Prefazione

L’esplosione creativa di Davide Riccio non si limita a essere manifestazione di estro artistico, tra l’altro elemento sicuramente presente e sfavillante nei suoi scritti. Dietro la forza della sua incontenibile fantasia e capacità di metamorfizzare la lingua e, quindi, il racconto del mondo attraverso la parola, c’è una prodigiosa memoria che ha immagazzinato e pazientemente archiviato una dose immensa di notizie del presente più prossimo – nel quale la pandemia provocata dal Covid-19 giganteggia in modo quasi asfissiante o comunque contamina gli altri oggetti e le persone dell’attualità – ma anche c’è una superba messe di notizie del passato sia recente sia remoto, nonché una raccolta d’informazioni riguardanti i luoghi patri e natii come quelli dell’estremo Oriente e del nuovo Occidente, al di là dell’oceano. Il significato etimologico del vocabolo poesia, come ben si sa, significa creare nel senso di costruire, cioè usare dei materiali per erigere una sorta di monumento, forse all’inizio si intendeva un muro in pietra, diciamo un cumulo di materiale ammassato. Il materiale con cui il Poeta costruisce è fornito dalle parole, le quali insieme producono la rappresentazione di ciò che c’è e di ciò che non c’è. Per dirla con il Nostro, le parole impiegate rappresentano il “poi sia”, un criterio di accettazione e di resa al divenire inarrestabile delle cose, di cui il Poeta è cantore, nunzio, vox clamans, veggente, strillone, amanuense, archivista, interprete, demiurgo: che altro? Si può dire un poco tutto, ma non si deve dire che sia anche responsabile. Il Poeta, infatti, è beatamente irresponsabile di ciò che dice, poiché parla per estro. Egli è perfettamente assimilabile al giullare di corte: ciò che dice non cale, per volere degli dèi: Poi sia, ciò che si vuole, ma non sparate sul pianista che non c’entra nulla.
Davide Riccio è tra i pochi poeti italiani che hanno maturato nel tempo radicate informazioni e formazioni riguardanti la poetica d’antan e quella moderna. La sua attenzione alla metrica è quasi maniacale, ricorda i sonetti di Carlo Betocchi, gli esperimenti di Eugenio Montale, Giorgio Caproni, Franco Fortini, Edoardo Sanguineti. La tradizione della classicità in verità finisce per sempre con Elettra di d’Annunzio e con Le fiale di Corrado Govoni, tutte e due pubblicate nel 1903. Cinque anni dopo il futurismo di Marinetti cancella per sempre la classicità e rende la composizione in rima e in metrica una forma di sperimentalismo per intellettuali nostalgici. La poesia classica diventa come l’opera lirica: una cerimonia del tempo che fu. Oggi i poeti che badano alla metrica li chiameremmo per celia dei sudokisti: compongono col sudore delle meningi dei quadrati perfetti di numeri fini a sé stessi. Eppure è un gioco che continua a piacere, anzi vieppiù si diffonde. Perché la Poesia se ne fa beffe assolute di qualsiasi diktat, in quanto è un omaggio al Poi sia, cioè libera accettazione arresa a ciò che avverrà. Quindi versi endecasillabi, novenari, alessandrini, distici in quantità ci stanno benissimo e convivono in piena promiscuità con espressioni di poesia visiva, beffe marinettiane e palazzeschiane, calembour, boutade, giochi di parole, raccontini e divagazioni, spigolature a piè di pagina. Il testo di poesia è tutto fuorché emozione sfibrante di sentimentalismo: gli sbaciucchiamenti e la lacrimazione profusa che facevano sorridere e un poco spazientire Tommasi di Lampedusa non trovano diritto di cittadinanza nella Poesia di Davide Riccio.
Poesia del gioco intelligente e gioioso, con qualche punta di sarcasmo cinico nella constatazione degli umani difetti che appaiono diffusissimi e delle umane virtù che sono più introvabili delle terre rare: il libro Poi sia di Davide Riccio è uno splendido scrigno di trovate esemplari su cui riflettere e da utilizzare nelle migliori occasioni, ma con amici intelligenti.

Sandro Gros-Pietro

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