Il filo e il gomitolo del ricordo

Il nostro tempo pare mostrare un’ostinata resistenza ai ricordi. Ma, d’altra parte, la poesia, e in genere la scrittura letteraria, si fondano sul ricordo sin dai tempi più remoti (Mnemosine, nei santuari dell’antica Grecia, era raffigurata insieme alle Muse, le sue figlie). E non pochi grandi scrittori recenti sono tornati sulla questione: la poesia «chiama in causa la memoria» scrive Iosif Brodskij mentre Sebald vede nello «studio del tempo: del tempo passato e di quello che passa» l’attività primaria di chi si serve della penna a fini non strumentali o produttivi. Eppure infilare i grani di ciò che è stato nel polveroso e luccicante, a un tempo, rosario delle parole è esercizio che suscita scandalo; e può anche costituire – soprattutto per chi lo fa senza compiacimenti estetizzanti o toni d’idil­lio – un grande rischio in quanto attira su chi si dedica a conservare e restaurare nella mente e nei versi il passato, l’ira di coloro che soltanto in un presente coincidente con l’oblio possono vivere. Inoltre, provarsi in questo compito – che è anche un rito d’evocazione – è meno facile di quanto possa sembrare: la memoria ha per sua fonte costitutiva un senso di incompiutezza, s’interrompe e riprende a suo capriccio. Non è un’attività lineare né volontaria. A volte latita, a volte ci sommerge come una marea atlantica lasciando sulla spiaggia dell’io detriti che sono tormenti. Nella Genealogia della morale Nietzsche scriveva: «soltanto quel che non cessa di provocare dolore resta nella memoria».
Ma se la poesia ha a che fare con il ricordo, la cosa poi più importante, per cogliere la specificità di una particolare scrittura in versi, è soffermarsi sul come ciò avviene: con quali modalità di lingua e di stile e con quale atteggiamento mentale e compositivo si realizza l’impegno di colui che indossa i panni, spesso imbarazzanti, dell’autore. Ed è qui che emerge l’originalità del libro di Menotti Lerro. Che, di poesia in poesia, ripercorre le fasi esistenziali della persona che dice io nel testo – infanzia, giovinezza e «la terza stagione» – sino ad arrivare all’ora e qui della conclusione. E lo fa gettando lo scandaglio sui fondali degli anni passati e privilegiando lo specchio d’acqua costituito dalla dimensione – solo apparentemente microscopica – del Paese, raffigurato non come una realtà di armonia e perfezione ma anche nei suoi aspetti meno gradevoli: la crudeltà dei piccoli come l’indifferenza e l’ignavia dei grandi. Lo scrupolo analitico del suo ‘restauro’ si rinviene, ad esempio, nel «bar improvvisato / per sei vecchietti e una / comare coi baffi di ferro» dove la mente fa ancora sosta; e passa attraverso i nomi propri delle persone incontrate (e riscriverli ora è uguale al mantenere «una promessa»), quelli delle vie e viuzze attraversate – i cosiddetti odonimi – e dei prodotti con cui si cercava di arricchire un poco la propria esistenza, le birre Wührer, le Nazionali, i succhi di frutta o le gomme da masticare – i cosiddetti marchioni­mi – e ogni particolare o dettaglio che possa esser utile ad aggirare «l’inganno della storia». Si ricreano così piccoli ambienti come, ne Il gioco più avvincente, la «falegnameria» dell’«uomo dalle mille paure» o «la soffitta […] piena di paglia / e ossa» o l’atmosfera vischiosa di una festa patronale o gli interni con la TV che «aveva un canale / solo in bianco e nero e si / vedeva con una riga in mezzo» o dove si ascoltava Tutto il calcio minuto per minuto.
Si dirà – da parte di chi ha vissuto negli stessi decenni o di chi, più giovane, di quel tempo ha sentito solo parlare o non ne sa nulla – che sono minuzie. Potrebbero esserlo se affidate a una semplice elencazione. Ma questo non avviene nel libro di Lerro. E per più motivi. Intanto per loro tramite si ricostruisce, con una lingua netta e priva di ogni vezzo o maniera, una vita fatta «di piccoli espedienti, / di infinite paure, di fioca luce» (basta leggere la bella e toccante Lei faceva le pulizie da una) e ci si aggira e ci si perde «nel labirinto più dolce che l’infedele / memoria distorce per aggiungere / dolore ai rimpianti».
Ma il nobile intento di «non sporcare / le pur folli, chete, povere radici» è raggiunto anche per via compositiva. Nel libro c’è un continuo controcanto tra situazioni umili e a prima vista feriali e rimandi alla classicità. Con un termine musicale, quest’ultima è il basso continuo dei versi: nel caffè del paese germina l’anima che si salverà nell’eco dell’isola di Lemno (con la ripresa di un passo dal primo libro dell’Iliade), il ricordo della vista di un «soffitto dalle travi / tarlate» è collocato nel transito dall’«incubo di Emera / a quello di Erebo», il proprio destino è riscritto seguendo le orme di quello di Fetonte, e tanto altro.
Nulla di ornamentale in tutto questo. Il fatto è – così almeno ci pare – che le forme del mito (e soprattutto dei miti della perdita) funzionano qui secondo il solo meccanismo che oggi gli è concesso: essere, per la loro plasticità, le prime forme della memoria e agire da sostegno alle fragili forze del ricordo umano del singolo. Se «la memoria è un prolungamento, con altri mezzi, di ciò che è rimasto incompiuto» (è ancora Brodskij a parlare), le forme del mito impediscono che si dissolva del tutto il fondo oscuro del passato da cui muove il ricordo. E questo ha percorsi e morfologie diverse anche sotto l’aspetto testuale. Nelle pagine di Lerro se ne incontrano almeno due. Gran parte delle poesie sono costituite da unità sintattiche complesse (è il caso, ad esempio, dell’intreccio di subordinate con cui si susseguono i periodi di Sulla piazza di pietra) e danno così vita, nel loro stesso configurarsi, a un’allegoria iconica e testuale del ‘gomitolo’ che lentamente si svolge e si dipana dalla matassa della mente e del passato. Il gruppo di poesie che inizia con I gatti si presenta invece – esili i personaggi ed esile la sintassi e brevissimi i versi fatti per lo più di una sola parola – come una serie di singoli fili. Grazie alla loro specifica consistenza visiva, al loro profilo ‘alla Giacometti’, i testi appaiono iconicamente al lettore dei corpi fragili e smagriti (ma, in certi casi, indimenticabili, come Il sacrestano). Sono appunto, in forma di ‘filo’. Rinunciando all’arrogante pretesa della trama, il libro di Menotti Lerro è riuscito così a mettere in scena – anche sotto il profilo figurale – i costituenti fondamentali, e primitivi, del ricordo: il gomitolo, spesso oscuro, di quello che è stato e il filo che da là si prova a tirare fin qui. Per vivere, e scrivere ancora, nell’esiguo interstizio tra i «sentieri dolenti» del passato e le strade, ignote, del presente.

Enrico Testa

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