PREFAZIONE

L’opera poetica di Walter Chiappelli è assurta nell’ultimo decennio a rare dimensioni di ampiezza e contenuto. Nel panorama poetico italiano sono pochi gli autori che hanno scritto, negli ultimi due lustri, con uguale intensità creativa, nella direzione di un progressivo ampliamento e approfondimento dei temi fondamentali della ricerca poetica. Se si guarda al complesso della produzione, tutta l’opera che fino a ora è pervenuta alla stampa è disseminata lungo un arco di poco più che trentacinque anni, e principia con Vivi, del 1977, seguito a ruota da Il dolore disarmato, del 1979, quest’ultimo presentato da Alessandro Parronchi: un libro che ancora rivela i legami con splendori ed enigmi dell’ambiente letterario fiorentino, tuttavia marcato da un’atmosfera di evanescente ermetismo. Segue, a un lustro di distanza, nel 1984, Silenzio vivo, che continua sulla linea delle prime esperienze. Nel 1984 si apre una stagione di riflessione innovativa e creatrice, durante la quale Chiappelli non manda nulla alle stampe, se non che una serie di apparizioni episodiche presso riviste o repertori di poesia. Ma l’esplosione della grande stagione creativa si manifesta nel 2002, con la pubblicazione, nella collana I frombolieri, di quello che rimane il testo di base fondamentale, cioè la madre di tutta la poetica chiappelliana, e precisamente si tratta di Vampa celestiale: un preciso coniugio fra poesia e visione del divino, che assume come parametri fissi di sviluppo l’esaltazione estatica di Wiliam Blake e la profondità teologica di Dante. Da un lato, dunque, il culto dell’immaginazione come espressione massima e soave del pensiero umano, così come Blake ha sempre teorizzato nel corso della sua opera, ma d’altro canto la fondatezza tetragona in una lettura fermamente cristologica dell’intera civiltà umana, così come Dante ha vigorosamente interpretato la storia universale dell’umanità, passata, presente e futura. Tuttavia, il binomio immaginazione e fede, che fu fondamentale sia nel Fiorentino sia nel Londinese, è divenuto, in Chiappelli, qualcosa di più vasto e anfibologico, precisamente: poesia e divinità, nel senso che la poesia in lui è la materia moderna attraverso cui Dio manifesta la sua voce agli uomini. Come nell’antico testamento fu il roveto ardente la materia che racchiuse la voce di Dio udita da Mosé, così oggi è il foglio bianco che disvela – nel significato etimologico di togliere il velo – ai poeti la natura divina del cosmo e il profilo escatologico della creazione che continua a rinnovarsi indefinitamente in tutti i processi di vita dell’universo. La prova provata della presenza di Dio, nel pensiero di Chiappelli, è fornita dall’armonia che informa di sé il trionfo architettonico dell’universo. L’armonia vince ogni forma di caos e fa trionfare il disegno di un’intelligenza superiore, orientata verso un fine precostituito e vittorioso. Nella sua espressione definitiva, l’armonia è data dalla suprema concordia che si è realizzata nella collaborazione tra la vita e la morte, le quali lavorano di concerto insieme per rinnovare indefinitamente lo spettacolo della luce, cioè lo spettacolo della vita: il sole e la grazia. In realtà i processi poetici che Chiappelli svolge nei suoi libri sono infinitamente più complessi delle risoluzioni didascaliche che qui sono state ricostruite in poche righe. Tra l’altro, è studiato con pertinace accuratezza da Chiappelli lo sviluppo frattalico del discorso poetico, cioè ricostruito per tessere episodiche di fatti miniaturizzati, in cui si ripresenta sempre lo stesso equilibrio di forze tra l’immaginazione creativa del poeta e la luce a barbaglio del foglio bianco che divampa per una rivelazione, un’illusione, un episodio, il verzicare di una foglia, il bacio di una coppia, la nudità di una fanciulla, la mano di un neonato, le turgide mammelle di una giovinetta, l’abbaglio del sole sul mare e per altre mille scintille e occasioni disseminate lungo il percorso di scrittura del poeta. Chiappelli teorizza in Qui in carne, in spirito, il bellissimo libro uscito nel 2005, tre anni dopo Vampa celestiale, la funzione parallela del poeta nella civiltà moderna con quella del profeta dell’antico testamento. Nell’antico testamento il profeta rappresentava colui che “parla davanti alla realtà delle cose”, cioè che parla prima delle cose per mettere a fuoco un legame di necessità dell’armonia degli eventi. Il poeta, dunque, non è un contabile redattore di bilanci di ciò che è avvenuto, ma semmai è un sognatore visionario che parla “davanti alle cose”, e più ancora parla davanti alle parole: non racconta la realtà stessa, ma il sogno immaginato di una visione che fa da involucro alla realtà, la contiene totalmente, ma in­sieme a quella contiene anche molto d’altro d’avanzo, che non è mai avvenuto nella realtà, ma che avrebbe potuto avvenire, perché si tratta di cose che ristanno nella logica della creazione ovvero stanno all’interno della legge che presiede alla creazione e che si manifesta prima delle cose, nella mente del poeta. È fondamentale cogliere la discrasia che Chiappelli introduce tra la sua interpretazione profetica del dire la poesia e, invece, l’interpretazione trionfante della moda e delle correnti letterarie d’attualità, seguendo le quali il poeta è colui che realizza la poiein, cioè che produce l’azione, cioè che documenta i fatti, la realtà spicciola del quotidiano, la rozzezza bruta della materia. Al contrario per Chiappelli, il poeta è il profeta, per cui si colloca davanti all’azione: si colloca prima dei fatti, in una visione ideale e intuitiva della realtà. Seguono nella ricchissima stagione di poesia inaugurata da queste due opere iniziali, le altre tre che escono nel giro di pochi anni: Passione e pensiero, nel 2006, Realtà e fede, nel 2008; Soavissima pietas, nel 2009. Nel flusso massivo di questa poesia che dilava lungo i crinali dell’esistenza, Chiappelli mette sempre più a fuoco quel concetto di poesia come visione di cui abbiamo già ampiamente parlato e che, in altri termini di metafora, aveva espresso anche con la locuzione di fiaccola erubescente, quasi ad alludere la valenza pentecostale della poesia, che avrebbe in sé l’amalgama del divino e dell’umano. Il binomio poesia-divinità di cui abbiamo già detto si trasfonde sempre più, nel prosieguo dei libri, nell’endiadisaviezza & salvezza, che diviene la formula della nuova ricerca poetica: il savio si salva, dunque, dal grande collasso di nullità e di violenza in cui decade l’universo creato. Ma vale anche il contrario: la salvazione c’è soltanto nella saviezza, cioè solo nella sapienza di lettura della strada che conduce all’armonia, alla luce, alla grazia. È una strada che va cercata e va percorsa con impegno. Non è un automatismo, ma è una scelta di elezione: amare la carne e amare lo spirito, in tutte le loro manifestazioni; unire la sensualità e il pensiero; declinare le emozioni e il ragionamento; combinare insieme la passione e la temperanza. Il segreto, come si vede, risiede sempre in una scienza di armonia degli opposti ovvero di coabitazione delle diversità, proprio perché si deve ricreare, in ogni tessera di vita e in ogni elemento del frattale, quell’armonia conciliativa che nasce dalla concordia instaurata tra la vita e la morte, le sorelle benedette e beneamate nel Cantico delle creature del Poverello di Assisi, citato e ripreso da Chiappelli in più di un’occasione. Chiappelli è senz’altro un poeta colto, che si muove con sicurezza lungo un arco di civiltà letteraria che va grosso modo dalle origini mitiche e religiose dell’antica Grecia e della Bibbia, quest’ultima fonte di pensiero e di spunto di narrazioni bene più ricorrente di quanto non sia la mitologia pagana, per arrivare fino alla modernità di Montale, la cui Bufera è citata, per stringersi, infine, in un abbraccio sodale con l’attualità letteraria dell’ultimo minuto, in una condivisione di intenti con scrittori e con poeti suoi coetanei o quasi. Non si deve tuttavia credere che Chiappelli sia autore di bocca buona, cioè che si accontenti facilmente e che sia disposto ad alimentarsi anche di una poesia povera o poco sicura negli esiti della ricerca. Al contrario, gli omaggi e le citazioni di Chiappelli sono sempre riferite solo a pochi grandi scrittori per non dire solamente ai supremi maestri del passato e le sue testimonianze di attualità sono rivolte a persone di grande onestà e impegno, come fossero Giorgio Bárberi, autore soverchiamente amato e più frequentato rispetto a chiunque altro, ma anche Franca Alaimo, Maria Teresa Liuzzo, Alessandro Riccioni, e pittori come Domenico Asmone o musicisti come Gianni Landroni.
Proprio in questo ultimo libro, Mia rosa mia luce, che ancora una volta già nel titolo giustappone due simboli contrapposti di sensualità e di spiritualità, gli omaggi ai poeti classici si estendono anche a Giacomo Leopardi, necessariamente chiamato in causa come massima espressione della modernità sul tema della Luna e sul tema del “piacere figlio dell’affanno”, che a ben guardare, come si sa, era già stato svolto da Pietro Bembo (È gran parte di gioia uscir d’affanno, da Rime LV, 46). Chiappelli nella prima poesia A Recanati, dedicata a Giovanni Elmi, probabilmente allude al carrettiere che nellaQuiete dopo la tempesta riprende a fare stridere il suo carro lungo il cammino della vita che promette tanti piaceri, ma che propina solo affanni. Nella seconda poesia, Fu il tempo del dolore, invece, Chiappelli cita apertamente alcuni versi tratti da Il tramonto della luna, ove ritroviamo il simbolo del carrettiere, e che richiama il tema terribilmente leopardiano del canto della giovinezza perduta e della sopraggiunta vecchiaia che incombe con la secchezza delle fonti del piacere e con la perdita di ogni speranza in un futuro migliore. Il nuovo libro di Chiappelli rappresenta, dunque, una decisa sterzata verso il tema della morte, verso il mondo ctonio e lunare, stretto nell’angoscia squilibrata dell’incombenza dell’irreparabile. Quei messaggi di morte, che nei precedenti libri si limitavano ad essere delle percezioni umbratili di caduta e di resurrezione, nelle pagine del nuovo libro divengono invece una morsa attanagliante che si stringe in lugubre assedio intorno alla vita del poeta. Sono esempi la poesia Oggi, 9 gennaio 2009, scritta in morte del fratello Sergio: “Oggi, nove gennaio / duemilanove, un mio / fratello, Sergio, è asceso a quella vasta / fiamma del silenzio / fredda, che marmorizza / e infine polverizza / – Il dolore non parla / mai come vorrebbe, / si macera la voce / nell’animo e l’animo / con lei s’annichilisce / soffre non trova pace / tace. Poi il suo silenzio / si placa in quel silenzio,”. Ancora più drammatica appare la poesia Improvvisamente, scritta appena tre mesi dopo in morte del fratello Rolando: “Quanto dolore attraversa la carne / e travolge la mente / e la sconvolge; terso / caos crea il dolore / un ghiaccio assolato; / tutto che è vacilla, / è una frana che resta / inamovibile / nell’animo che urla / silenzio; insegui pace / che s’avvicina e fugge; / chiuso in una trappola / che è scattata improvvisa- / mente ti ritrovi, ti cerchi”. Ma i segni della morte sono molti, anche miniaturizzati in piccoli simboli, secondo quell’inclinazione alla metafora che è sempre viva in Chiappelli, come avviene in Il succo qui: “[il succo qui] è la vita / Volava e ora non vola / più, ho ucciso una pulce”. Ma la morte è, come si è detto, anche la secchezza delle fonti del piacere, come si legge in Pagine bianche, dedicata a Maria Teresa Liuzzo: “Sulla pagina bianca / così ansiosa di vita / non più voci commosse / e bellezza e stupori / che disappunto sarà / esser parola estinta / bianca pagina eterna”. L’assedio della morte si estende anche nel vagheggiamento di ricordi lontani, fino al punto di essere remoti, come avviene nei confronti della dipartita della mamma del poeta, avvenuta quand’egli aveva trenta anni, documentata nella poesia Di mia madre; oppure si manifesta in modo ancora più drammatico nelle poesie che riguardano le visite cimiteriali, come fossero Sacre o Quel mistero. Verrebbe da pensare, allora, che il titolo del libro, in realtà così apollineo e solare –Mia rosa mia luce – sia stato scelto, se non in chiave eufemistica, per lo meno sull’eco di un contrappasso latineggiante e dantesco: cioè con l’intento di “sentire il contrario” del tanto assedio letale che monta intorno al foglio bianco della scrittura, e di cantare la luce, la grazia, la bellezza, la vita, la sensualità, in un’armonia che si spinge ad oltranza, e che travalica i limiti del possibile. Così, dopo le poesie dedicate alle ceneri del fratello da poco fatto cremare (Si sa eStupisco), non sorprende l’esplosione di gioia corale dell’universo che celebra la creazione della vita nuova in Il miracolo: “La terra è corpo vivo / il suo parlare è vero / sempre, non sa falsità / candida in tutti i tempi / quando dà fiori e tempeste / quando è musica o urlo; / è la pura creatrice / vocabolario immenso / chiaro ed enigmatico / aperto ad ogni sole / è un cuore che palpita / beato nel creato / è il miracolo: parla / dell’armonia celeste”. Esplode la gioia anche come atto di fede, esattamente come si legge nella poesia La fede, che è un inno al sole, a “Lui resta e irraggia”, a “ciò ch’è vivo; mistero / intero, mai frammento, / è il Vero”. Meglio ancora si legge questa situazione di contrappasso – cioè patire il contrario – nella poesia Sì, il sole, che non a caso segue quell’Improvvisamente già citato, scritto in morte del fratello Rolando: “Il sole il sole il sole / e gli occhi insaziabili! / Questo la vita chiede / alle vive creature / fino alla fine essere / in amore celeste / e resistere all’ombre / tramanti loro brame / abbuianti; sì, il sole!, / il dono valicherà / tutti i tempi e gli spazi / umani, avrà una fine / la sua luce, pensiamo, / e nessuno la saprà,”. E a tanto sole che illumina, vivifica e divampa nella fiamma della vita fa da contrappeso la divinità paredra e ctonia, che è la Luna: “… e il velo di luce / così infinitamente / diffuso t’esalta / o creatura cosmica; / tant’immenso chiarore / serena trasparenza / intorno e sopra al tuo occhio / stasera; lieve è il vento, / chiare nuvolette in volo / nella stellata volta, / e il tremolare che incanta / tuo, luna solenne, / attrae gli occhi miei, / che mai li stanca beltà”. In tale modo si ricompone quell’armonia di canto tra gli opposti che è alla base della poetica chiappelliana, e quel tale assedio della morte da cui eravamo partiti, alla fine della fiera, si metamorfizza in un trionfo della vita. Così, almeno sembra di potere interpretare una delle più belle e conclusive poesie del libro, In sogno: “Da un punto nebuloso / del mio inquietante sogno / un’infernale voce / proclamante la fine / dell’Amore in cielo in terra / ha franto la mente mia / intenta ad attingere / dall’Occhio evangelica / sapienza e speranza: / chinato ho il capo in pena… / ma d’improvviso asceso / ho squarciato ogni nube / e l’Amore m’ha tanto illuminato, / e due soli il mio risveglio hanno allietato”. Il trionfo della rosa e della luce si manifesta in modo particolare nelle poesie conclusive, come in quella che si chiama Onde e che agita un simbolo di nuda femminilità volutamente orientato a richiamare alla mente le fanciulle evanescenti di barberiana forneria poetica: “Ecco, la coraggiosa / agilmente si tuffa / nuda nell’onda alta / che l’accoglie e si chiude / e si riapre mostrando / il viso in pieno sole / di lei tutta ridente”. La stessa poesia conclusiva, che agita in sé simboli e metafore di autentica e originale fattura chiappelliana, La rosa amorosa, è posta a sigillo del lungo viaggio del carrettiere leopardiano, che abbiamo incontrato molte poesie prima. E quel tal carrettiere, che qui si è metamorfizzato nello stesso poeta Chiappelli, dopo la grande tempesta che è stata la traversata del libro assediato dalle forze in competizione della vita e della morte, compone il suo sguardo di speranza nell’ammirare l’incantata bellezza di una giovane madre e dei bimbi che l’attorniano e, pur tra dubbi e meditazioni, riprende più rasserenato il viaggio, che immaginiamo si orienti verso un luminoso occaso, ma che potrebbe anche essere scambiato per una rosea aurora.
Vale la pena, infine, richiamare l’attenzione sulla perfetta architettura strutturale del libro, composto da centonovantatre poesie, tutte contenute in quattordici versi (la misura classica del sonetto), a metrica libera, ma per lo più costituita da settenari, ovviamente di leopardiana rimembranza.

Sandro Gros-Pietro

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