dalla PREFAZIONE

La memoria letteraria dell’oceano (ovvero dell’oceàno, come più sostenutamente s’intona alla tradizione alta della poesia e come riprende con arguzia la De Luca nei suoi versi) ha la sua fonte battesimale nell’arcadico okeanòs dei greci e quindi vanta una deriva letteraria omerico-esiodiana costruita nell’epica e nella mitologia delle origini del mondo. Ma la traduzione dell’okeanòs nell’attualità poetica dei giorni nostri, dopo oltre tremila anni di scrittura fluita ininterottamente dai calami greci alle stampanti computerizzate contemporanee, è, invece, un referente di balneazione vacanziera e spensierata in un qualsiasi stabilimento marino delle frequentatissime coste italiane, in un’atmosfera di irridente culto solipsistico dell’io-poeta che racconta compiaciuto l’epica di se stesso e dei suoi rapporti di vanità con gli altri. È anche un’atmosfera smossa e problematizzata dalle nevrosi dell’uomo moderno, che preferisce apparire anziché essere e che preferisce accumulare anziché serbare. Nettuno, dalle profondità del mare, non osserva più alcuna ombra d’Argo solcare le onde, col prode Giasone alla ricerca del vello d’oro: il poeta non racconta più l’epica degli eroi. Del resto, l’oceano non è più una palestra di eroismi sacrileghi, intrapresi per protestare la ricerca ad oltranza di virtute e canoscenza. L’oceano – anzi, l’okeanòs come mirabilmente ironizza De Luca – è il mare dei nostri weekend o delle nostre ferie ferragostane, dove tutti quanti noi ci dilettiamo e ci nevrotizziamo, ma sempre sogniamo di potere essere migliori in un altro tempo e in un altro luogo, divorati da desideri e insoddisfazioni. In queste operazioni di straniamento da noi stessi; in questa capacità di osservare con puntigliosa pignoleria il particolare dell’abito, degli occhiali, dell’ombrellone, di una realtà che probabilmente è fittizia ovvero che è quanto meno il predicato derivativo (qualcosa come fosse l’inverso del correlativo oggettivo di Eliot) di un altro mondo, di un altro luogo e di un altro tempo; in questa seriosità di documentazione autobiografica, esibita anche là, dove il poeta si inventa la vita con l’onesta finzione con cui, per necessario artificio, crea lo stile di scrittura; in questa storia-delle-storie-di-tutte-le-storie che inizia dalla cronaca di un comune giorno di vacanza e che si innerva nel dramma umano delle origini oscure del nostro dolore e della nostra morte: qui Liana De Luca offre il meglio della sua produzione poetica più recente, ci dà le pagine più alte e più distillate dalla sapienza che le proviene dalle letture compiute e dalla frequentazione diretta con l’inanità della sofferenza umana.

Sandro Gros-Pietro

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