PREFAZIONE

Simbolo di donna libera e sensibile, aperta al prossimo e sempre disponibile a darsi per gli altri, Patrizia Vescovi ha dedicato la vita ai valori della cultura e delle arti, con un esercizio continuo della fantasia creativa. Il gesto che assume maggiore significato di civiltà e di partecipazione è sempre stato in lei la meraviglia del dono. Se si dovesse inventare un titolo apocrifo da apporre alla sua splendida raccolta di testi poetici, altro non potrebbe essere che Il dono di Patrizia, proprio in quanto il suo lungo e prolungato canto d’amore si è espresso come continuativa intenzione di offerta e di oblazione di sé verso l’enigma della vita e della creazione in generale. Patrizia assurge a icona rappresentativa della bellezza femminile declinata in forma moderna: una donna libera, colta, indipendente, vibrante di passione per la bellezza e per la creatività, sensibile e raffinata nelle emozioni, centro di gravità del suo mondo, ma anche sole che irradia e che offre continuo dono di sé stessa al prossimo, e che per il prossimo si consuma e gioiosamente si degrada nella consapevolezza accettata e arresa del tempo effimero del suo passaggio e della necessità di prolungarlo con un dono di resilienza della vita oltre la vita stessa.
La poesia è stata una compagna fedele della vita di Patrizia. Come accade a molti giovani dall’animo sensibile e bene indirizzato da un’educazione attenta ai valori culturali e spirituali, Patrizia ha iniziato fino dall’adolescenza a scrivere versi. Essendo nata nel 1963 è chiaro per chi si intenda di Poesia, che lei si è affacciata al mondo della letteratura negli anni in cui in Italia furoreggiava ancora lo sperimentalismo del Gruppo 63 dei Novissimi, i cui principali interpreti erano Edoardo Sanguineti, Alfredo Giuliani, Nanni Balestrini, Antonio Porta, Elio Pagliarani, riuniti intorno alla rivista Il Verri, fondata da Luciano Anceschi, i quali rappresentavano un’azione congiunta di rifiuto della tradizione letteraria, specie della più recente, quella degli anni Cinquanta, con il totale rigetto delle espressioni ermetiche di Ungaretti e di Quasimodo e anche con il superamento del pensiero poetante elaborato intorno al mal di vivere montaliano, risalente ancora agli Ossi di seppia del 1925. Patrizia Vescovi si iscrive alla Facoltà di Lettere quando ormai Sanguineti ha abbandonato Torino e il poeta che domina la piazza torinese è Giorgio Bárberi Squarotti, il quale noterà immediatamente Patrizia Vescovi, che viene selezionata e inclusa nell’antologia studentesca torinese denominata Il rinoceronte tra le nuvole. Patrizia diviene anche allieva di Bárberi, con cui mantiene ottimi rapporti personali, ma non ne segue l’impronta poetica. Quello barberiano è un versante poetico di opalescenza metafisica, mentre Patrizia Vescovi decide di indirizzarsi verso un panorama di visionarietà simbolista, con elementi di surrealismo e allo stesso tempo si apre all’evasione onirica dei sogni e quindi sviluppa una strategia di attenzione per l’analisi psicanalitica del proprio io, che poi andrà nel tempo prendendo sempre più piede nella sua produzione poetica. È un’autrice che mette in campo fino a partire dalla giovane età forti mezzi di penetrazione e di capacità letteraria; il suo impianto espressivo appare subito solido, già dalle prime mosse. Pur distaccandosi dalle mode del tempo, si lascia almeno in parte contagiare dal clima instaurato dall’uscita di La parola innamorata. Poeti nuovi 1976-78, a cura di Giancarlo Pontiggia ed Enzo Di Mauro, e così Patrizia si diletta in qualche forma di giochi verbali, calembour, ossimori, anafore, ripetizioni, ecolalie, neologismi, invenzioni glottologiche, ma non più di tanto, perché non è al fascino di superficie e agli incantesimi della parola che lei tende. Quante volte, anzi, nelle sue poesie Patrizia usa l’espressione irridente del fascino di superficie! Ella intende esattamente catechizzare qual valore flebile e ingannevole sia la sonorità epidermica della parola poetica, che invece, nella sua concezione, ha il significato di “pozzo profondo”, di “pozzo nero” e addirittura di “abisso”. Bisogna essere attrezzati speleologi per calarvisi. C’è un’unica poetessa che per capacità e indagine espressiva è molto vicina a Patrizia Vescovi ed è la milanese Antonia Pozzi, splendida mente di raro nitore spirituale e di forte inclinazione psicanalitica, che aveva conquistato Eugenio Montale, poi morta suicida alla giovanissima età di ventisei anni nel 1938, probabilmente irretita se non soffocata dal rigido ambiente familiare di ricca borghesia nobiliare, molto insensibile ai valori della poesia. Patrizia Vescovi ha in comune con Antonia Pozzi il suo distacco per non dire la sua diffidenza verso gli ambienti poetici di voga: in vita sua non pubblicò mai un solo libro, le sue poesie uscirono solo postume, esattamente come accade a Patrizia Vescovi. Tuttavia, la Vescovi ha fatto funzionare la sua “finestra aperta sul mondo”, che è consistita in un medianico specchio di Alice aperto nel Grande Bosco di internet, e che si chiama podip.blogspot.com: quello è stato il suo dono offerto in ricordo di sé a chi ha voluto avvantaggiarsene. Certamente non si può dire che la Vescovi abbia attinto in modo specifico qualche tematica di ispirazione dal mondo poetico di Antonia Pozzi, e ancora meno dagli esempi di vita, stante il fatto che Antonia morì giovinetta, mente Patrizia ebbe modo di conoscere l’amore umano e concepì il dono supremo di divenire mamma di due amatissimi figli. Anzi, semmai balza agli occhi la differenza tematica tra l’estatico amore di Antonia per la montagna, la natura, i fiori, messo a confronto con la rattenuta inclinazione di Patrizia a rendersi aedo ecologico e men che meno a divenire un cantore della montagna. Però, per entrambe le due poetesse vale molto ed è in primo piano nei loro versi lo scavo psicologico della propria personalità, come chiave di lettura di ogni mistero della vita.
È elemento di importanza accennare anche all’amore per la lirica che, almeno per una fase formativa dello spirito, ha rappresentato un impegno emotivo, passionale e artistico di notevole spessore nella personalità della Vescovi. Gli studi di canto e la frequentazione in genere del teatro lirico sono stati amori dell’intelletto non solo occasionali. Anche in poesia c’è una ricaduta della sua passione per la lirica e si tratta del personaggio pucciniano di Butterfly, più volte divenuto occasione tematica di riflessione. Ciò che affascina la Poetessa è l’e­stremo dono d’amore che Cio-Cio-San – ossia Madama Butterfly – compie per realizzare la felicità futura del marito Pinkerton e del figlio avuto da lui: è questo il perfetto dono di sé inteso come atto puro di riscatto da ogni errore compiuto e di rifondazione liberatrice di una nuova vita. Questo tema, che trova indubbiamente il pieno trionfo religioso nella funzione sacrificale cristologica, è tuttavia presente nell’intero percorso antropologico in ogni luogo e tempo, fino dagli albori tribali della notte dei tempi. Il dono come lo intende la poetessa Patrizia Vescovi non è una porta edenica che conduce a raggiungere il paradiso celeste, ma è invece un’oblazione a favore del qui e ora, è un fatto materiale e terragno, al di là di ogni fede religiosa: è il sublime atto espressivo della gentilezza d’animo e della bellezza misteriosa della creazione di cui il Poeta è la figura demiurgica depositaria di ogni significato profondo. Appunto, stiamo parlando del pozzo, il bordo dell’abisso, su cui il poeta intona il canto tanto più sublime quanto più silenzioso e fino rinunciatario. È un’estasi che allo stesso tempo comporta la disperazione. È la madre di tutti gli ossimori possibili che si trascina dietro il Poeta nel suo viaggio di espressione dell’Io, come unica voce autentica dell’umanità, la cui sostanza costituente è l’incontenibile gioia, ma contemporaneamente è anche l’insanabile dolore. Il vocabolo dolore ha una frequenza primaria di ripetizione in tutta l’opera del Poeta. Il dolore non è mai lamentazione, disfatta, querimonia o pianto. Il dolore è elezione, perché è accettazione e condivisione dell’irreparabile e del mistero: è la chiamata al dono oblativo. Per capire a fondo l’asserzione è opportuno cedere con riverenza lo spazio alle parole esatte del Poeta che così si esprime nella poesia contrassegnata Dedica (2): “Vi regalo un dolore / e non ho dono più caro”. L’aggettivo caro assume nel contesto il doppio significato sia di amato sia di costoso, che sono gli estremi simbolici dell’ossimoro rappresentato dal dono. Non è difficile capire a qual livello di pienezza e di splendore spirituale giunga l’acme poetico di Patrizia Vescovi: lei è non solo brava poetessa, ma dolcissima figura umana di donna bellissima, inarrivabilmente generosa.
Il libro Poesie 1978-2020 è stato curato da Enrico Giacovelli, che è stato al fianco di Patrizia per molti anni. Va detto che Giacovelli ha compiuto un prezioso lavoro di reperimento, collazione, riordino e datazione delle poesie, con una competenza professionale rigorosamente rispettosa e valorizzatrice della dizione e della disposizione versale ideata dalla scrittrice. Bisogna dargli atto dell’importanza basilare dell’opera di raccolta e di sistemazione che egli ha svolto e che rappresenta la fondamentale attribuzione di valore aggiunto conferito al mondo poetico di Patrizia Vescovi: senza l’opera del Curatore l’edizione non sarebbe venuta alla luce ed enorme sarebbe stato il rischio della dispersione dei testi e dell’esalazione dell’intero messaggio poetico. L’opus magnum è stato scandito in periodi temporali tetragoni. Il primo dei quattro si chiama Vasi comunicanti (1978-1983), a sua volta suddiviso nelle due sezioni Il distempo e Il tempo: sono sostanzialmente i testi del periodo liceale e del periodo universitario, che forniscono chiara prova della valentìa espressiva raggiunta con immediata maturazione dal Poeta. Il distempo – riferito agli anni del Liceoè la sezione in cui si scatena maggiormente la fantasia, che non va intesa unicamente come la manifestazione di gioventù, con l’immaginazione al potere, ma che è già la decisa scelta di campo che caratterizzerà poi l’impostazione della ricerca poetica fino alla maturità. È come si è detto un versante simbolista e surreale, nel quale si riconoscono echi poetici provenienti da Baudelaire, Yeats, Valéry, Poe, Marinetti, Lorca, Breton, Borges e Céline a conferma di una rara vocazione alla lettura, affamata di conoscenza e di sperimentazione, continuamente in cerca di notizie sulla creatività e dintorni, molto produttiva e propulsiva, con l’arcano sempre in agguato, l’enigma che incombe, l’assurdo che è la scena bretoniana del mondo, la storia che è una sequenza di inutili piccole estasi e disillusioni céliniane poste al termine della notte, il tempo che decade in un consunto vissuto: pinocchio è ormai vecchio e il bimbo è già morto nella sua piccola bara, la sua anima è la farfalla che s’allontana. Nella seconda sezione, Il tempo, permane fortissima la scelta simbolista e surrealista. Si veda, tanto per citare solo due fra i tanti esempi, Osqobar e la vicenda di Il Sarontra – per non citare anche il Canto disincanto con il simbolico serpente – ma è anche vero che c’è un maggiore riscontro con l’attualità corrente. Il Poeta s’impone quasi l’obbligo di calarsi nel suo tempo, e allora ecco manifestarsi quell’apertura all’attualità, una sorta di testimonianza resa alle vicende poetiche che si passano: quei giochi di parole, lo sviluppo dell’ironia, le anafore, le ripetizioni e le associazioni, le endiadi volutamente tartagliate, cioè ripetute come fosse un balbettio, per cui vedasi Una follia e una follia, i calembour, i delirati dall’ira deliranti, e tantissimi altri casi, che fanno da eco per metà accondiscendente e per l’altra metà irridente verso l’atmosfera poetica della parola innamorata, di cui già si è detto. Qui già si anticipa quel parlare dall’alto dei coturni tragici, un poco serio e un poco in falsetto, con il poeta rivestito nell’abito di luce intessuto nel dolore, che si mette a farfugliare la sperimentazione tra le sudate carte per erigere le sue inutilia, rappresentate nientemeno dal simbolo di Dante che si scervella per buttare giù le terzine incatenate della Commedia. Il secondo periodo si intitola L’invidia degli dèi (1983-1995), e fa riferimento grosso modo agli anni universitari e anche dopo. Apprendo dal Curatore che è stato lui stesso a sceglierne il titolo, estrapolandolo da una poesia molta amata della scrittrice. Patrizia intendeva alludere al sentimento di invidia delle divinità olim­piche nei confronti dei mortali, al punto da indurli a intervenire con castighi, punizioni e ritorsioni, quando essi superavano i limiti stabiliti, magari perché con­cupivano per amore la bellezza degli déi, come fece il pastore Atteone con Artemide, oppure perché aspiravano a sviluppare troppo “virtute e canoscenza” come fece Ulisse: a entrambi male incolse per il troppo ardire. A chi scrive pare anche possibile vedere in queste invidiose divinità il parterre di poeti che accompagnano Patrizia Vescovi nel suo viaggio di conoscenza dentro la Poesia. In tal caso si tratterebbe di un affettuoso sberleffo in chiave dantesca, per nulla offensivo, ma anzi cameratesco. Infatti, è sottintesa la guida di Virgilio che conduce Dante per l’Inferno e per il Purgatorio. Contiene anche un’episodica partecipazione alla poesia della piazza torinese, con gli appoggi ovvero les hommages a Bárberi Squarotti e a Gros-Pietro, le lettere all’amico che allora andavano tanto di moda. Poi comincia ad affacciarsi la scena del mondo, e già si apre la finestra che dà sulla strada, per cui ci sono gatti e cani, cioè gli animali domestici che occupano lo spazio poetico prima destinato agli animali letterari; c’è la luna, il mare, le marine, piccole storie circostanziate nella quotidianità. Infine, c’è anche la falce del Poeta che s’alza con sacralità sui perituri: c’è l’avvistamento della morte, c’è l’ode a Madama Butterfly. Distacco è una splendida poesia carica di nostalgia e bellezza in cui il Poeta nomina e celebra la consistenza del proprio irredimibile dolore. Similmente va citata la bellissima poesia solare e colma di arresa nostalgia al necessario deperimento della vita che è Per le mie nozze. Il terzo periodo è rappresentato dalle poesie riunite nella sezione La cruna dell’ago (1995-2016), che rappresenta la tenera svolta del Poeta verso l’ambiente sociale, l’amore domestico, il mondo del lavoro, la scuola. È la maturazione del dono: il lungo viaggio di anabasi che il Poeta ha compiuto per cercare il seme dell’uomo, cioè quel chicco che vale il seme, il suo muoversi tra il tempo e il distempo, il superamento dell’invidia degli dèi, ora necessariamente deve essere messo alla prova che servirà a stabilirne il valore. Il Poeta deve passare per la cruna dell’ago, altro simbolo cristologico, usato da una poetessa che è sostanzialmente laica, nel senso che il suo canto non assume le forme della preghiera rivolta a Dio, ma quella del poema celebrativo della dimensione umana. Chi passa attraverso la cruna dell’ago è un eletto. Scrive il Poeta: “Sempre meno sordo / al rombo posso dimenticare / chi sono e da dove vengo. / Chiedetemi di forzare l’avventura / se non quando è tardi. // Lasciatemi passare / per la cruna dell’ago”. Per il Poeta il passaggio attraverso la cruna dell’ago consiste nel concepire il dono di sé, offrire ciò che sia utile agli altri. Ed ecco, allora, che La cruna dell’ago diviene un unico dolcissimo, nostalgico, gioioso e tristo canto d’amore. Il più alto, tenero e solenne canto d’amore scritto da una poetessa italiana in questi anni d’inizio del ventunesimo secolo. Un’autentica opera d’arte, di vita e di poesia. Una bellezza semplice e accecante: colpisce per la sua limpida perentorietà che non ammette screzi, non comprende incrinamenti, non argomenta dubitazioni. È un acuto spinto fino al canto del silenzio che solo gli angeli possono intonare. La cruna dell’ago diviene diario dell’anima, atto di confessione, ricerca dell’Io e autoanalisi. Il linguaggio poetico sveste le arditezze delle elaborate metafore, diviene icastico, immediato, de­finitorio, colloquiale, con tendenza alla descrizione ragionata anziché al salto analogico. È un linguaggio che occhieggia il fluire massivo della narrativa, anziché gli arcobaleni vertiginosi della Poesia. L’offerta non è più un’elezione riservata agli iniziati, ma è una condivisione per gli amici e le amiche, c’è spazio domestico e sociale, anche se permane il meccanismo del contrasto, la doppiezza sfaccettata della realtà, le insidie dell’incomprensione e il canto d’amore – per usare un’espressione che sta alle origini “cortesi” della nostra letteratura, tra legami e tradimenti – è più esattamente un contrasto d’amore, che richiama alla memoria Ciullo d’Alcamo (o Cielo d’Alcamo, che dir si voglia, la rosa aulentissima). Ma è indubbio che, nella mente di Patrizia, il pensiero corre ben prima ancora, lungo i meandri dei suoi distempi, fino alla relazione di Catullo e Lesbia, e poi chi lo sa! È certo che Patrizia è ben consapevole che l’esempio letterario del diario segreto, intimo e nascosto, ma comunque destinato alla pubblicazione, riguardante “il segreto delle mie angosce” è tra gli ori e gli onori d’altare della nostra letteratura, capostipite antesignano di tutte le autoanalisi d’autore che poi seguirono nei secoli (De secreto conflictu curarum mearum di Francesco Petrarca). L’ultima sezione del libro si intitola Le strade (2017-2020) ed è un invito alla continuazione della vita che, per contrasto, conduce alla morte della poetessa, sopraggiunta nel pieno della sua attività sociale e letteraria. Il titolo della sezione è volutamente un’evasione americana, e non felliniana. C’è un’eco beat di On the Road di Jack Kerouac, ma è quasi un omaggio diversivo, perché l’allusione è alla diversità delle scelte, ai bivi e ai cambiamenti, alla rinascita della vita e anche alla rinuncia a vivere, secondo l’ormai consueto funzionamento dell’ossimoro che è un nesso di causalità ricorrente in Patrizia. Dunque, non è direttamente implicato il nomadismo me­tropolitano e non dello scrittore statunitense. Il linguaggio poetico si porta à la page con l’ultima moda medianica del messaggio, ma è anche un avvaloramento della sentenza breve, dell’aforisma intelligente e rivelatore di Oscar Wilde, della definizione sfumata, del pensiero incompleto, della riflessione leopardiana dello Zibaldone. Il tema predominante è sempre quello di una ricognizione sul dono d’amore. Il libro si conclude con uno splendido congedo d’amore, rivolto a tutto ciò che ha compiuto nella vita: “Mi sono riavvolta nel tempo che fu / come un nastro incantato. / La mia casa è d’argento”. Sono trascorsi più di quarant’anni di poesia dalla prima apparizione in pubblico di Patrizia Vescovi con le due poesie Un inferno e Vai: la prima è dedicata a un’infatuazione adolescenziale e la seconda a sé stessa. Vale la pena di citare per intero la prima poesia, che è un testo d’amore scritto intorno ai diciott’anni, e che possiede l’esatto imprinting del suo stupendo poema d’amore di cui sì è già detto: “Quando mi vuoi non hai che da dirlo / sono qui per te, sono il tuo alibi, il tuo amore / la tua coscienza / quando vuoi una bambola da respirare di notte / un fiore da strappare e pinzare all’occhiello / un sorso d’acqua fresca / sceglimi, io sai non ricordo mai, mai rinfaccio /io sempre sorrido io sempre mi inchino / lo sai anche tu che mi comandi / a un tuo cenno io scrivo piango / apro le finestre // e i treni non vanno mai abbastanza lontano. L’ultimo verso in corsivo è un inserimento tratto non a caso dal capolavoro di Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal.

Sandro Gros-Pietro

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