Prefazione

Il titolo di questa ultima opera di Edith Dzieduszycka è significativo o quanto meno è un’allegoria del contenuto e del tenore della medesima. La nudità è una caratteristica classica con cui si declinano la verità e la bellezza. Significa essere senza infingimenti, impaludamenti, né parrucche ostative alla visione reale delle cose. L’osso, invece, è quanto residua dopo la scarnificazione; dopo che si è eroso ogni nutrimento, ogni plesso organico funzionante di carne, muscoli, tendini e quant’altro: come una casa sventrata dalla bomba più potente, per cui sono scomparse le pareti, i mobili, gli abbellimenti esterni e interni, rimane in piedi solo la nudità dei pilastri, l’architettura essenziale che sosteneva il disegno esterno delle forme.

L’osso nudo, dunque, non va inteso come il torsolo del frutto, eroso dal tempo e gustato dai mangiatori di loto, che smarriscono la memoria del tutto, ma va interpretato come una categoria metaforica della mente, perché tutti noi che viviamo, parliamo, gioiamo, ci disperiamo e ci entusiasmiamo siamo ossi nudi, irreparabilmente destinati alla scarnificazione di una bomba più potente, che ci priverà in modo totale delle forme interiori ed esteriori, indossate nella nostra fugace esistenza. Non è il caso di fare considerazioni apodittiche circa l’omaggio che Edith Dzieduszycka rivolge agli Ossi di seppia, perché c’è in lei certamente una memoria del libro scritto cent’anni orsono, che ha funzionato da introibo al Nobel del 1975. In realtà, accennato l’omaggio a Montale, l’architettura dell’opera di Edith poggia su altri pilastri.

L’opera è scandita in quello che, impropriamente, potremmo definire l’esteriore e l’interiore, più correttamente potremmo parlare di collettivo e di soggettivo o anche di scena del mondo e di personaggio dell’Io-narrante. C’è un urlo iniziale su cui si spalanca il sipario ad osservare la casa sventrata, cioè l’osso nudo. Si tratta del pentagono delle cinque date: 14 luglio 1789, inizio della Rivoluzione francese, fine della nobilità e del clero, inizio della borghesia, cioè inizio dell’epoca contemporanea; 25 ottobre 1956, inizio della repressione russa su Budapest e fine del sogno comunista; 11 settembre 2001, attacco al World Trade Center e fine del mito dell’inattaccabilità degli Usa; 24 febbraio 2022, invasione russa dell’Ucraina, il fratello uccide il fratello; 7 ottobre 2023, attacco di Hamas ad Israele, il ritorno alle guerre di religione tipiche del medioevo. Sostanzialmente è l’urlo di Edward Munch, dettato dall’orrore che ci circonda, più esattamente è la consapevolezza di cadere nell’abisso, ma è anche la nozione nietzschiana del ritorno del sempre uguale, il serpente Uroboro che mangia sé stesso dalla coda e si rigenera uguale a prima.

La seconda parte del libro è la proiezione/introspezione su sé stessa che l’Autrice compie osservando il suo osso nudo, cioè il suo stato di impotenza a contrastare lo sventramento della casa dentro cui abita la sua anima: il suo corpo che flebilmente cede il passo all’incalzare degli anni, né si può manzonianamente arrestare l’avanzata del carro che si inerpica sull’erta per riuscire prima o dopo a raggiungerla.

Le due decadenze procedono a specchio: il collettivo si rifrange nel personale. I tempi della deteriorabilità sono un paradigma del tutto ininfluente: ciò che conta è l’immedesimazione del mondo e dell’intero cosmo nell’entropia personale della scrittrice che ne ha piena consapevolezza. Mai opera poetica ha così pienamente identificato il destino di tutto il cosmo con quello della singola persona che ha costruito la sua consapevolezza del cosmo in cui vive, che è in una inarrestabile decadenza entropica con sé stessa. Forse, anche per Edith Dzieduszycka esiste una nozione nietzschiana di ritorno del sempre uguale e forse anche la sua anima è destinata a rigenerarsi nutrendosi di sé stessa in un multiverso che non conosciamo.

È interessante notare che il titolo di quest’opera di straordinario fondamento filosofico e poetico deriva da un’occasione – ancora una volta c’è un riferimento montaliano – del tutto inopinata. Precisamente nel 2022, si è trattato di un tumore sviluppatosi sulla fronte di Edith, le cui prime cure hanno aggredito la carne fino a raggiungere “l’osso nudo” e che ha richiesto un intervento chirurgico per ripristinare o comunque per guarire la parte offesa. Sembra di rivivere l’esperienza di Giuseppe Parini: da una rovinosa caduta in mezzo alla via è nata un’opera poetica che tuttora resiste al tempo.

Sandro Gros-Pietro

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