Prefazione

La poesia di Elena Arena Lancia sviluppa un pensiero poetante ricco di orientamenti plurali e diversificato per interessi sia letterari sia filosofici, ma il minimo comune divisore che apparenta tutti i rami specifici di estensione della parola è la formula nietzschiana dell’eterno ritorno, per il quale dovrebbe vigere un’equivalenza dei valori in campo, una stessa matrice originaria di pensiero e parola che si rinnova e risorge nella permanenza continuativa delle espressioni specifiche: un frattale, che sempre si moltiplica diverso da sé, ma contemporaneamente si realizza con costanza identico a sé stesso, nel marchio creativo che lo rappresenta. Autrice complessa e innovativa, Elena Arena Lancia si colloca fuori dalle mode letterarie del suo tempo e anche dei tempi andati, ma il magistero di tanti anni di insegnamento di letteratura e di filosofia comporta necessariamente nei versi l’appalesarsi di quei vasti e approfonditi magazzini della memoria umanistica, verso i quali la professione svolta le ha imposto l’uso e la quotidiana confidenza. Non è un caso, dunque, se la dorsale di lettura principale su cui si allinea la sua poetica sia quel binomio fondamentale di avvicendamento e di coesione che è dato dalla vita e dalla morte, anche leggibile nei termini di amore e morte, eros e thanatos. Si apre, allora, una temperie di secoli che va da Empedocle a Freud, da Sesto Aurelio Properzio a Cesare Pavese e dagli stilnovisti ai romantici, da Fidia a Bruno Catalano, e che non solo sottolinea il sortilegio dell’eterno ritorno nell’ambito della parola, ma che in aggiunta propone e realizza una sinergia tra la parola e l’immagine, anche quest’ultima sottoposta all’identico meccanismo di caduta e di resurrezione, di scardinamento e di riordino, di scomparsa e di ritorno, al punto tale che, a saperlo individuare come farebbe un detective del processo della creazione artistica, ci può essere un fil rouge che collega Marcel Duchamp a Antonello da Messina e che funzionerà in altri casi consimili, che il lettore scoprirà da sé con grande gioia della mente e degli occhi. Ecco, dunque, ha ragione Descartes, per cui noi siamo ciò che pensiamo, e prima di lui avrà avuto ragione anche Oratio, “ut pictura pöiesis”, come nella pittura così nella poesia, sembra dirci la Poetessa, che accosta al linguaggio delle parole il valore semantico delle immagini, come due forme sorelle di funzionamento della mente umana, che compie i suoi eterni percorsi di raggiungimento delle vette e di sprofondamento negli abissi seguendo i tratturi tracciati dalle parole e dalle immagini, in un continuativo succedersi di chiarezza e di obnubilamento, come la notte segue al giorno e la luna al sole, e viceversa.
Il libro si compone di due sezioni differenziate fra loro sia per contenuti sia per cronologia di ideazione. La prima sezione intitolata Flatus voci è quella che maggiormente sviluppa il fondamento dell’illuminazione niciana di cui si è già detto. I simboli della vita e della morte si alternano nelle pagine come la pulsazione sistole e diastole del cuore. E proprio come avviene in cardiologia, ove accade che le due funzioni quasi si so­vrappongano grazie alla stanza di compensazione degli atri, per cui una funzione inizia mentre l’altra è ancora in corso, così, fuori di metafora, può succedere che la vita e la morte, nel sortilegio della poesia, confondano e nascondano i loro confini, per cui si può verificare che continui a vivere chi non c’è più o che possa cessare di esistere chi è ancora in vita. Tale lezione di saggezza sulla natura intrinseca della scena del mondo si desume indirettamente dall’attenta lettura del­le poesie, che raccontano la storia di un grande amo­re del­la Poetessa, perduto alla vita biologica, ma risorto con ancora più pu­rezza e pregnanza alla vita dello spirito nel ricordo ac­corato e costante della sua compagna. Lo svolgimento di questa prima sezione del libro, forse per inerzia verso la direzione di gusto dell’attualità poetica più celebrata dai grandi scrittori contemporanei, assume un andamento formalmente confessionale e diaristico, quasi un tono dimesso di semplicità pascoliana – non si vorrebbe dire decadentista – di calore del focolare e con bozzetti di vita, memorie da lessico familiare alla Ginzburg, rammemorazioni di visite, di gite, di panorami cittadini, con l’intromissione di mo­menti drammatici, eventi di lutto e di irredimibile dolore, che servono a sigillare quel complesso tam tam di percussione alternata che è il ritmo della vita e della morte.

La seconda sezione si chiama Poesie rivisitate e la titolazione fa pensare a una ideazione precedente, successivamente ripresa e poi perfezionata nella forma attuale. La sezione si apre con una sequela abbastanza nutrita di scritti lapidari, concisi, aforistici, sul fare della sentenza inopinata, ma comunque argomentativa, non perentoria, nel grande scenario del dubbio cosmico che l’esistenza slarga per quinci e per quindi. Ma ecco che già con Vivisezione di un cittadino integrato la Poetessa ritorna – questa volta in chiave satirica – a quel bisticcio armonico tra vita e morte per cui non è dato di capire se quella tale mezza figura di “uomo integerrimo” stia morendo da vivo o stia vivendo come un morto. Mentre nella poesia che si porta in esergo l’elegia di Properzio, Il tuo amore seppellì ogni altra cosa, ecco che ritorna accecante e apollineo il trasporto vivificatore dell’eros, l’acme di un amore si impone nel suo naturale e trionfante giubilo di vita. Così, prende nuovamente a dipanarsi, tra scene di vita sociale e legami di affetti familiari, quella indagine ormai divenuta quasi un’attrazione pavesiana verso il “vizio assurdo” e che confonde i segnali della vita e della morte, e che cambia la paternità degli occhi – verrà la morte e avrà i “miei” occhi. Il discorso prosegue e si approfondisce fino a divenire quasi un elogio della follia, non tanto nei termini ironici di Erasmo, ma in quelli avventurieri e drammatici di Ariosto, che racconta di Astolfo che raccoglie sulla Lu­na il senno di Orlando, racchiuso in un’ampolla – Era come un liquor suttile e molle –, similmente la Poetessa ha uno spaesamento serotino, dopo essersi inebriata d’aria salsa in riva al mare, al vedere transitare davanti agli occhi un numero di targa che le rapisce il senno proprio sulla Luna, esattamente come accadde ad Orlando per amore di Angelica, nell’eterno ritorno del dissimile sempre uguale.
La poesia di Elena Arena Lancia promuove in chiave modernissima di autobiografia familiare, descritta nei tempi dell’attualità e con un linguaggio poetico di lineare trasparenza e lucentezza, un’indagine ricognitiva di antica radice, allignata nei precordi della natura umana fin dalle fondamenta della nostra civiltà. La ricerca di quel sottile limes che scontorna la vita e la morte, sentiero anfibologico e nebuloso, che solo nella mente della poetessa, nelle sue metafore vuoi immediate e vuoi cifrate in formule tratte dalla tradizione, tra parola e immagini, tra poesia e pittura, diviene il segno rivelatore di una direzione, più che di una meta raggiunta. Diviene la percezione di essere, più che la sicurezza e la verità dell’essere stesso, cioè l’esse est percipi di George Berkeley.

Sandro Gros-Pietro

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