INTRODUZIONE

La definizione di “canzoniere” (che fa pensare, d’istinto, a Petrarca o a Saba: ossia a grandi strutture poetiche premeditate, calcolate e soffertamente costruite nel corso dei decenni, a partire da un disegno predeterminato che aveva però, di testo in testo o di volume in volume, le tensioni, le incertezze, le contrarietà, i sussulti e gli strappi di un vivido percorso esistenziale) potrebbe apparire discutibile se riferita ad un libro come questo, nato da una selezione operata sul corpo di poesie inedite lasciato dall’Autrice fra le carte, poesie che fino agli anni 2000 sono generalmente prive di data, cosicché per una corretta collocazione temporale ne viene indicato genericamente il periodo di stesura.
Selezione si diceva che come ogni scelta potrebbe non essere completamente condivisa ma che tuttavia conferma, se ce ne fosse bisogno, sul piano così dello stile come del pensiero, la validità dell’immagine e dell’eco di questa voce poetica, maturata in anni di studio, di meditazione e di impegno fino ad ottenere uno stile originale e riconoscibile.
Eppure, proprio i criteri e il metodo qui seguiti nella selezione delle poesie suggerirebbero di parlare di “canzoniere” o di “diario poetico” (e qui soccorrerebbe la possibile analogia sia con il Montale del controverso Diario postumo che con il Valéry, dall’inesauribile per quanto meridiana e declinante vena amorosa, di Corona et Coronilla).
Si sono, infatti, isolati alcuni grandi temi: il ciclico e ricorsivo ritorno alla natìa Sicilia, con tutte le sue memorie materne, i suoi colori e profumi intensi, il fresco abbraccio celeste del suo mare; la fiducia riposta nella parola poetica ‒ parola-pietra, parola-stella, parola-fiore ‒ che può risollevare e sublimare l’uomo dall’inesorabile “letto di marmo” che l’attende e che è dimora ultima, ma forse anche soglia o origine di un cammino ulteriore e più alto; la lieve “gaiezza” di una “brigata” boccacciana o stilnovista che sembra stornare il futuro mentre, al contrario, vive il tempo, immersa in esso, con ellenistica sapienza; il continuo aprirsi dei molteplici cerchi del tempo alla vastità di un indeterminato eterno; l’idea, infine, che proprio la poesia, insieme ai rapporti affettivi che la ispirano, e di cui essa vive, possa trascendere i limiti imposti alla sfera dell’umano.
E precisamente a quest’ultimo riguardo si potrebbe citare proprio il Diario postumo (pur così controverso) di Montale: “Un giorno / anch’io sarò salvo per chi non mi smemora”; “L’amicizia / questo può: donare l’oblìo o all’estremo / farci rivivere insieme in nuove albe”.
La Poetessa costruisce pazientemente e minutamente il proprio universo di temi, simboli, analogie, spie rivelatrici dell’invisibile; la propria folta e labirintica rete, per citare Charles Mauron, di metafore ricorrenti (non si vorrebbe dire “ossessive”, date la superiore serenità, la pacata sintonia con il superiore destino che pervadono i suoi testi) che diventano veri e propri piccoli “miti personali”: il mare, l’amicizia, l’amore, il ricordo, il ritorno, la materna “casa dalle cento porte”, i fiori, il rigenerarsi della natura, la serena attesa del riposo eterno anticamera di eterna vita, i cicli del tempo come immagine e ombra terrena del sovratempo o dell’oltre tempo.
Ella eleva questa cattedrale di pensieri e parole a partire da una tradizione poetica consolidata: Dante, specie quello del Paradiso; il Petrarca della natura, del tempo eracliteo che fluisce, della reminiscenza; il Quasimodo della prima stagione, quello “siculo greco”, in cui la fulgida luce dell’aria e del mare evoca e insieme sovrasta ed oscura il velo d’ombre, posto a contrasto con l’asperità e la scabrosità dilavate e disanimate del primo Montale, ma anche con le epifanie e le metatemporali visitazioni del secondo; l’Ungaretti non tanto della prima stagione, con le sue parole isolate dal bianco della pagina e la sua punteggiatura e sintassi scarnificate, quanto di Sentimento del tempo, con la duplice e unica dimensione del senso che l’uomo ha del tempo, e nel tempo, e di quello che il tempo ha di sé stesso, facendo dell’uomo uno specchio limpido, ma sovrastato e trasceso.
Eppure è una tradizione appena rievocata, echeggiata alla lontana come attraverso una lunga sequenza di schermi e di filtri.
Si tratta, anzi, quasi di una sorta di comune lingua poetica (innanzitutto italiana, ancor prima che novecentesca) già data e formata, in cui però ogni nuova voce davvero vivida e quintessenziale può inscriversi con la propria luminosa unicità al pari di una ulteriore gemma in un monile istoriato.
Anche queste parnassiane pierreries, questi gioielli preziosi e fulgenti come fiori, sono del resto parte integrante dell’immaginario della Poetessa; onde si potrebbe citare, se ella non fosse aliena da ogni soverchio intellettualismo non meno che da ogni eccessivo sentimentalismo e da ogni enfasi, Mallarmé: “Les mots s’allument de reflets réciproques comme une virtuelle traînée de feux sur des pierreries, remplaçant la respiration perceptible en l’ancien souffle lyrique”.
Ci si potrebbe chiedere, in questo contesto, in che termini, in base a quali criteri e secondo quali parametri, si possa parlare di “poesia femminile”, se si volesse caratterizzare l’individualità dell’Autrice facendo riferimento ad una definizione e ad un filone oggetto, oggi, di notevole interesse.
E si dovrà superare, una volta di più, e a maggior ragione, l’antico pregiudizio secondo cui le scritture femminili costituirebbero una modalità d’espressione soggettiva, emotiva, intimistica, da journal intime, priva di complessità stilistica e di spessore culturale e concettuale (onde diceva malevolmente Baudelaire che le loro scritture ondeggiano e fluttuano senza stabilità né forme definite, al pari delle loro vesti).
Se l’introspezione, lo scavo interiore, l’intelligenza emotiva, la presa di coscienza, spesso dolorosa, della propria identità e del proprio vissuto; se, per così dire, la fonction fabulatrice, originaria ed archetipica, l’assidua tessitura di una tela di trame, di cammini, di vicende, la quale può, come nel caso di Sheherazade, protrarsi oltre la fragilità e la limitatezza del filo di Atropo; se, dicevo, questi elementi sono tipici della sensibilità poetica femminile, altrettanto lo è (non già per rivalsa ‒ quella che faceva dire a Christine de Pizan: “Or je fus vrai homme ce n’es pas fable” ‒ ma piuttosto per un’esigenza di compimento, di consapevolezza, di piena luce interiore) la coscienza letteraria e culturale, la quale, nel nostro caso, si traduce appunto nell’esplicito o implicito richiamo (peraltro non certo pedissequo, ma ricco di originalità e d’innovazione) alla tradizione lirica sopra tratteggiata.
“Vivere ardendo e non sentire il male”. Un verso di Gaspara Stampa riecheggiato, fra gli altri, da D’Annunzio.
Dove non sentire il male equivale ad aderire pienamente, ex imo corde, con una totale immersione e una completa compenetrazione, ad un destino di sofferenza, ma anche di fervore, di ardore laicamente mistico: una sorta di stoico amor fati che ha però tutto il fuoco della passione dionisiaca.

Amor m’ha fatto tal ch’io vivo in foco,
qual nova salamandra al mondo, e quale
l’altro di lei non men stranio animale,
che vive e spira in medesmo loco.
Le mie delizie son tutte e ’l mio gioco
vivere ardendo e non sentire il male.

“Dolce e terribile sorte. Miscuglio di gelo e di ardore”. Così chioserà D’Annnuzio nel Fuoco.
Con altra ampiezza e profondità, Rilke nella prima delle Duinesi:

Hai tu già sciolto un adeguato canto
alla memoria di Gaspara Stampa,
perché, deserta dall’amato, adesso,
una fanciulla, estatica all’esempio,
dentro si strugga di adeguarsi a lei?
Non debbono recare anche piú frutti,
queste pene defunte, a noi viventi?
Non è venuto il tempo,
che, amando, noi si giunga a liberarci
dell’adorato oggetto?

La fiamma d’amore deve sublimare sé stessa fino a trascendere, e quasi a scorporare, insieme a sé stessa, anche l’oggetto dolorosamente amato.

Montale:

Quella che scorporò l’interno fuoco
e colui che lunghi anni d’oltretempo
(anni per me pesante) disincarnano,
si scambiano parole che interito
sul margine io non odo: l’una forse
ritroverà la forma in cui bruciava
amor di Chi la mosse e non di sé.

Ardere di una luce più alta, di un amore più vasto, votato a giungere fino a noi attraverso l’incorporea perennità della Parola.
Questo uno dei messaggi dell’Autrice e, in fondo, e in essenza, di ogni esperienza poetica autenticamente vissuta e sofferta.
Fra le tante poetesse rimaste senza un nome, vi è forse (ché la sensibilità vibrante e la festosa e nuziale sensualità della sua voce hanno indotto alcuni ad ipotizzare un genere femminile) anche l’artefice del Pervigilium Veneris, grandioso canto nuziale variamente attribuito, ambientato proprio in Sicilia, a Ibla (celebre per le virgiliane Apes Hyblaeae della prima Bucolica), e che della Sicilia reca in sé i profumi, la solarità, la coralità raccolta e fervida.

Cras amet qui numquam amavit
quique amavit cras amet.

Chi non ha amato mai ami domani
e domani riami chi ha già amato.

Proprio questa idea di un sentimento sempre rinnovantesi, e capace, attraverso la poesia, di vincere i limiti entro cui è chiusa e confinata la nostra vicenda terrena, è anche il messaggio ultimo di questo libro prezioso.

Matteo Veronesi

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Ottobre

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