PREFAZIONE

Nei confronti di Mirka Corato bisogna usare il termine di anima poetica: una locuzione più vasta e indefinita rispetto al vocabolo di poeta, che invece individua storicamente e culturalmente l’avventuroso rapporto dell’uomo con il mondo della parola e con le sue possibilità di espressione. L’anima poetica sconfina verso Oriente, ci conduce a una sorta di buddhismo panico e di immersione nel creato: il galleggiare sospeso e permeato della spugna nel mare della vita, di cui ne è parte quasi indistinta e inseparabile. Certamente Corato non è una sacerdotessa della new age. Non è là che vuole andare a parare il nostro discorso: non a una sorta di pratiche e di teorie di approccio eclettico e individuale all’esplorazione della spiritualità. Piuttosto, Corato è naturalmente e irresistibilmente un’artista, cioè una creatrice di emozioni, visioni, intuizioni, interpretazioni, espressioni, armonie e incanti. Ella crea questo tale patrimonio di idee con l’uguale estro con cui il vetraio trae un oggetto di meravigliose trasparenze iridate da un pugno di sabbia amorfa: esegue una precisa tecnica e si ispira a una superba invenzione metamorfica della realtà. Il segreto, se vogliamo, è poca cosa, si basa solo su due elementi costitutivi: da un lato il controllo della tecnica espressiva, dall’altro la metamorfosi del rea­le. Sono queste le uniche due corde vocali di Corato, ma sono in grado di realizzare uno spettro infinito di armonie possibili.
Pare più opportuno iniziare a dire qualcosa sul secondo aspetto, quello della metamorfosi del reale. Sia in pittura sia in poesia, Corato rielabora la realtà attraverso una serie di codici, che sono riconducibili a precise esperienze oniriche, simboliste, surrealiste e anche astratte. Il fenomeno è più di immediata percezione nelle opere di pittura, nelle quali non si può mai riconoscere il mondo così come appare agli occhi di un neutrale spettatore, ma si riscontra, invece, la cifra simbolica e surreale che l’artista ha espresso per interpretare la realtà sotterranea na­scosta dal velo di Maya steso sulle cose del mondo. È co­me se l’artista togliesse il drappo, denudasse il senso pro­fondo delle cose. Per farlo, si ricorre a una rappresentazione del mondo che non potrà essere veristica, poiché al­trimenti riprodurrebbe la maschera che scherma la natura del­le cose e non riuscirebbe a svelare quella tale anima mundi cui si è già alluso, che è un concetto sostanzialmente astratto, di natura filosofica. Corato è sicuramente una poetessa di matrice filosofica, nel senso socratico del termine: usa la poesia per cercare la forma esatta di amore verso la sapienza. In lei, l’amore rivolto alla sa­pienza è schermato da un senhal, come succedeva in altre epoche trobadoriche e stilnovistiche. Tale citazione me­dievistica non è arrischiata e neppure peregrina, ma fa par­te dei meccanismi di fantasia e di memoria che l’autrice adopera, fa parte delle sue tecniche di controllo del linguaggio poetico. Leggiamo nelle prime pagine del libro: “Come vorrei smarrirmi / oltre i cristalli oscuri / delle tue porte chiuse / quel brivido di vento che mi assale / come ali silenti disperse in volo / ferme nel segreto di un canto / che non conosce il tempo / che non sa finire”. Si tratta di un canto d’amore, dedicato a un immaginario sposo, cioè a un promesso, a un’attesa da raggiungere, a uno scopo da realizzare come più alta aspirazione di unione alla fecondità della vita, dedicato a: “quello che resta dello spazio / quello che resta dell’immensa onda di sogni / quello che resta della musica / il suo palpito luminoso / che io chiamo vita”. Emerge nei versi appena citati l’anima poetica di cui si diceva, come emerge che lo sposo amato è simbolo carnale di sapienza e di saggezza; è il tramite di conciliazione con la realtà che permette al vero filosofo di amare la vita. Siamo davanti a una poesia filosofica, ma nel senso ellenico del termine, cioè utile alla vita, e non invece nel senso cartesiano e moderno, cioè di dominio dell’esistenza esercitato dalla ragione. Per questa tipo di poesia la realtà è un meraviglioso abbaglio che acceca, nel senso che conduce all’errore, fa cadere in trappola. Il concetto è ripreso anche nella pittura di Mirka Corato, nella quale si ritrovano sovente delle “mascherine” che hanno gli occhi cassati, cancellati da un tratto annerente di colore che annichilisce le possibilità della mascherina di vedere il mondo ad occhi nudi. La vera visione è quella trasmessa dall’anima poetica dell’artista, che svela il profondo delle cose. Forse, anche questa visione è altrettanto abbagliante, ma lo è nei termini alternativi del vocabolo, cioè come visione epifanica, come rivelazione im­prov­visa di una luce talmente superiore da essere quasi inagibile e inguardabile. Come spesso accade, quando si muo­vono categorie astratte, le distinzioni contrapposte e av­versarie sovente collidono in significati quasi identici. Non deve quindi stupire il continuo scambio di posizioni e di esperienze tra il sogno e la realtà, tra la rappresentazione veristica e la fuga simbolica o surreale: non si tratta mai di confusione dei linguaggi – che comunque non sarebbe neppure di per sé una proposta criticabile – ma di corrispondenze dialettiche per affinità e riscontri. Si tratta di giochi a più dimensioni tra la realtà e il sogno, tema che è da sempre molto caro a Corato e in cui sa primeggiare in modo magistrale. “Vieni con me nel tempo che non muta / vieni con me nel tempo dei sogni e degli errori”, sono le precise formule dell’abbaglio poetico, fatto di evasioni, di errori, di concezioni statiche della vita, che, invece, è in continuo decadimento entropico, ma che è anche fatto di visioni subitanee ed epifaniche: “Mi accosto al davanzale / e subito l’istante si fa infinito”. La tensione metafisica che è riverberata in tutta la poesia e l’arte di Mirka Corato non autorizza a collocare l’autrice tra i poeti religiosi, perché ben altra cosa è la fede. La fede, in­fatti, è la concezione di sapienza fondata sull’adesione a un modello di pensiero stabile e definito; la tensione me­tafisica, invece, è l’inquietudine dell’ignoto che si eser­cita attraverso il tormento delle domande e l’elusione delle risposte. Al riguardo, bene chiaramente dice la poetessa: “Ogni mattina riordino il mio tempio al centro del mondo / Ogni mattina riordino l’altare al dio ignoto / quello che conosco ma non c’è”. Il mestiere del poeta è conoscere l’inesistente, ci fa capire, in cifre, la poetessa. In effetti, per conoscere ciò che c’è basta un bravo geometra, con compasso e squadra. Ma per conoscere ciò che non esiste – eppure si muove e ci tormenta o ci delizia nelle nostre anime profonde – è assolutamente necessario l’intervento del poeta, coi suoi abbagli esplicativi.
Abbiamo parlato di controllo della tecnica espressiva, per indicare il linguaggio poetico selezionato dalla poetessa. Corato si avvale di un linguaggio eletto dalla tra­dizione poetica, nel quale non trovano diritto di cittadinanza vocaboli che non abbiano una consolidata storia di identificazione e di uso dentro la nostra tradizione letteraria. Ciò significa niente neologismi, niente barbarismi, nessuna inclusione di vocaboli provenienti dagli idiomi tecnici, scientifici o dai verminosi slang dei mass media o peggio dell’elettronica moderna, che invece godono di tanta attenzione e venerazione da parte di alcuni poeti mo­derni, ma che sono felicemente ignorati da Corato. Al­tresì, la scrittrice ha totalmente espunto dal suo vocabolario poetico tutti i termini desueti, aulici, ricoperti da muffa ovvero compromessi da un’aura di sussiegosa ricercatezza lessicografa, quel parlare in ridicole redingote e ghette d’altri tempi, fantasmi lessicali al castello di Dracula, che è così restio a scomparire dalle patrie lettere anche di ran­go, e che non trova collocazione in questo bel linguaggio, terso, limpido, netto, fluente e sonante che scorre vigoroso per le pagine di Corato. Linguaggio è anche la forma del pensiero e la presentazione degli argomenti, il loro ricorso più o meno frequente nell’intreccio dell’opera. Sotto tale profilo, la forma del pensiero di Corato è sempre quello suppositivo e propositivo, mai declamante, mai detonante e neppure denotante, mai impositivo né im­po­nente. Non è il linguaggio epico e neppure quello fa­bu­la­torio: è il linguaggio amichevole dell’annotazione cor­siva e dotta, sviluppata solo per allusione, senza la pu­sil­la­ni­mità dei particolari insignificanti, ma lasciando tut­ta la le­vità del pensiero cortese, aperto alla verificazione, al dubbio, al successivo arricchimento. Gli argomenti del­la poesia di Corato sono la natura, il mare, l’evocazione dei sentimenti d’amore, la malinconia del passato, il fa­scino della musica, le corrispondenze tra le arti, in partico­lare mo­do le corrispondenze tra le note musicali e i co­lori dell’iride, come altri poeti hanno ideato corrisponden­za tra le vo­cali e i colori. Grande pregnanza di contenuti hanno le poesie dedicate ai compositori Sibelius, Schubert, Debussy, Beethoven, Wagner, de Falla, Fauré, nelle quali le emozioni della musica sono tradotte in chiavi analogiche di parole, che spaziano dalla visione romantica e raffinata di Richard Wagner alle folcloristiche danze di fuoco di Manuel de Falla. Particolare importanza, anche in chiave autobiografica, assume la terza e ultima se­zione, intitolata La cura… “il verso sospeso”. Solo un lettore bene esperto in materia di simboli e allusioni usati dalla poetessa riesce a scorgere in questi delicati versi le vicende di vita reale della poetessa, che è stata recentemente protagonista di un gravoso percorso terapeutico, che l’ha portata a riflettere sulle condizioni di fragilità e di grandezza di ogni vita umana: “Voglio anch’io spiegarmi l’inspiegabile / credere l’incredibile / toccare l’intoccabile / leggere l’illeggibile / scritto sulle Tue mani e sulle Tue ferite”: a conclusione del viaggio, c’è l’approdo in questi versi, percorsi da un fremito di speranza, nei quali l’ansia metafisica di cui abbiamo già parlato sconfina dolcemente in un desiderio di fede e di illuminazione da trovare nelle parole redentrici pronunciate dal figlio dell’uomo.
La poesia di Mirka Corato, negli anni, ha realizzato uno sviluppo sia di ampliamento sia di approfondimento rispetto alle tematiche di partenza, che erano strettamente ancorate al canto del mare e agli splendori della natura, in quanto si è resa voce espressiva di tutte le vi­cende di vita, presenti e passate, scrigno emotivo di valore universale delle sensazioni tattili e sensuali di ogni or­ganismo creato, attraverso il canto dei suoni, della musica e delle arti, dei colori che invadono ogni recondito dell’universo, fino a divenire speranza di fede in un significato appagante e conclusivo, capace di offrire un senso al dramma – sospeso tra la gioia e il pianto – che è la vita reale in questo mondo, illustrata con l’onesta finzione artistica di una metamorfosi tale da permettere di cogliere l’abbaglio di una verità superiore.

Sandro Gros-Pietro

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