PREFAZIONE

Il ritorno di Walter Chiappelli alla poesia assume il carattere della gioiosa visita, che si realizza con festosa accoglienza: è un riconoscerlo per quello che da sempre egli è, senza alcuna agnizione inopinata, ma è anche l’evento che accade in una cornice di letizia straordinaria, e che riveste i panni della notizia che va comunicata con diletto e piacere. È l’eco poetica, familiare e flebile, di quell’altravisitazione bene più fondante e rivelativa, ma altrettanto casalinga e semplice, resa da Maria a Elisabetta, dopo l’annuncio dell’Angelo. Infatti, Chiappelli ha questa dote d’eccezione: realizza in poesia la solennità dell’umiltà. L’abito poetico di Chiappelli è discreto, e non è superbo, perché è costruito con le quotidianità della vita, cioè con le emozioni, coi sentimenti, con gli accadimenti della vita ordinaria, con le ricostruzioni dei fatti di cronaca, con le riflessioni civili e politiche comuni agli onesti cittadini lavoratori che palpitano d’ansia per il futuro dei loro amati e del loro Paese, con gli attimi di incantamento ed estasi davanti agli spettacoli della natura e ai panorami della terra natia, con le amabili confidenze d’intimità amicale riguardanti le scadenze dei genetliaci della figlia o del poeta amato sopra ogni altro bene di tutta la storia della letteratura – dicasi l’amico Giorgio Bárberi Squarotti, verso cui Chiappelli nutre un sentimento di riguardosa protezione e di serena devozione. Tuttavia, questo linguaggio ordinario, dimentico di imparentarsi coi tormentosi dilemmi della ragione filosofica e psicologica tanto cari a gran parte della poesia moderna, si dispiega in un’espressione rigogliosa e solenne, perché punta sempre al centro della questione, con la stessa eroica ostinazione del torero che si mantiene nel cuore della piazza in cui si celebra il rito della vita e della morte. Mai metafora apparirà più stonata di quella di un torero nei panni di Chiappelli! Infatti, Chiappelli tutt’al più amerà molto Federico Garcìa Lorca, in quanto superbo poeta; ma è difficile credere che egli possa rivestire l’abito del torero e amare le corride letterarie con altri poeti, i quali non proprio tutti saranno, infine, dei bovini da macello, in attesa del torero che li accomodi sui banchi del beccaio. Torniamo alla metafora galeotta. Essa sottolinea la vocazione, che ha Chiappelli, di cercare il centro di ogni questione; di sopportare l’urto con la dimensione cruda e dura di ogni problema; di spingersi nell’occhio del ciclone, direbbero i meteorologi. E nell’occhio del ciclone, mirabilmente, c’è una gran pace, una gran luce, un dolcissimo conforto. Anzi, c’è l’armonia. Proprio la proporzione euritmica delle parti compositive dell’intero cosmo sia nell’immensamente grande sia nell’infinitamente piccino rappresenta lo stupore religioso e appagante con il cui il poeta mette a tacere ogni turbamento dubitativo per l’apparente caos del mondo: L’Armonia è il sole della bellezza / sua serena aureola avvolge ogni tempo / raggia nei baci dei bimbi dei vecchi / rifulge nell’anime… […] Se penso a un’armonia intensa / la sento crescere meravigliosamente / e la vedo trasfigurarsi / in bella immagine d’amore / in me, e come me terrena. L’armonia, dunque, non è solo indole del divino, ma al contrario è condizione di equilibrio e di piacere, viva e presente, nella quotidianità della vita, al punto da essere ricercata e gustata con delizia anche a tavola, nei cibi e nelle bevande, quelle più topiche, per esempio nel pane e nel vino: Pane, antico dio […] è cibo umano anche cibo divino / dà sangue al corpo luce allo spirito; lo contemplo lo mangio con amore / infinito sempre: Siamo in armonia […] e poco oltre leggiamo Vino, antico dio […] è linfa umana anche linfa divina / dà sangue al corpo luce allo spirito; lo contemplo lo bevo con amore / infinito sempre: Siamo in armonia. Non sfuggono le forme iterative del dettato poetico, ripetute quasi con intonazione liturgica e celebrativa, proprio per costruire il momento della solennità nella semplicità del gesto, come è già stato detto prima. In altra occasione di commento alla poesia di Chiappelli, abbiamo osservato come essa sviluppi la funzione di togliere il velo alle cose e di permettere di intuire il significato profondo della nostra umana esperienza. Ma la visione poetica, in Chiappelli, non è tuttavia un fremito inopinato e inconsapevole e neppure una sorta di grazia ricevuta in dono come un talento evangelico da fare fruttare. La visione poetica, invece, appare come una virtù coltivabile, con impegno costante, nella meditazione e nella contemplazione. La strada che conduce alla visione poetica è lastricata di pazienza, e non invece di furore e di impeto, come vorrebbero le concezioni più contestatarie e ribelli. Dice il poeta che La Pazienza è la bilancia del mondo / sta lei sul radioso piedistallo ormai / rimpiazza il sacro emblema la Giustizia / svuotata, deturpata…/ nostra salvezza è la saggia Pazienza […] non perire vitale Pazienza, ché / il puro Male / se cedi totalmente / fulmineo divampa e la vita tutta / sarà un inferno. Resta il punto fermo della poesia come discorso ontologico, cioè come ricognizione intorno al “primo elemento” della vita, ossia come scala che conduce a Dio e che comporta un’ascesi impegnativa: La poesia pacatamente mi dice: / Dio impegna; chiede concentrazione / voglia di Lui; tu forte del Suo amore / Lui tutto aperto allora / al cuore-cosmo-amato; / oh, sali sulle cime / immacolate del Verbo e discendi / lirico, vero, cantando la terra. Ecco che al poeta, dunque, tocca in sorte questa funzione prometeica di recare agli uomini il dono degli dei, cioè detto al di fuori di ogni chiave metaforica pagana, tocca al poeta la funzione di testimoniare l’armonia che sovrintende alla nostra vita di disordine entropico e di dispersione. Ed è questa una funzione che si può assolvere solo applicandosi fondatamente e diuturnamente nella realizzazione dell’endiadi del titolo con cui Walter Chiappelli congeda questo suo splendido libro di poesie, con passione e con pensiero.

Sandro Gros-Pietro

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