Prefazione

Ogni inno di lode alla vita contempla anche l’accettazione della morte, perché non può esservi la prima in assenza della seconda. Ma quando il canto di lode diviene un cantico e, quindi, si empie di valori religiosi, allora, non vi è più l’endiadi di contrasto tra la vita e la morte, ma si realizza la monade, nella concezione della vita eterna risorta dalla morte alla contemplazione del mistero di dio. Le parole d’azzurro che Antonio Marcello Villucci ha raccolto in questo suo stupendo libro di poesia raccontano precisamente la trascendenza del pensiero umano da una concezione materialista di gioioso canto rivolto alla vita e di rassegnata accettazione del disastro della morte a uno stadio superiore di luce contemplativa nella quale la vita e la morte, tra fasto e tragedia, appaiono perequativi e propedeutici rispetto a una interpretazione metafisica dell’esistenza. Si tratta di una codificazione poetica che ha fonte antichissima alle spalle, al punto che si ritrova nel Genesi, precisamente nella visione di Giacobbe, la celeberrima scala degli angeli. Non è un caso che Villucci scelga una visione onirica, proprio perché il sogno è così carico di elementi poetici di trasfigurazione della realtà, come deve essere ogni poesia di alto contenuto, che non può limitarsi a fare la parodia del reale, altrimenti diventerebbe una semplice denotazione prosastica. La poesia deve, al contrario, trasfigurare il reale in una metafora interpretativa che si imponga come altra cosa dalla realtà stessa da cui parte. La scala di Giacobbe, su cui “gli angeli di Dio salivano e scendevano” rappresenta il ponte tra la terra e il cielo, il transito continuo tra la vita e la morte che si uniscono, la fortuna dei popoli che si sviluppano e che decadono nel nome di Dio, eseguendone la volontà, tra santità e peccato, come è tipico dell’agire umano. Le prime pagine delle parole d’azzurro sono, dunque, segnate dalla presenza angelica degli ambasciatori celesti, angeli protettivi che congiungono ciò che altrimenti si disperderebbe. Nella grandiosità della metafora villucciana divengono angeli che compiono la missione di coniugio tra l’uomo e dio anche Francesco e Chiara, Paolo di Tarso, Pio da Pietrelcina, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Al sommo di quella che potremmo ormai connotare ben più di una metafora, ma un’autentica visione poetica in termini danteschi ovvero blakeniani, si colloca la Madre mia, Maria, che ovviamente rappresenta il vertice sommo di tutta la concezione religiosa cristiana europea e che ha origini di culto antichissime, indiscutibilmente precristiane, sviluppatesi nel bacino mediterraneo, nel culto della Grande Madre e ancora prima in quello egizio di Iside. Queste poche note di mitopoiesi e di storia delle religioni possono risultare utili per collocare con sicurezza la poesia di Villucci in quel contesto culturale straordinariamente ampio e profondo nel quale è stata concepita. Villucci è un autore tutt’altro che chiesastico o anche soltanto confessionale, non lasciandosi mai prendere dallo spunto adulatore del liturgico, ma al contrario è animato da un autentico impulso religioso che lo porta ad indagare sull’origine profonda della sapienza visionaria del metafisico, come fu dei due poeti già citati, Dante e Blake.
La realtà si impone nella poesia di Villucci come spettacolo cantabile della scena del mondo: inesauribile collezione di sentimenti umani, emozioni, alternarsi di gioie e di dolori, il nascere e il fortificarsi degli affetti, l’azione della morte che sradica i valori umani e li annichilisce nel pianto. Ma l’immensa commedia umana che anima la sottile pellicola di vita biologica miracolosamente appoggiata sulla superficie del pianeta resta in­corniciata in un orientamento sfumato di superiore destino metafisico, cui si allude non solo attraverso il gioco poetico dei Nunzi, che presiedono salvifici i versi di Villucci, ma che è impastato nel verbo stesso del dire poetico, sempre denso di allusioni e proiezioni direzionate verso significati superiori ai semplici valori lessicali delle parole, proprio per sottintendere e per marcare che le parole d’azzurro sanno approdare una destinazione che trascende fatto e antefatto linguistico e che già lumeggia una sua vicinanza collusiva – Dante avrebbe detto che risulta essere nepote – alla visione di dio, con tutto quello che consegue sia come ricaduta nel campo della tradizione poetica italiana sia come risultante nel campo del credo religioso cristiano-cattolico. Appare indicativo di quanto si è qui detto, la mirabile poesia che trae il titolo dall’incipit stesso: “C’inoltrammo tra le vele della sera / lungo i margini del fiume / con i Tuoi passi che si riannodavano ai miei / lungo le distese della Galilea, / figlio lieto per padre, / tenero agli occhi della madre, / canto dell’alba nella preghiera delle genti. / Quando fummo sotto l’arco dell’approdo / T’invocai, Signore, per dirTi / di me, tra un mareggiare di foglie, / ma Tu eri già volo di colomba / oltre l’argento della luna”. L’insegnamento peripatetico del maestro al discepolo, ai bordi del fiume che è metafora del tempo che scorre, non a caso ha origine in Galilea, culla della Trinità, e quando sfocia “all’arco dell’approdo” – ovvero quando diviene il ponte che unisce insieme l’umano e il divino – nel vortice delle foglie di Sibilla – cioè tra i versi dei poeti ma anche tra i fatti degli uomini, inani gli uni e gli altri – Gesù si è già rivelato per essere la colomba capace di trascendere la luna, cioè di andare oltre il simbolo per eccellenza dei sogni dei poeti. Non deve sorprendere che tanta visione metafisica sia collocata in un substrato prepotentemente materico e umano. Basti pensare che le parole d’azzurro demandano, in realtà, “ai gesti fatti in un’altra lingua / per comprenderci” e sono quel “Pòti pòti” (poco poco) codificato, proveniente dall’universo della tua infanzia: “Era segreta felicità quella / che la memoria non cancella / e ferma sul diario del tempo”. Mirabilmente il fatto personale, schiettamente autobiografico e fin quasi diaristico, si fonde e si confonde con la rielaborazione concettuale più raffinata e complessa e ne diviene il simbolo, come un innocente agnello belante elevato a mascotte potrebbe rappresentare un intero reggimento di dragoni a cavallo. Ma anche il contenuto degli affetti più cari di amicizia poetica, anche l’accorato ricordo dell’amico Antonio Piromalli, compagno di tante iniziative di scrittura e di studio e di vita, si manifesta in un continuo richiamo allusivo tra i fatti della vita e l’esito delle parole destinate a eternarli in qualcosa di incomparabilmente più inconsistente eppure più durevole: “Ancora oggi riannodano poeti / serti d’alloro agli acroteri / della pietra del sepolcro / con voci d’affetto sotto l’azzurro. Mesto sorride il figlio «dal portico solingo»”, in cui si fa esplicito riferimento a celebri versi di Piromalli, scritti nei lontani anni Cinquanta, ma che ancora oggi riecheggiano il loro valore eternante di bellezza e mestizia. Similmente si conclude il libro con un grande rievocativo dell’ineguagliabile spettacolo di figure e di parole che è rappresentato dalla tradizione di cultura della Calabria, che trova ancora il suo simbolo in Antonio Piromalli e nel pittore amico Enotrio Pugliese: “Il colle ha balzi di giallo / sul grigio della pietra / come nei rinati colori di Enotrio, / verso il respiro del mare / e il varco delle isole. / Il chiaro delle nuvole / annuncia una rinnovata primavera. / Riascolto il tuo passo nelle stanze / ed il canto di Sei tu il bolero”. Si ricompone, infine, quella monade a cui prima si accennava, e che potremmo ora leggere anche come vita che continua oltre la vita, in un’oltranza continuativa di significati che l’arte raggiunge con la poesia e con la pittura – ma anche con la musica e con le altre muse – in modo nepote alla durata eterna di Dio.

Sandro Gros-Pietro

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