PREFAZIONE

Se dovessimo istituire una civitas poetica dei fiori, sarebbe facile concordare che il primo cittadino di tale repubblica è la rosa, seguita da narciso, giglio, eliotropio, anemone, gelsomino e giù e giù per la scala delle valenze poetiche a scendere fino alle violette, camelie e margherite prataiole, che un poco rappresentano le soluzioni ordinarie del florario di Pegaso. Anche l’erbario vanta una gerarchia di posizione. È indubbio che erica, edera, ginestra, sambuco e convolvolo connumerano un blasone di occasioni di scrittura di alto lignaggio. Ma che dire, allora, di cipolla, ravanello, fava, peperone, prezzemolo e pisellino nano, il quale ci sembra proprio il paria della poetica? Ebbene, Mario Rondi ha deciso di aprire le frontiere agli extracomunitari della cittadella floreale e vi ha fatto entrare anche i terzomondisti, quelli privi di permesso di soggiorno, ma che presso di lui si ritrovano declamati in primazia di nobiltà: fagioli, zucche, asparagi, finocchi, sedani, lattughe e cavolfiori divengono metafore di un discorso poetico sofferto, alluso con maestria alle vette più alte della riflessione, fino là ove si rende etereo il mondo e anfibologico il pensiero, che sfuma nel velo di Maya del mistero. Anche là, si diceva, l’enciclopedia ortolana di Rondi s’erge a simbolo di sapienza poetica. È, dunque, scontata l’intonazione e la postura di ironia sviluppata dalla poetica di Rondi. Non c’è neppure bisogno di avvertire il lettore, perché traspare evidente l’intento scherzoso, l’atteggiamento garbatamente canzonatorio, rivolto dal poeta soprattutto verso se stesso, e in ogni caso manifestato con la grazia autoriduttiva di una tradizione che ha privato la figura e il ruolo del poeta di ogni intento eroico o anche soltanto celebrativo, fin dai tempi del decadentismo gozzaniano. Semmai è opportuno esercitare pres­so il lettore una strategia opposta dell’attenzione, cioè metterlo in guardia sul rischio di pensare che in Rondi tutto sia riconducibile in celia. È bene chiarire che, invece, siamo completamente al di fuori dello stile comico. Al contrario: con Rondi, siamo nella pienezza dell’alto stile poetico, per cui il verso è collimato a un obiettivo metafisico o quanto meno – nell’impossibilità di argomentare l’evanescenza di un mondo altro rispetto a quello reale – siamo nella drammatica ricerca di pienezza e densità delle forme di vita, fino al punto di declinarne le parvenze universali. Siamo di fronte a una poesia che non abdica al suo ruolo di levatrice della verità e della coscienza degli uomini. È una poesia che non accetta di essere solo spettacolo, ma che si propone come cognizione del mondo: informazione e commento di cose e di processi dinamici fra loro correlati. Il rapporto con la flora non è solo, allora, un linguaggio codificato di metafore, ma rappresenta anche un orientamento di valore del poeta. In altri tempi, i poeti si orientavano alle virtù guerresche degli uomini: ne cantavano le “ire funeste” e ne iscrivevano le gesta nei grandi miti, accanto alle imprese degli dei pagani. In tempi successivi, il poeta si è orientato ad amori e furori cavallereschi, ha cantato la follia e la sapienza dell’uomo d’arme che consacrava la propria vita al servizio della fede e dell’amore cortese. Senza stare a riproporre l’intera casistica degli orientamenti di valore assunti dai poeti, è risaputo che quello rivolto alla natura rappresenta uno degli indirizzi fondamentali della poesia di tutti i tempi, a cominciare da Virgilio con Georgiche e Bucoliche, ma anche prima di lui, ci sono stati i suoi precursori greci. In tempi moderni, è successo, tuttavia qualcosa di radicalmente nuovo. Il poeta si è trasformato in collezionista della natura, studioso della flora, difensore del verde e dell’ambiente. Due nomi al di sopra di tutti: Emily Dickinson e Camillo Sbarbaro, la prima con la sterminata raccolta di foglie e il secondo con i licheni, entrambi raggiunsero un tale grado di notorietà come naturalisti che insidiava la loro gloria di poeti. Entrambi precursori e avanguardie della geoepica, che si è definita come movimento poetico solo a cavallo del terzo millennio: vocazione del poeta a rendersi testimone e difensore della natura e a cercare nella natura i suoi protagonisti in chiave metaforica. Questo è, precisamente, il caso di Mario Rondi, sicuramente uno degli esponenti più di rilievo di questa corrente di pensiero e di gusto, la geoepica.
Nella poesia di Mario Rondi la geometria armoniosa delle forme è parte costituente del messaggio poetico, che in tanto esprime con vigore e con grazia un ragionamento affascinante in quanto realizza la perfezione del modello ripetuto, sempre uguale a se stesso. Con quel modello – con la stessa porzione esatta di versi – Rondi descrive tutto il mondo della poesia, come un agrimensore potrebbe mappare i più disparati terreni, usando sempre la stessa unità di misura che renda paragonabili la diversità dei terreni. Si tratta di otto endecasillabi, sempre scanditi in due terzine e in un distico conclusivo: la misura è quella, non varia mai, ma infinite possono essere le modalità di realizzazione del discorso poetico. I versi sono inanellati in terza rima e si concludono con la rima baciata del distico finale, in modo che creano nel lettore una straordinaria grazia di echi per desinenze finali, con rime armoniose, mai troppo accentuate, ma che accendono nella memoria la sensazione di procedere in una sonorizzazione timbrica continuativa, estesa per tutto il poema, costruito con parole luminose, con oggetti scintillanti di ordinaria conoscenza, con suoni flautati tratti da un linguaggio corsivo e scelto, incatenato nell’ecolalia delle magiche rime. Non è per errore che si è parlato di poema, anche se le poesie appaiono frammentarie e autonome, è certamente unica e solidale l’architettura dell’opera, il congegno degli intrecci, delle metafore, i codici linguistici, gli obiettivi della ricerca poetica. Il libro è diviso come la corolla di un fiore che abbia quattro petali, nelle quattro sezioni antidoti, lenitivi, pensieri dell’orto e melodramma delle verdure. Le tre ultime sezioni sono composte da ventisette poesie, la prima solo da ventitré: c’è indubbiamente una geometria delle forme nell’ideazione del contenitore conclusivo del libro. Alcune poesie sono già state pubblicate sul n.° 39 della rivista Vernice, a giugno 2008. Le due prime sezioni servono a suscitare l’idea che il poeta possa decantare le proprietà curative e antidolorifiche delle piante e che quindi il libro possa demandare a una sapienza antica di sacerdote druida che custodisca gli arcani segreti del bosco e delle sue erbe. In realtà, le piante sono la manifestazione episodica della flora e, ancora più compiutamente, dell’intera natura, e rappresentano una forza salvifica e rasserenante: posseggono e riproducono, nei loro codici poetici, tutti gli intrecci possibili dei discorsi umani. Là, vi si legge il nostro destino fragile e la nostra presunzione di gloria. Nel trionfo del fogliame e dei fiori si ascrive la nostra gioia e la decadenza delle nostre sconfitte: si tratta di una natura straordinariamente antropomorfa, ma è ammessa anche la lettura inversa, cioè si tratta di un’umanità straordinariamente floreale. Si è detto che si va oltre la botanica e si sconfina anche nel regno animale. Infatti, tutta la natura è impegnata nella rappresentazione arcimboldesca dell’homo naturalis, non già fatto di ciò che mangia, ma fatto di ciò che pensa, di ciò che vede, ciò che ama, ciò che lo rappresenta poeticamente. Nei versi troviamo uccelletti di vario genere, codibugnoli pettirossi e gazze, e troviamo mammiferi piccini e grandi, caprioli volpi e scoiattoli, ci sono salamandre e fagiani, nel grande guazzo della vita: si è felici nel bosco! Ma nel libro troviamo anche Bach. Troviamo la donna amata, le stelle del cielo, il cuore cardiopatico del poeta, che viene messo alla prova da malesseri ricorrenti. Troviamo il rapporto con la cultura, con le arti, la poesia e la musica: il bosco è metafora indeterminata del mondo intero. Nel libro troviamo, dunque, la dimensione del sogno che ancora una volta si articola in una fuga meditata dalla realtà, un viaggio di Astolfo sulla luna, come mirabilmente dice il poeta: Solo di voi, o mie caste verdure, / mi posso fidare, che m’abbracciate / in silenzio e del cuculo scherzoso // che ride bonario delle mie cure / per i sogni: lo so, non lesinate / consigli per il cuore capriccioso // che s’infiamma e si spegne con il fiore / della zucchetta che gioca all’amore. Le caste verdure sono una citazione voluta della casta diva, la luna, in cui si rifugia la sacerdotessa Norma, nell’opera di Bellini.
La poesia di Mario Rondi è trasposizione della parola nel mondo smagato di una natura codificata e antropomorfa, infine assunta come patrimonio irrinunciabile dell’uomo che in essa intende viverci con serenità e incanto, ritrovando le ragioni profonde della propria partecipazione agli enigmi della vita e della morte, alle esplosioni della gioia e del dolore. È un canto ordinato e decoroso, fino al limite della cerimoniosità formale, ma anche brioso e propulsivo di mille invenzioni, scarti, trovate, proposte nella grazia di una gestualità signorile e ironica, vagamente sottesa di disincanto e melanconia.

Sandro Gros-Pietro

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