato; “Orrore orrore orrore” sulla sce­na del verro che precipita il disc-jockey nell’abisso. A Reggio Emilia, adottava lo stesso linguaggio il grande Otello Sarzi, i cui burattini appartengono al patrimonio culturale della città. La maschera di Fa­giolino scendeva all’inferno, come Ulisse come Enea come Dante, se per questo come Gesù Cristo ma è bene non esagerare nei paragoni. All’inferno, prendeva a bastonate il diavolo. Gli era compagno il burattino Sandrone, una specie di Sancho Panza dal linguaggio insieme contadino ed epico. A presentazione ultimata, Otello si intratteneva con la parte del pubblico disposta a seguirlo in trattoria. E allora parlava dei suoi burattini e di sé e dell’uomo e del mondo con voce che non era più epica, ma invece lirica e ancora più spesso elegiaca. E allora tu capivi che l’epica era per lui nostalgia del sé che non era, rispetto a un mondo altrettanto inesistente. Perché questo ha di meraviglioso l’uomo: riesce ad avere nostalgia di qualità, e di cose, per la verità mai possedute. Altrettanto fa Gros-Pietro, che racconta il suo crociato il musicante le bestie il Moncenisio con la voce stentorea del mio burattinaio, per intrattenere alla fine il lettore su argomentazioni introflesse di tutt’altro tipo: ad esempio nell’osservazione della bellezza quasi angosciosa e precaria del mondo (Delle acque che celano inizio e fine), e nella sommessa dichiarazione d’amore alla moglie (Le voci dell’anima: a Eleonora).

Quando mima l’epica, l’io non compie soltanto un’operazione di nostalgia. Definisce e riconosce, anche, se stesso per la qualità opposta e pronuncia la parola: che non quella eroica, ma quella più valorosamente affettiva.

Rossano Onano

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