PREFAZIONE

Il carattere più indicativo della Poesia di Massimo Botturi è quello della contemporaneità e più esattamente dell’attualità letteraria, con una netta predilezione per gli autori stranieri, fra i quali grande influenza acquistano gli scrittori angloamericani. Va detto che appena si pronuncia una teoria o un’affermazione, il filosofo Karl Popper subito raccomanda di applicare il principio della confutabilità e dimostrare che tale congettura può essere immediatamente impugnata, perché se non lo fosse, sarebbe un atto di fede o anche soltanto un’apodissi e non sarebbe utile all’approfondimento del discorso. Per tranquillizzare i seguaci di Popper, basterà indicare la ricca sezione Graffiti del libro di Poesia Libera e si vedrà che l’Autore organizza oltre una trentina di homages rivolti ad altrettanti scrittori della modernità: quelli di nazionalità inglese o americana ovvero anche di altre nazionalità, ma che si sono prevalentemente espressi in inglese, sono appena otto, mentre quelli italiani sono esattamente il doppio. Poi ci sono autori greci, spagnoli, francesi, portoghesi, polacchi e anche caraibici. Va detto che sono tutti autori di vaglia, noti al gran­de pubblico, escluso, forse Pierluigi Cappello, non perché sia negletto, anzi tutt’altro, ma perché la malattia e la morte lo hanno colto proprio mentre si stava imponendo all’attenzione più allargata.
Il vocabolo Libera fa da titolo all’ampia raccolta: è voce verbale ed è aggettivo, per cui esprime un’azione e contemporaneamente una qualità; sottintende la Poesia. C’è un’atmosfera di opalescente surrealismo, cioè un eco di André Breton – autore, tra l’altro, incluso negli omaggi già citati – come riferimento di libertà e come trionfo dell’immaginazione. I collegamenti tra le parti del discorso sono sempre imprevedibili, aprono ogni volta prospettive diverse, con un’insistenza di finzione, congettura e delirio che richiama i più alti esempi di fantasticheria tipici del migliore barocco, come Calderon de la Barca, Lopez de Vega e ovviamente Giovan Battista Marino. La condizione di libertà si realizza con l’affrancamento dalle regolamentazioni tetragone della logica, motivo per cui la poesia diviene rappresentazione analogica della scena del mondo reale, nonché delle alternative alla concretezza delle cose. La realtà, infatti, possiede più di una faccia nascosta, cosa che i poeti risanno da sempre. Vale anche il principio che gli esseri umani non costruiscono l’esperienza solo affidandosi alla logica, bensì istruiscono dei processi di orientamento e di spaesamento innervati sul sogno, sulla superstizione, sui comportamenti apotropaici, nonché sull’assurdo, che ha una capacità ipnotizzante di fascino per la men­te umana, basti ricordare il detto credo quia absurdum est, probabilmente attribuito a Tertulliano, per sottolineare l’attrazione magnetica dell’irragionevole.
Se quelli appena esposti, brevi tractu, sono i prodromi che potrebbero in qualche modo fare un poco di luce sull’atmosfera creativa che sovrintende la poetica di Massimo Botturi, può tornare utile riepilogare anche le tematiche. A tale scopo va detto che l’Autore ci viene incontro, perché ha suddiviso il libro in sei sezioni, ciascuna delle quali ha un’intonazione predominante e anche dei contenuti specifici. La prima sezione, Genesi, riguarda principalmente le prime tre stagioni della vita, fanciullezza, adolescenza e gioventù. Si presenta già da subito con un linguaggio filtrato della poesia, tale che enuncia un lessico distintivo, in cui emergono le parole chiave: saggina, sorgo, erba di Spagna, campagna, vigne, nuvole, marine, spiagge, operai, periferia milanese, “un mondo pieno d’aria e di bambini”, un Ulisse impedito, che tocca il mare con il dito sull’atlante, e poi si succhia il dito nella speranza che abbia acquisito un po’ di salsedine, almeno per metafora. Trionfa il mondo dei bagai, cioè dei ragazzini in dialetto milanese, una sorta di “confesso di avere vissuto”, ma ancora con i calzoni corti, soldatini e galeoni, ma con una forte presenza degli anziani, le nonne e i nonni, zie e prozie, e altre figure dell’esperienza umana che sono rappresentate in un alone di luce e di mistero, esattamente come i giovani osservano i vecchi: i loro imbarazzi fisici e il loro affascinante mestiere di sopravvivere all’erosione del tempo. La seconda sezione, con una significativa inversione dei termini, si intitola Mater pater, con un’eco stravolta della gerarchia maschilista dell’antichità che pone il padre a capo e in posizione di priore nella dicotomia genitoriale della famiglia. Anche in questa sezione c’è un lessico familiare di zie, amici e colleghi dei genitori: l’intera sezione è una saga delle ricordanze, al centro della quale stanno i genitori, con il padre un poco più burbero, quel tanto più assente, ma lavoratore incallito, forte e bello come un albero, che poi invecchia e lentamente salirà per le scale verso un solaio oltre le nuvole, figura protettrice che ha imboccato il figlio e il figlio si rammarica di non potere restituire il gesto. La madre tutta dolcezza e alacrità, è la divinità vestale del fuoco sempre acceso, fino a che, come casta diva, appare imbiancata, un manto di betulla e di polvere di luna. La terza sezione avrebbe anche potuto funzionare come nominazione eponima dell’intero libro, Il colore del grano acerbo, perché è la sezione che rappresenta la chia­ve di volta di tutta la poetica di Massimo Botturi: la donna amata è lo strumento attraverso cui l’uomo può giungere ad amare la vita. Tutto il resto, le amicizie, le sbornie, gli sport, il lavoro, la carriera, gli arricchimenti sono i diversivi che affollano e animano la quotidianità, poi click, e tutto finisce in cenere. Ma la donna no, perché la donna resta, nella sua divinità terragna e sensuale, a trasmettere il soffio della vita: non cesserà mai di svolgere la sua funzione d’amore. Si tratta della più convincente e completa ritorsione dello stilnovismo dantesco, che pone la donna come unico strumento che permetta all’uomo di elevarsi fino a Dio. In questo caso, invece, c’è un “trasumanare” che conduce l’uomo da accettare la vertigine di follia e di cieco dolore che è il destino umano nel suo complesso. Infatti, c’è un premio impagabile per chi ha la fortuna di coglierlo, che è rappresentato dall’amore della donna, che tutto illumina, tutto lenisce, tutto armonizza, accogliendo l’uomo amato fra le sue braccia. In questo sponsale di appartenenza e di fusione dei due amanti c’è la luce semplice, sensuale, erotica, benigna e benedetta; l’unica fiamma che rimane accesa nell’eterna oscurità senza alcun senso e priva di scopo dell’intera storia umana sul Pianeta Azzurro: c’è da amare la donna, cioè il colore del grano acerbo, e ciò può bastare ed avanzare a chi sappia intendere la divina profondità dell’amore umano, che conduce al dono di sé stessi, come è degnamente illustrato nella bellissima poesia Questo mio corpo tuo. La quarta sezione del libro si intitola Pangea, prende il nome dal primordiale ed unico continente delle terre emerse dalle acque ed unite insieme, da cui successivamente nella temperie delle ere geologiche si sono dissociati gli attuali continenti. È evidente il contenuto, naturalistico, di panismo, di geoepica, in un grande trionfo delle acque, delle foglie, delle erbe, delle nevi, dei campi e ovviamente degli uccelli, che dalla notte dei millenni sono il simbolo poetico della libertà e quindi vanno a braccetto con il titolo del libro di Botturi. La quinta sezione si apre con un decalogo quasi catechistico di ciò che conviene amare al mondo, contenuto nella poesia Manifesto, come fosse un appunto di poetica da tenere a mente. Ed ecco infatti seguire gli omaggi e gli appoggi letterari, di cui abbiamo già parlato, che probabilmente rappresentano la parte più addottrinata dell’intero libro, ai limiti della pedanteria, che tuttavia serve a ricostruire una meditata visione, sia pure di scorcio – e quindi quasi caricatura­le – della poesia d’attualità. L’ultima sezione del libro, intitolata Blues, è quella che rivela più apertamente il fascino di Botturi per gli Usa, il canto pieno di suggestione e di malinconia del blues, il jazz, le espressioni tipiche degli americani, come Kind of blue, anche i gospel, come Strange fruit di Billie Holiday, ma ovviamente non mancano le occasioni di impegno civico tutto italiano, come Fratelli Cervi, nonché il sentimento del collettivo, maturato nel corso dei secoli di storia umana, come leggiamo nella poesia Le nuvole, “Di là da questo mondo è la stessa terra lieve / se allungo le mie braccia, tiro la fune a un morto”.
La poetica di Massimo Botturi risente dell’atmosfera del surrealismo, con qualche tendenza anche all’analisi psicologica, ma si distingue per la straordinaria grazia delle emozioni e della sensualità che elabora nel rapporto rivolto alla donna amata, vera protagonista della complessità delle vicende umane illustrate dal Poeta, che poi riesce a stabilire un filo rosso di collegamento con le più disparate occasioni rivelatrici della vita, sempre lette nel segno e nel sogno appagante della donna.

Sandro Gros-Pietro

1 recensioni per Libera

  1. Massimo Botturi

    Questo lavoro è il mio grazie alla vita, alle persone che l’hanno attraversata ed arricchita. Probabilmente sarà l’ultimo nel suo genere, perché ritengo rappresenti l’apice stilistico di ciò che posso e voglio esprimere, per questo è così corposo e diviso in sezioni distinte. Pensatelo come una sorta di viaggio, il racconto di un uomo nelle sue tappe fondamentali: l’infanzia, l’adolescenza, la maturità, la scoperta dell’amore, della bellezza, della ricchezza artistica, ambientale. La presa di coscienza, infine, della malattia e della morte. Siamo in presenza di 260 testi, circa 300 pagine. Non voglio chiamarlo testamento letterario, ma sicuramente è un documento che meglio di altri testimonia l’avventura del mio scrivere. Ringrazio sin da ora anche chi vorrà approfondire, conoscere, suggerire, criticare, o semplicemente, sorvolare.

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