Prefazione

Il sogno e l’immaginazione costituiscono la forza di Antonio Marcello Villucci. Con l’avvertenza che il sogno è compiuto ad occhi aperti e con l’accortezza che l’immaginazione consiste nella ri/lettura della realtà. Si tratta quasi sempre di un racconto poetico, raramente, invece, la sua poesia diviene estasi lirica e ancora meno mozione dei sentimenti. Il tema che sta alla base della poesia di Villucci è nientemeno che la vicenda del mon­do ossia la sua creazione e la sua scomparsa: i germogli della vita e lo spettacolo ammaliante dell’energia che muove l’azione degli uomini, cui fa necessariamente da contraltare la decadenza in polvere delle cose e delle persone.
Speak, tradotto in italiano con il titolo Le parole non dette, è il romanzo di Laurie Halse Andersen, da cui è stato tratto l’omonimo film. È il racconto di una ragazzina che subisce uno sfregio all’intimità della persona inflittole a scuola da un compagno. E quell’offesa brucia dentro l’animo della fanciulla e scava un antro di dolore che potrà risolversi solo con l’amore della madre. Si tratta di un racconto bipolare che fa funzionare le categorie contrapposte di amore/violenza e di comunica­zio­ne/in­comunicabilità. È un intreccio di situazioni e di valori umani, che si dissolvono lungo la via di fuga che trascende il reale.
Lo stesso titolo dato al romanzo americano, le parole non dette, contrassegna il libro di poesie di Antonio Marcello Villucci che ha in comune con la scrittrice e musicista newyorchese, oltre all’omonimia dell’opera, la caratteristica di essere un racconto bipolare, incentrato sulle due categorie dell’amore e della comunicazione, nelle loro doppie valenze di presenza e di assenza dal mondo.
Villucci è un letterato esperto e capace di realizzare una scrittura di alta fascinazione intellettuale. Si leggano le prime poesie con le quali si apre il sipario sul mondo di sogno e di immaginazione raccontato in versi e si noti il nitore e la profondità dei bozzetti paesaggistici e degli intrecci narrativi, perfetti e lievi come ali di farfalla; neppure Charles Dickens riesce ad essere tanto incisivo in pari essenzialità di parole, quando descrive, tra sogno e immaginazione, la vecchia Inghilterra che esiste soltanto nel suo capolavoro, Il circolo Pickwick, il quale è stato assunto a simbolo impareggiabile dell’Old England reale vissuta. Proviamo a leggere Villucci: “Ero il ragazzuolo più vispo del cortile; / andavo nel verde a caccia di grilli e ramarri. / Quando il pomeriggio dardeggiava / correvo dietro le bisce fienaiole / e le bloccavo col cappio. / Rattenevo le lucciole / nel colmo della mano / per farle sciamare all’improvviso / in barbagli di luce. / Tornavo a casa / al calar della sera / con le ginocchia e i calzoni sdruciti / ma lieto nel cuore. / Al bosco giungeva l’eco / della voce di mia madre. / Mi attendeva sull’uscio / con sguardo d’attesa / ma che celava tenerezza”. Similmente, rileggiamo il racconto del venditore di palloncini, che quasi ci aspettiamo che avvii anch’egli il dialogo col “passeggere”, circa la vita passata e quella futura, e la speranza che domani sia migliore di ciò che è accaduto fino a oggi, come fece il suo celebre sodale, venditore di almanacchi: “Se ne veniva lungo la spiaggia / con un vecchio pantalone sbrindellato, / un cappellaccio stinto, tutto curve / e il suo torace villoso. / Si sedeva all’indiana / e dalla sacca traeva / la pompa ad elio / per il volo dei palloncini”. Immediatamente, il lettore ha ricostruito nella mente l’immagine nitida del ragazzino che si affaccia al limitare del bosco e coglie nello sguardo della madre la luce dell’amore covato in paziente attesa; similmente, ha ricomposto la scena del venditore ambulante di palloncini e di sogni elevati al cielo, in una bolla colorata di elio. Inoltre, l’autore ci pare inviti il lettore a spingersi ben oltre l’immaginazione del sogno e sembra lo esorti a riflettere sul valore rappresentativo che è alluso dalle catena di metafore espresse dalla vicenda. Talvolta la purezza della metafora è consegnata al lettore come una gemma solitaria, incastonata nel testo senza altri intrecci descrittivi né alcuna vicenda proviene dalla fantasia: “Dopo questa ventata di piovasco / risale la chiaria ad occidente / lungo il verde delle valli. / La nebbia si dirada oltre le siepi. / E noi a rimirare il cielo / e le stelle di Dio / nella notte argentata / sopra di noi distesa”.
Nella poesia di Villucci agiscono due piani di lettura della realtà del mondo. Il primo piano è quello dell’incontro con la storia dell’uomo, ed è per lo più caratterizzato da vicende drammatiche se non tragiche, in cui si manifesta la violenza, la follia e la crudeltà stolta degli infami esercitata a danno di vittime inermi, condannate a subire il male, ma anche glorificate come agnelli sacrificali che si sublimano nell’olocausto di sé in generosa dedizione ai valori civili del collettivo. Il secondo piano, invece, è la dimensione metastorica dell’incontro con la volontà nascosta di Dio, ed è un incontro che assume la connotazione del mistero insondabile, capace di affascinare anche le menti degli uomini più saggi, ma di non placare comunque mai l’arsura di conoscere la verità, pur nel conforto della fede e nell’armonia della pace, resta in ogni caso inesausto il desiderio di conoscere l’impossibile e di percepire l’eterno. Appartiene al rilievo della storia la poesia dedicata in memoria di Federico Garcia Lorca, assassinato “dalla barbarie franchista”, nel dileggio della sua personalità di intellettuale e nel disprezzo omofobico della sua intimità personale. “Sputacchiarono sulle sue carte / (che avevano reso grande la Spagna) / recitandole in falsetto, / bestemmiando che quelli / erano giochi da sgualdrine. / […] / Lo pestarono col calcio dei fucili / gli svelsero la sedia / e lo rotolarono dov’era un rivolo di sole / sul selciato lacerandogli il petto / con bagliori di sangue”. Appartengono invece all’incontro con la metastoria i versi semplici e solenni, scritti in sembianza di implorazione della poesia Rendimi nel sogno le ombre: “Padre nostro, / che mi abbacini nelle sere / con i misteri dei tuoi cieli / rendimi in sogno le ombre / di quanti furono a me cari / sin dalle soglie dell’infanzia, / e che un’avara sorte / a me rapì con inganni. / Converremo tutti / con diafani abbracci / su campi d’oro e rossi di papaveri / col ritmo antico delle Ore / perché il cuore si adorni della gioia / di quella prima stagione degli incontri”. Non solo dunque funziona un ulteriore sviluppo bipolare tra la storia e la metastoria, ma anche è sviluppata la contrapposizione armonica tra le egregie figure dei grandi (come Garcia Lorca o l’Arcangelo Michele o il Poverello di Assisi), e le figure non toccate dalla gloria dell’umanità, ma illuminate dall’affezione e dalla dedizione del poeta, come lo sono la nonna e il nonno e il padre, che lavora i due orti di famiglia.
Già nella prefazione dell’ultimo libro di Villucci, Parole d’azzurro, si era messo in evidenza il duplice in­canto della poesia dello scrittore di Sessa Auranca, precisamente era stato scritto che “la realtà si impone nella poesia di Villucci come spettacolo cantabile della scena del mondo: inesauribile collezione di sentimenti umani, emozioni, alternarsi di gioie e di dolori, il nascere e il fortificarsi degli affetti, l’azione della morte che sradica i valori umani e li annichilisce nel pianto. Ma l’immensa commedia umana che anima la sottile pellicola di vita biologica miracolosamente appoggiata sulla superficie del pianeta resta incorniciata in un orientamento sfumato di superiore destino metafisico”. Si compone così una corrispondenza tra la carne e lo spirito, la storia e la metastoria, la ragione e il mistero, l’incertezza e la fede, il dubbio e la verità, senza che per altro sia possibile pronunciare una parola definitiva usando il linguaggio della corrosività dei dubbi inventato dagli uomini, ma anche sempre tenendo aperta una sponda di approdo delle “parole non dette”, quelle che gli uomini non sanno pronunciare perché si collocano al di là dell’umano, del troppo umano, che ci trattiene nei nostri confini ansiosi e assetati di terrestrità.

Sandro Gros-Pietro

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