INTRODUZIONE

Le radici profonde non solo della letteratura italiana, ma più in generale della cultura occidentale, si riducono sostanzialmente a due: la mitologia greco-romana e la Bibbia. Si può arrivare fino alle porte del Rinascimento e alla figura di Leonardo da Vinci per verificare la continuità e l’esclusività quasi totale delle due fonti citate. Tuttavia, a esse si aggiunge, da Dante in avan­ti, anche un riferimento a filosofi, scienziati e letterati arabi, seppure visitati in sordina, per via del solco scavato dalla religione tra cristiani ed ebrei da una parte e islamici dall’altra. Per circa mille anni dopo la caduta dell’impero romano, l’Occidente ha orientato la sua cultura appoggiandola sui dogmi infallibili della fede anziché sulla sperimentazione contraddicibile della ragione.

Da Leonardo in avanti, come si è detto, le cose cambiano. L’Italia dona al mondo occidentale l’impareggiabile splendore del Rinascimento attraverso il quale testimonia che la cultura è rappresentazione e fasto della realtà del mondo, e il Rinascimento si conclude con il superbo fiore d’agave rappresentato dal pensiero libero di Galileo Galilei, esaltazione della ragione e della sperimentazione come fonte della cultura umana.
A cavallo dell’Ottocento e del Novecento, attraverso la genialità e l’intuizione di Freud, la cultura occidentale scopre la presenza nella mente umana dell’Inconscio, il quale può grossolanamente essere paragonato all’esistenza nel cosmo della Materia Oscura: di entrambi nessuno sa cosa siano, ma si possono descrivere, almeno in una certa parte, gli effetti che provocano nel mondo reale.
Nel passo del tempo, l’opera di ricapitolazione dell’intera produzione di Poesia sviluppata da Imperia Tognacci nel corso di poco più degli ultimi vent’anni, rappresenta esattamente l’evoluzione della conoscenza avvenuta nella civiltà occidentale nel periodo degli oltre mille e cinquecento anni che ci separano dalla caduta dell’impero romano per giungere fino all’attualità. Tutta l’opera variegata contenuta nei dieci libri di Poesia costituisce l’opus magnum della Scrittrice e assume il valore di intricato viaggio evolutivo, condotto in varie forme e con diverse tematiche, ma sempre con l’unico intento di scrivere un poema odeporico intrapreso per dare testimonianza di ciò che siamo stati e che ancora siamo e infine saremo nella continuità dei tempi.
Vanno evidenziati alcuni aspetti fondamentali dell’intera architettura dell’opera. Innanzi tutto, lo sviluppo in forma di catena evolutiva, per cui ogni libro rappresenta una tappa del percorso poetico in fieri, e la scrittrice inanella le sue opere con il filo della causalità consequenziale, e non invece per salti e per mode fuggevoli ed estemporanee. In secondo luogo, va sottolineato il prevalere dell’animus collettivo, talché il racconto si sdipana per illustrare le vie del mondo, mentre gli spunti relativi alla via del nido servono a marchiare la caratteristica di autenticità della collocazione, che è totalmente scevra da indugi o da compiacimenti di esaltazione dell’Io Poeta. In terzo luogo, va osservato che si mantiene costante un alone opalescente di mistero diffuso in tutto l’opus magnum dei dieci libri, che non sono dei diari di viaggio o dei rapporti di indagine sui fatti accaduti. Anche quando il racconto assume la forma più enunciativa di vicende reali, magari esposte in cronologia sistemica, rimane tuttavia innescato il tarlo rosicchiante del tormento kafkiano nel castello, la sospensione dei perché senza risposte, il disorientamento delle ambiguità. Il quinto elemento caratterizzante è lo sviluppo ecolalico del discorso poetico, che nasce sempre come fosse ingaggiato da un esergo iniziale, una citazione lapidaria, un’epigrafe sospesa come avviso ai naviganti o boa che reca un’insegna: c’è sempre un faro costiero piazzato là, a lampeggiare il segnale. Va anche sottolineata la corrispondenza dei tempi dentro cui si sviluppa il viaggio. Tale corrispondenza ha una doppia scala di grandezza: c’è la scala di grandezza della dimensione collettiva, che si muove per secoli e nei secoli, all’interno dei millecinquecento anni di storia; ma c’è anche la dimensione personale dell’Io Poeta che si muove per frazioni di anno e al massimo istituisce i confronti illustrativi della nota tematica delle Tre Età della vita. Imperia Tognacci ovviamente possiede in contemporanea le due dimensioni di scala, per cui si muove in una corrispondenza dei tempi, che prevede sia il confronto tra secoli diversi della Storia sia il confronto fra le tre stagioni della vita; infine, addirittura c’è la corrispondenza fra un fatto episodico della sua vita e una visione plurale dell’umanità. Questo ovviamente è il processo poetico di fusione dei tempi e degli spazi, che un noto cantautore italiano, anche discreto poeta, ha definito Canto libero, e ne ha fatto una canzone di successo epocale e mondiale.
Il tempo è il principale protagonista dell’opus magnum di tutti i libri di Poesia di Imperia Tognacci. Come ci insegnano gli astrofisici, il tempo è una invenzione derivante dall’osservazione umana dello spazio e del cosmo che ci circonda. Tuttavia, l’universo astrofisico adopera come variabili di misurazione del mondo solo la materia e l’energia, ma non certo il tempo che, come Einstein insegna, è un’invenzione umana capricciosa e distorcente o per lo meno con un valore relativo e variabile a seconda dei punti e dei modi di osservazione della materia e dell’energia. Ai nostri occhi, invece, il tempo appare come la misura fondamentale dell’esistenza. In verità, l’umanità è divenuta consapevole molto tardi di avere introdotto sua sponte la nozione del tempo: si è resa conto di non essere capace di controllarne razionalmente l’inizio e la fine, forse, neppure il passo di cui parla la Scrittrice. È questo il motivo per cui resta diffuso sull’intera opera poetica della Scrittrice quell’alone di mistero di cui si è già detto. Tra i grandi poeti italiani del secondo Novecento, i quali hanno preceduto di pochi decenni l’opera di Imperia Tognacci, certamente il fiorentino Mario Luzi è quello che maggiormente ha anticipato il tema del tempo come mistero assillante dell’animo umano, accompagnato ovviamente dall’idea del viaggio dentro la vita – i luoghi, le persone, i tempi – che sono temi già in fieri fino dalla prima raccolta del Poeta fiorentino, La barca. Tuttavia, va detto che Imperia Tognacci, pur essendo un’attenta lettrice e studiosa della Poesia moderna, elabora un suo percorso distintamente personale e originale, senza mai evidenziare particolari debiti di ispirazione verso i numerosi autori che pure cita nelle sue opere.
Il primo dei dieci libri che viene riprodotto è La notte del Getsemani, in edizioni Cannarsa, uscito nel 2004, all’interno delle pubblicazioni promosse dal Premio Nazionale Histonium. Il libro si avvale della presentazione dello studioso, critico e poeta Luigi Alfiero Medea, fondatore del Premio Histonium, purtroppo re­cen­te­men­te scomparso. Va chiarito che la Poeta, quan­do pubblica tale raccolta, ha già raggiunto una notevole affermazione in campo poetico: collabora alle riviste La Procellaria, fondata da Francesco Fiumara nel 1952; collabora anche a Pomezia-Notizie, diretta da Domenico Defelice; alla rivista Silarus, fondata nel 1961 da Italo Rocco e a Il Corriere di Roma. Aveva già pubblicato nel 2001 il suo primo poemetto intitolato Traiet­toria di uno stelo, confluito poi nel libro Natale a Zollara. Nel libro La notte del Getsemani, il prefatore annota che si tratta di una raccolta “di grande spiritualità” e che “è interessante notare come la natura tutta e gli stessi animali diventino compagni compassionevoli della sofferenza del Cristo”. Siamo di fronte a un’opera già concepita con un disegno organico e unitario, benché sia composta da una decina di testi diversi, tutti organizzati in quartine di versi liberi. Ciò che sorregge questo esordio all’alta poesia è un devoto ricorso alla fede religiosa, con la celebrazione del momento più sacro della missione del Redentore, dato dall’attesa che si compia il dono della sua vita per riscattare le colpe dell’umanità. L’elemento innovativo rispetto alla tradizione canonica è sicuramente la consapevolezza degli animali, delle piante, della rugiada, del vento e della Luna che assistono sgomenti al dolore di Gesù che invoca il padre per chiedere se sia possibile allontanare da lui l’amaro calice: mentre i discepoli dormono, ancora inconsapevoli dello straordinario evento che sta per accadere, le altre creature dell’universo paiono già essere informate. Con questo stratagemma, che non è documentato nella tradizione cristiana, la Poeta intende sottolineare come tutte le altre creature non siano state coinvolte nel peccato originale e quindi vivano già nella grazia di Dio, a differenza dell’umanità, che ancora dorme inconsapevolmente immersa nella sua colpa originale, e quindi ancora ignara del significato dell’attesa nel giardino di Getsemani.
Il secondo libro si chiama Natale a Zollara, in edizio­ne Bastogi, nella Collana Il Capricorno (Foggia, 2005), con prefazione di Pasquale Matrone. Il libro rappresenta la riflessione per luoghi e per tempi del viaggio di evoluzione che conduce la Poeta a trasferirsi dai luoghi natii di San Mauro Pascoli in provincia di Rimini alla città di Roma. Il soggetto della Poesia diviene l’Io Poeta, non più il collettivo umano. L’identificazione della Poesia con la Poeta, conduce alla rievocazione della memoria personale, che tuttavia mantiene sempre una forte carica di comunanza e condivisione della vicenda personale con le vicende dei familiari più prossimi e con una ricaduta in progressione sulla strada comune dei differenti destini umani. Si tratta, quindi, di una sorta di diari dell’anima, nei quali non sono tanto le cronache particolareggiate dei singoli eventi a configurare la ricostruzione del mondo poetico, ma piuttosto si tratta dei sentieri delle sensazioni, riflessioni, sentimenti, accompagnate da speranze, affetti, ambizioni e altresì delusioni scontate nel decorso dei giorni. L’atmosfera poetica si perfeziona nella chiave stilistica tipica della Scrittrice: un sentimento di struggente arresa alla sensazione di gelido silenzio del Mistero che incombe sulla memoria del passato, sul significato profondo delle scelte compiute, delle alternative elette dalla ragione o imposte dalle condizioni reali, nell’evolversi della propria vita e similmente delle vite vicine e lontane, su cui la Poeta ha avuto modo di documentarsi. Sono nitide e splendide, nella loro sempli­cità quasi scabra, le figure della nonna, della madre, del padre e della sorella. Si ricostruisce una pratica di testimonianza dei fatti di vita che creano le rughe, scavano i solchi, imprimono i caratteri, come ha insegna­to Cesare Pavese in Il mestiere di vivere, come si legge in Giovanni Giudici in La vita in versi, come sublima Eugenio Montale nella sua evocazione metaforizzata del male di vivere. Il libro dà perfettamente conto della puntigliosa e vasta cultura di Imperia Tognacci, estesa non solo ai libri sacri della nostra tradizione cristiana e cattolica, principalmente la Bibbia, ma anche degli autori classici di fondamento, come Dante, Pascoli, Leopardi e ovviamente tutti gli altri grandi interpreti della storia letteraria italiana, dominata in ogni secolo dal prevalere dei Poeti. Tra i poeti del Novecento, co­me giustamente rileva Pasquale Matrone nella sua nota introduttiva, “il poemetto richiama alla mente Sandro Penna, Carlo Betocchi, Attilio Bertolucci, Alfonso Gatto, Mario Luzi, Leonardo Sinisgalli”, cui va sicuramente aggiunta anche Margherita Guidacci, richiamata in posizione d’onore nell’esergo iniziale. Si conferma l’andamento sostanzialmente poematico dell’intera raccolta, di ampio e profondo respiro, con una tematica organica e strutturata in un’unica architettura d’insieme, in testi e versi singolarmente autonomi, entrambi liberi.
Il terzo libro si chiama Odissea pascoliana, in edizione Bastogi (Foggia, 2006), con prefazione di Giuseppe Anziano. L’opera racchiude poco più di una trentina di composizioni a loro volta organizzate in un Prologo e in ulteriori cinque sezioni: Odissea pascoliana, La giovinezza, Rinascita, Canto per la tessitrice, Al vecchio amico di lotta. Cielo e orizzonte del libro sono rispettivamente la vita e il mondo poetico del Poeta dell’Ora di Barga. È una questione di fascino, quasi di affezione e di identificazione con la poetica del “nido”. Giovanni Pascoli rappresenta un naturale polo di attrazione per una donna Poeta che condivide lo stesso luogo natale, anche se nata circa a un secolo di distanza con il Poeta uomo, entrambi insegnanti. La fortuna poetica di Pascoli, cioè la sua gloria letteraria, è un’altra forte motivazione di interesse e di studio. C’è poi la vita del Poeta, così segnata dai lutti famigliari e dalla straordinaria affezione nei confronti della sorella Maria; è un sentimento dalla sorella pienamente corrisposto; tale legame rappresenta indubbiamente una situazione di massimo interesse di indagine sulle profondità d’a­ni­mo, le occasioni di dolore, di rifugio, sui balsami dalla sofferenza, come pochi altri poeti hanno espresso con uguale intensità e dignità nella loro vita. Va aggiunto il trionfo della poetica del “Fanciullino”, che innesca il decadentismo del prestigioso poeta piemontese Guido Gozzano e che si proietta come un’ombra irridente sul­l’estetismo da superuomo di Gabriele d’Annunzio. Si tratta, alla fine, di un’opera che si colloca a metà stra­da tra il saggio critico e l’omaggio creativo. Dice bene nella sua conclusione, Giuseppe Anziano quando sostiene che “nessuno ha saputo come la Tognacci dare vita alla voce dell’anima, ai fremiti del cuore, ed evidenziare con versi toccanti il dramma” esistenziale e poetico di Pascoli. Nel percorso di evoluzione della scrittura poetica di Imperia Tognacci, questo studio creativo così sensibile e approfondito svolge il doppio ruolo di un omaggio devozionale e di un gesto liberatorio, proprio perché dopo l’Odissea pascoliana noi troveremo una Poeta ben più sicura, matura e affrancata nel suo canto libero, successivo all’a­vere fatto i conti da vicino e dall’interno con il mondo di Pascoli, Poeta di impressionante mole culturale e creativa, sia detto con il permesso delle feroci critiche su di lui, mosse in modo del tutto ingiustificabile da Benedetto Croce.
Il quarto libro si chiama La porta socchiusa, in edizione Bastogi (Foggia, 2007), con prefazione di Mario Ladolfi e introduzione di Vincenzo Rossi. L’edizione originale reca in copertina un particolare della celebre Ascesa all’Empireo di Hieronymus Bosch. Questo libro rappresenta sia una ripresa della vena poetica già sviluppata nel passato sia un’anticipazione di quella futura che si manifesterà nel libro a seguire, Il lago e il tempo. È illuminante il pensiero critico sviluppato in prefazione da Mario Landolfi: “La Tognacci non rientra tra le poetesse d’occasione, nel senso che la sua ispirazione nasce da una seria speculazione filosofica che nello specifico finisce per trovare il suo opportuno filone espressivo. Dal soggettivismo iniziale, la sua poesia si inoltra nei più ampi sentieri oggettivi dove il sentire personale tende costantemente a unirsi a quello collettivo […] La porta socchiusa pare collegarsi diretta­mente a La notte del Getsemani, pubblicata nel 2004”. Carattere dominante del libro è dunque l’impostazione poematica e l’intonazione del discorso a un complesso ideale di “soggetto collettivo”, in cui la Poe­ta si riconosce, e che non possiamo automaticamente identificare con l’intera umanità, bensì con quella par­te di umanità che si orienta a compiere il viaggio di ricerca dello scopo profondo, conclusivo, finale dell’e­sperienza della vita terrena. L’occasione da cui è sorto il libro è un pellegrinaggio votivo compiuto dalla Poeta in Terra Santa. Viaggio che, fino a tempi abbastanza recenti, rientrava nelle aspirazioni di ogni cristiano di riuscire a intraprendere almeno una volta nel corso dell’intera esistenza. Il contenuto della poesia di Imperia Tognacci è di natura religiosa, più esattamente si presenta come tematica inerente all’escatologia, cioè la ricerca dei destini ultimi dell’uomo e dell’universo, cui la Poeta sceglie di rispondere con un atto di fede religiosa, presentando la discesa del Redentore come l’atto unico e discriminante che buca la storia dell’umanità e che socchiude la porta per la salita all’empireo. La Poesia tocca i suoi cieli più alti, nell’accostamento che la parola piana realizza con l’ineffabile e l’indescrivibile. Difficile trovare un esempio più luminoso di quello espresso da Dante nei canti finali del Paradiso. La Tognacci sceglie e indica come ideali compagni di viaggio alcuni personaggi tratti dal mondo moderno, accesi da una dichiarazione di fede il­lu­mi­na­ta dalla ragione, come nel caso del filosofo e matematico Blaise Pascal; similmente crede nel misticismo ispirato di Novalis; anche apprezza la figura con elementi di retorica o di teatralità del romanziere Albert Camus; altrettanto si può dire dell’omaggio reso al poeta, romanziere, drammaturgo, combattivo riformatore dell’animo umano Miguel de Unamuno. Certamente, gli appoggi affettivi, di vicinanza e di citazione che ci sommuovono di più sono quelli resi a Giuseppe Ungaretti e, in modo particolare, a Mario Luzi, nei confronti del quale si è già parlato di una particolare collimazione di tematiche e di idee tra i due Poeti: si ten­ga a mente quanti punti di contatto si potrebbero istituire tra La Porta socchiusa e Il viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, quest’ultimo esce undici anni prima del libro di Tognacci, ed è quindi certo che la Poeta lo abbia letto e meditato.
Il quinto libro si chiama Il lago e il tempo, in edizione Genesi (Torino, 2010), inserito nella Collana I Frombolieri, con prefazione di Sandro Gros-Pietro. Lo si può considerare come l’opera che segna l’inizio della stagione poetica più alta della Poeta: una maturità raggiunta non solo nella scrittura divenuta allo stesso tempo più sostanziale e più densa di significati lontani, ma anche più aerea e più esercitata a muoversi con disinvoltura e levità nelle temperie dei secoli della storia umana, nonché a travalicare con mirabile naturalezza gli steccati divisori tra tre l’io personale e l’io collettivo. La Poeta raggiunge una unità di canto lirico nella quale la storia personale si fonde e si confonde con la storia di un numero indefinito di uomini e di donne di buona volontà che l’hanno preceduta sulle sponde del Lago, e i volti ricorrenti della madre e del padre acquistano lo spessore e la profondità della funzione genitoriale degli esseri umani nella loro totalità, benché non perdano per nulla, ma anzi ulteriormente aggiungono calore e dolcezza di affetti alla memoria della figlia che rievoca lo specifico dei genitori nel nobile solco della tradizione antichissima di bontà e di dedizione della Madre e del Padre di tutti. Il titolo diviene un’endiadi, come se il Lago debba essere costituzionalmente declinato con il Tempo, in un amalgama indistinto di valori umani e naturali, che allo stesso tempo sono rinnovati e sono consumati dall’azione entropica della creazione che crea e che disperde. Si tratta certamente dell’opera di più alta concezione storica, filosofica e antropologica scritta fino ad allora da Imperia Tognacci: è sostanzialmente il libro delle domande, anziché essere un libro delle risposte, come filosoficamente e religiosamente, sono stati i libri precedenti. In esso, la Poeta trasmette al testo la sua ricchezza di vita e di pensiero; lo fa in modo nudo, disadorno, co­me si trattasse di un’offerta sacra, compiuta con umiltà e arresa sottomissione a leggi invisibili che ci sovrastano. Sono esemplari i versi che seguono, che chiaramente identificano la storia personale della Poeta con l’infinita teoria di storie che crea il collettivo umano nel succedersi dei secoli e nel variare dei luoghi: “Nel mio essere, l’eredità / dell’umano sangue racchiude / no­mi inabissati nel silenzio, / cancellati da pietre e marmi, / scolpiti su lapidi d’ombra. / Finché mani coglieranno grappoli / di vita e nuova linfa salirà / nell’energia della luce, finché / da labbra di onde l’orecchio umano / ascolterà storie che s’innalzano / verso la volta infinita del cielo”. Non c’è il piglio di una sola citazione, non c’è la vocazione a esornare la pagina con allettamenti letterari. C’è la Poeta indifesa, che si consegna a sé stessa e alla storia del mondo, senza la corazza scintillante della sua ben studiata erudizione letteraria, ma nella limpida deferenza della sua fralezza umana, di creatura consapevole di vivere e di morire nello splendore breve di un pugno di giorni che valgono quanto l’eternità di tutti gli esseri umani sulla terra e probabilmente in cielo, al di là degli astri posti al confine del creato.
Il richiamo di Orfeo,settimo libro inserito, esce nel 2011 nei caratteri di Giuseppe Laterza (Bari, 2011), e si avvale di un luminoso vocativo iniziale di richiamo elaborato dal genio critico di Francesco D’Episcopo. Si tratta di un poema organico, composto secondo lo stile ormai personalizzato della Poeta e dedicato a Giuseppe, il consorte defunto che continua a vivere nella luce della memoria poetica della moglie. L’opera contiene un esergo dedicato a Pablo Neruda, il poeta divenuto celebre per il suo Canto generale, che vale come monumentale opera epica dedicata alla natura e alla storia dell’uomo nell’America Latina, con sottolineate esortazioni di impegno civile e storico rivolte ai poeti moderni, ma nel contempo Neruda è anche stato un delicatissimo poeta di testi dedicati all’amore. Francesco D’Episcopo annota nella sua osservazione di richiamo che “Il poeta deve sempre guardare avanti, nonostante l’invincibile amore che lo possiede, in nome di un amore da donare all’umanità tutta […] Sulla base di questi irrinunciabili presupposti esistenziali si snoda il bandolo verbale di una silloge sicuramente suggestiva, per la capacità di evocare miti e realtà profondamente congiunti tra pas­sato e futuro, nonostante le stentatezze di un presente ambiguo e incerto. La poesia, infatti continua a sfidare i secoli grazie a una prospettiva di eternità che, come ricordava Foscolo, le appartiene da sempre. La Tognacci conferma in pieno questa fede e il suo coinvolgente canzoniere attinge linfa vitale dalla ferma convinzione di far parte di una catena d’amore che nessuno riuscirà a scalfire o a spezzare, perché forgiata con la forza del sentimento che supera ogni barriera terrena. Le continue invocazioni, alla fine, più che una mitica poesia, sembrano rivolte a una realissima sé stessa, perché resista e preservi il profumo dell’eterno”. L’opera, come si è detto, assume la natura di poema organico, seppure composta da quarantacinque brani singoli e autonomi, ma incastonati in una medesima architettura d’insieme. Scopo principale dell’opera è l’individuazione della funzione orfica attribuita al poeta dell’antichità e di tutti i tem­pi, nella temperie dei secoli e nella vastità dei luoghi civilizzati o comunque abitati dall’umanità sulla Terra. Almeno in parte anche questo libro è un testo in cui la Poeta pone al lettore e prima di tutto a sé stessa delle precise domande, ma questa volta la soluzione non è collocata al di là delle stelle, bensì trova un’ubicazione decisamente terragna e, quindi, antropologica: una risposta collocata all’interno della nostra cultura di esseri imperfetti e mortali. Come dire che in questa opera il processo della ragione filosofica, fortificata dall’esplorazione di miti e culture inventati dalla creatività umana, svolge il compito di dare un senso e un significato all’azione dell’uomo, non già in alternativa alla fede religiosa, ma in autonomia da essa, come dire che esiste una strada di dignità e di valore che vale per tutti gli esseri umani, credenti o atei, tutti possono aspirare alla dignità di essere uomini incamminati sulla giusta strada. La soluzione è indicata dal dolore sopportato da Orfeo e dalla scelta dell’amore, in cui si deve avere fiducia fino al punto di non dubitare mai dell’impegno della persona amata e voltarsi indietro per controllarla. Tuttavia, resta giustamente il dubbio ineliminabile della validità imperfetta del canto di Orfeo, che è guida valida solo fino alla soglia di uscita dall’Ade, ma poi il dubbio si fa irresistibilmente trop­po forte. La Poeta ci vuole dire che la ragione uma­na e la dolcezza delle arti di canto non riescono a svelare la potenza di quel famoso “mistero” di cui si è già parlato come valore fondante di riferimento di tutta la poetica di Tognacci. Vale la spesa citare al riguardo il finale esplicativo del testo Fuggire, fuggire, poeta, vorresti,che esplicita con chiarezza quanto appena esposto: “Dispensa incubi la notte, / tra i dirupi si amplifica l’eco / del tuo grido che, inascoltato, / giun­ge alle stelle. Nella foresta / muta dei perché tu vaghi: / smarrito hai te stesso. / Vai errando dove ti spinge il vento”.
Il settimo libro si chiama Là dove pioveva la manna, in edizione Giuseppe Laterza (Bari, 2015), inserito nella Collana Terzo Millennio, con nota introduttiva di Giuseppe Laterza e breve saggio critico di Andrea Battistini, cui si aggiunge un’illuminante riflessione critica al termine del libro elaborata da Angelo Manitta. Il libro assume come d’abitudine la struttura di opera unica e organica, nata dall’occasione di un viaggio in Giordania della Poeta; ha scansione ebdomadaria, in sette capitoli, come i giorni della settimana: Il sé come orizzonte, Spazio aperto, Non siamo separati, Per sentieri di sabbia e di vento, Alzo segnali di fumo, Nell’eternità dell’anima; Verso Aqaba; reca un’epigrafe dedicata a Michel Laroche, teologo ortodosso, autore di La Via del Silenzio dei Padri del deserto. L’occasione di questo nuovo poema nasce da un viaggio intrapreso dalla Poeta in Giordania, che comporta l’incontro con il fascino misterioso sia esaltante sia annichilente del deserto, l’immensità della creazione di una Vita Superiore senza la presenza visibile delle vite effimere, ma con l’appercezione sospesa nell’aria e nella visione indefinita e sconfinata del paesaggio, di quel noto sentimento del Mistero, che abbiamo incontrato come fondamento e fonte di ispirazione di tutta la poetica di Tognacci. Ritorna anche come sorta di motivo comune delle opere poematiche l’espediente narrativo del viaggio ossia il percorso compiuto dalla Poeta contrassegnato dal perseguimento di una meta da raggiungere. Il messaggio trasmesso è quello del mandala, che si perfeziona col ritorno al luogo di partenza. Non significa affatto avere girovagato a vuoto, ma l’esatto contrario: avere sperimentato la giustezza del percorso che conduce esattamente là, ove la meta era prefissata fino dall’inizio. Assume un significato di chiarezza metaforica eccezionale il testo posto a conclusione del poema odeporico, che va citato nella sua totalità: “Io, come reflusso di flutto respinto / dallo scoglio della noia, / avevo intrapreso la via del deserto. / Non c’è che seguire la direzione / dei pozzi e delle oasi per l’anima / assetata! Onda di ritorno / mi riporta tra le trame / delle mie radici, dove, in solitarie / stanze, soffio di parole mute / accarezza lo scialle abbandonato / sulla spalliera. Alzerete / di nuovo la fronte, spighe, / risponderete all’appello del sole! / Silenziosi, mi raggiungerete, voi, / che più non siete nel limite del campo. / Torno tra le illusioni demolite / sperando che, pietra su pietra, / sorga un mondo migliore. / Della mia Itaca, nell’anima, / rintoccano i miti, ma tu vento, / la mia nave conduci verso altri approdi. / Dei saggi voglio ascoltare le voci, / annusare spezie e profumi / orientali, su venature di rocce / léggere lo scorrere dei millenni. / Non ti dirò, Eolo, l’esatta destinazione, / che la Parca mi colga andando. / Batte alla porta del cielo una nuova / alba, mentre, vestite di sole, / si dileguano le coste di Aqaba”. L’incipit è di straordinaria chiarezza: reflusso di flutto respinto afferisce al movimento di risacca delle onde del mare che potrebbero tenere imbrigliata la nave sempre nello stesso luogo, come fosse prigioniera all’interno di un non-viaggio o comunque in uno spostamento senza meta, collocato sempre in un non-luogo che non è un’utopia consolatoria, ma al contrario è lo smarrimento nel deserto destinato a chi rimane prigioniero del mondo.

L’ottavo libro riepilogato si chiama Nel bosco, sulle orme del pastore, in edizione Giuseppe Laterza, nella Collana Terzo Millennio (Bari, 2012), con accurata prefazione del critico e poeta Luigi De Rosa, cui si aggiunge un’ulteriore riflessione critica firmata dallo stesso Editore. Il libretto reca in copertina la riproduzione di una stampa, che con ogni probabilità è volutamente ambigua o meglio polivalente, perché riproduce un anonimo pastorello con lo zufolo in abiti e copricapo di possibile epoca ottocentesca, che conduce a un pascolo silvestre tre caprette, e che, quindi, rappresenta, un’interpretazione consapevolmente minimalista del contenuto mitico del libro di Tognacci, afferente al pastore Aristeo: la scelta dell’immagine può alludere alla teoria di cambiamenti e metamorfosi che la pastorizia inanella nel tempo. Aristeo, all’interno del mito che lo possiede, è fondatore e diffusore nel mon­do mediterraneo dell’olivicoltura, dell’apicultura, della pastorizia di pecore e armenti e, più in generale, della civiltà agricola di buona conduzione delle ricchezze naturali del mondo in contrasto con il fascino selvaggio del bosco. Tale contrapposizione, tra il bosco rigoglioso e la civiltà regolata da codici e da sistemi di conduzione, era già stato svolto da Andrea Zanzotto nel­l’opera che si chiama Il galateo in bosco, pubblicato da Mondadori nel 1978, libro che consacrò l’Autore ai vertici della Poesia italiana, anche esaltato da Eugenio Montale. Certamente, Imperia Tognacci conosceva l’opera di Zanzotto, ma possiamo affermare con sicurezza quanto ne fosse lontana per contenuti ed espressioni, così collocabili nell’ecolalìa dello sperimentalismo letterario, con cui la Nostra non ha nulla in comune. Il libro reca la dedica “A Davide e a Giulio, miei nipotini”, che sottolinea il carattere virgiliano e lucreziano di opera poetica non scevra da intenti istruttivi e addirittura pedagogici. Resta confermata la natura ovviamente di poema unico dell’intero libro, il quale risulta essere composto da due parti: la prima, Nel bosco, è una esaltazione dei poteri della creatività sia della natura sia della men­te umana, e la seconda parte, Incontro Aristeo, il pastore, rappresenta l’intervento prometeico di sviluppo della civiltà, forse, qualcosa di ben più elevato – come con fulgida intuizione critica segnala Luigi De Rosa nella sua luminosa prefazione, c’è un avvicinamento anticipatorio all’alto compito di redenzione civile e di riscatto dalle tenebre del peccato che compirà Gesù, quando segnerà per sempre il vallo divisorio tra il paganesimo e la cristianità. Nel bosco, sulle orme del pastore certamente rappresenta un’e­spres­sione d’api­ce nel complesso e ricco viaggio poetico condotto da Imperia Tognacci. Va anche segnalata la inusuale forma teatralizzata del poema, che è condotta anche con inserimenti tanto inaspettati quanto affascinanti di dialogo diretto e virgolettato tra il Pastore

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