Prefazione

Il lettore che accede a questo libro trova ad attenderlo 128 poesie, composte dal 2008 ad oggi. Sono liriche dal verso libero, la cui misura va dal frammento di sapore epigrammatico o haiku fino al poema. Propongono parole che attingono a registri linguistici diseguali, quello scientifico come quello letterario, quello quotidiano come quello arcaico. Includono suoni studiati, talora esaltati da rime baciate e assonanze, allitterazioni e onomatopee. Vantano frasi costruite con modi brevi e immediati, ma anche pianamente discorsivi o addirittura – quando è necessario – contorti, accentuati se il caso da enjambements e chiasmi. Adottano uno stile comunicativo colloquiale, in qualche circostanza apertamente dialogico, che non disdegna quelle ripetizioni di formule espressive tipiche dell’oralità.
Come accade per ogni contributo culturale di qualità, il ragguardevole apparato tecnico dispiegato dall’Autore non dev’essere tuttavia considerato in modo fine a se stesso. Non soltanto perché è caratteristica della scrittura artistica armonizzare forma e contenuto, ma anche e soprattutto perché, nel caso di questo libro, forma e contenuto sono strettamente compenetrati nella produzione di significato. E se quel significato è la stella polare di Porta delle Alpi, comporterebbe rendere un cattivo servizio al lettore invitarlo ad inoltrarsi nelle poesie senza avergli aperto almeno alcuni squarci sulla weltanschauung dell’autore. Una visione del mondo ricavata da un percorso intellettuale insolito quanto mirato, che include filosofi e psicanalisti, letterati e fisici, antropologi e storici, geografi ed etnologi.

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L’Autore coltiva un’idea di poesia che si radica nella concezione goethiana dell’arte, secondo cui quest’ultima risulta da un procedimento istantaneo e intuitivo, contraddistinto dall’unità fra particolare e universale, fra dettaglio e idea, fra percezione e significato, che ha come fulcro il simbolo, teso all’inesprimibile. Con Friedrich Schlegel, pensa ad un percorso magico che, riscoprendo il linguaggio originario – entità pura e assoluta –, riesce a superare la scissione tra Io e Natura. Attento alla lezione di Gilles Deleuze, egli rivisita il proprio vissuto dipartendolo da sé per renderlo davvero compartecipabile. Ma è a Owen Barfield che deve l’apporto maggiore, ritenendo la poesia un contributo effettivo alla conoscenza della Verità, di cui il lettore si beneficia in termini di comprensione del reale e di saggezza del vivere.
Non sarà superfluo rilevare che alcune poesie sono dedicate alle nuvole, anomale formazioni sempre mutanti, i cui tratti distintivi costituiscono uno straordinario stimolo all’immaginazione, tanto da incidere sull’evoluzione della mente: “Le vostre forme cangianti non portano stanchezza / raccontano parlano, / ghirigori effimeri depositano limo e lume in ogni dove / nelle coscienze più limpide e benevole / qualcosa che non esiste / presto si rapprende in un’immagine” (Rabeschi di nuvole).

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Protagonista di questo libro è l’uomo contemporaneo, che patisce l’angosciosa disgregazione dell’esistenza. Egli è immerso in una cultura nichilista che mercifica e massifica, che contrappone diritto e giustizia, che distrugge gli ecosistemi e divora i suoli, che è dominata da un principio d’identità che differenzia ogni individuo dai suoi consimili e dal resto del mondo, che non riconosce alla vita senso, scopo e valore intrinseco, che afferma che la morale non esiste di per sé rendendo così incomprensibile la Verità. Ad apertura della raccolta è posta non a caso l’apostrofe Al lettore.
In essa, il testo liminare tenta di tracciare una sintesi dell’intera raccolta, di un percorso che dalla polvere opaca, dalla nebbia, dalle pietre d’inciampo del non-esistente conduce alla luce di chi vive in un corpo di gloria. Risuona così la memoria di Dante Alighieri, del canto d’esordio dell’Inferno: “Ed eccoci fuori dal folto groviglio, / là nella luce dove rifulge in tutte le sue grazie / la porta antica di un colle radioso / Cenisio effuso / mio corpo glorioso”. Di converso, la nebbia densa, onniavvolgente, rimanda a William Turner e alla sua ormai classica rappresentazione del Moncenisio.

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All’uomo contemporaneo, pur stritolato da un nichilismo che nella sua intellegibilità è del tutto chiuso, l’autore vuole indicare un percorso di liberazione. Un buon punto di partenza per comprendere tale progetto può essere l’affermazione di Mircea Eliade, secondo cui “Quel che l’uomo […] ha inteso dall’esempio dei semi, che perdono la loro forma sottoterra, […] rappresenta la lezione decisiva”. È infatti dall’osservazione del processo di mor­te e rinascita in natura che l’umanità è giunta alla consapevolezza di un principio e di una fine a cui segue un nuovo inizio. Ed è a partire dal ciclo agrario, che lega indissolubilmente la sopravvivenza dell’uomo alla terra, che si forma il senso del tempo ciclico.
“Impalpabile perché il nostos è fluido / passa scorre circola lentamente / il nostos ti passa accanto / abbozza cadenze felpate / danze dai movimenti lenti dolcissimi” (Ritorno ad altra vita). Il termine greco nostos – mutuato dal ciclo epico che narra il ritorno dei guerrieri in patria dopo la distruzione di Troia ed impiegato come leitmotiv nel corso del poetare – assume valore di forza sottile, impalpabile, di energia vitale in grado di porre in circolazione le cose immettendole in un fervido gioco di metamorfosi, a cui forse non è estraneo l’agire di Dioniso. Ma quel ritorno procede anche nel senso delle pathosformeln del critico d’arte Aby Warburg, complesse dinamiche emergenti, all’improvviso e senza una causa specifica, dalla corrente carsica della psiche: la danza moresca, che Warburg vide raffigurata sulla facciata di una vecchia casa di Bussoleno, potrebbe esserne immagine equivalente.

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Accogliendo l’elaborazione di Eugenio Turri, nella poesia lo Spazio diventa sintesi di Natura e cultura, risultato di processi storici, specchio in cui si riflettono e si misurano il vivere e l’agire dell’uomo, il suo operare e il suo incessante rinnovarsi. È paesaggio vivente, sommatoria e combinazione dell’evoluzione degli elementi visivi che dialetticamente concorrono a raffigurarlo. La percezione di un luogo viene così rappresentata attraverso ciò che impressiona per evidenza, bellezza, grandiosità, singolarità, o magari perché si ripete, tipico e inconfondibile, e la decifrazione del paesaggio dipende dalla ricchezza dei saperi di chi lo osserva e dalla sua capacità di leggervi il significato del territorio.
Tra le grandi formazioni naturali, i monti, “geometrici av­ve­nimen­ti” secondo Zanzotto, occupano un posto di rilievo nella raccolta. Sono alti, possenti, spruzzati di neve o ricoperti di fiori ed erbe, e tutti resi mediante personificazione. Animati e coscienti, sono in grado di osservare con occhi invisibili. Ne deriva che da essi, come da tutto il paesaggio del Cenisio, spira il fenomeno dell’aura di cui ci ha parlato il filosofo Walter Benjamin. Questa reciprocità di sguardo, bucando il quadro dell’ordinario, ci risveglia al reale. Contigui al Cenisio, troviamo il Malamot, il Turra, il Sollière, il Clapier, l’Ambin e, più discosto, il Rocciamelone, montagna sacra per due versanti di popolo. “Resto qui ammirato o Cenisio / tra il lattescente cielo e la cuffia levigata del Rocciamelone / con il tuo labbro sorridente / intento con i restanti colli / a un sereno conversare” (Sfreccia il gheppio).

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Allo stesso modo, il Tempo è visto nella poesia diversamente da ciò che, secondo Emanuele Severino, “Il pensiero greco ha pensato per primo, una volta per tutte, e che come tecnica do­mina ormai incontrastato su tutta la Terra. Tanto più incontrastato quanto più inesplorato nel suo senso autentico.” In linea con Ernst Jünger, l’andamento circolare del tempo è allora inteso come ri­torno dell’eternità, capace di smentire l’unidirezionalità del progresso e di attribuire i mutamenti della Storia alla ricomparsa di archetipi irradiati da un trascendente, indistinto Principio. Un Tem­po, quello della poesia, che non è più l’odiato fantasma definito da Eugenio Montale che bisogna riempire di occupazioni per allontanare da sé un vertiginoso senso di vuoto, ma che al contrario si configura come ritorno – reso possibile dall’ascesi filosofica – allo stato e all’unità delle origini.
A volte gli elementi della natura, che hanno la forza impressiva delle epifanie, sono apparizioni destinate ad armonizzarsi e a disporsi fuori dal Tempo, istanti che non appartengono né al passato né al futuro: nella poesia il tempo non esiste, tutto è compresente: “la purezza d’aere che fraternizza / con ogni indiscriminato inserito elemento / per inebriarlo di presenza / di vero senso / nelle sacche incerte del senza tempo” (Moncenisio, custode di biomi viventi). L’istante privilegiato fuori del tempo, non ritiene più nulla delle passioni tristi: “[…] affanni / che insieme ordiscono / il passato e il futuro / un istante ti sia dato nella luce che tutto brucia” (Rovescia l’orcio delle cure). Le apparenze da salvare, attraversate da molteplici stratificazioni, sono scrigni di memoria: così si raccontano la “tormenta del 1807”, che colpì Napoleone tratto in salvo da alcuni abitanti della Novalesa; i resti inabissati dell’Ospizio perduto dentro il vasto bacino; i marrons guidatori ebbri di veloci slitte lungo la strada reale; i resti del trenino Fell, sinuoso come uno sgusciante serpente; la corsa impolverata sulla Citroën di Aldous Huxley, morso dall’invidia per una più veloce Alfa Romeo.

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La Porta che dà il titolo alla raccolta rappresenta un varco, che l’autore ha attraversato e che propone al lettore di attraversare a sua volta. Ma cosa attende il lettore al di là di quella Porta? Secondo l’autore, una Partecipazione opposta a quella configurata dalla cultura nichilista, che è di carattere puramente quantitativo, che impone a ciascuno di noi di impossessarsi di una parte del tutto escludendo automaticamente ogni altro dal godimento di quella stessa parte.
Si tratta semmai di una Partecipazione ispirata alle riflessioni di Lucien Lévy-Bruhl sulle culture primitive. I popoli arcaici percepiscono l’intera realtà come attraversata da una forza fisica e psichica mutevole e se stessi come portatori di un’energia qualitativamente identica a quella che promana dagli animali, dalle piante e dagli oggetti. In altri termini, sono pervasi da un’estrema intensità emozionale che non può che rimandare al loro senso di Partecipazione mistica con il mondo.
È la Partecipazione che, nel pensiero di Tommaso d’Aquino, compendia le idee di Platone – secondo cui è nel trascendente che gli uomini trovano comunanza – di Aristotele – che la prova con i modi e i gradi di perfezione diversi con cui essa si realizza in Natura – e di Avicenna – per il quale essa si fonda nell’Essere, atto puro e semplicissimo –. E che, in tutta coerenza, si configura dunque come rapporto metafisico supremo, sfuggente ad ogni determinazione logica e fondato sulla condivisione dei legami morali e affettivi.

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Oltre la Porta, la Partecipazione si giustifica con quell’Anima mundi che James Hillman concepisce riprendendo i Neoplatonici. Secondo Plotino, la vita nasce infatti dall’anima, principio interiore, semplice e immateriale, e la molteplicità di anime presenti nel mondo è comprensibile solo ammettendo che tutte abbiano un’origine comune. Ecco allora che Hillman scrive: “Immaginiamo l’Anima mundi come quella particolare scintilla d’anima, quell’immagine seminale, che si offre attraverso ogni singola cosa nella sua forma visibile.”
La luce del Cenisio appare nella poesia come l’originaria fonte da cui rinviene l’incanto di bellezza. Dietro ad essa c’è un donare che non conosce fine, inseparabile da un dispendio senza contropartita. Solo la poesia si dispone a corrisponderle in un atto di gratitudine, tentativo volto a strappare da essa non altro che qualche brandello di senso, di verità altrimenti insondabile. “Diffrazione di luce osannata / mai prima immaginata / filamenti d’oro così varianti/vibranti / da sollevare lenissimi incanti” (Si librano energie sottili). Il tema della luce occupa momenti cospicui ed ad esso è dedicata un’intera sezione del libro. Convenendo con il pensiero del biologo svizzero Adolf Portmann, la vita del cosmo non si riduce a mera funzionalità, ma è alla ricerca della differenza mostrandosi alla luce: “Ed è l’entheos interno a ogni cosa / che si mostra alla differenza / nell’esibirsi di forme e colori / per apparire in te per te oltre l’utilità / nella quiddità nuda ed esibita” (Luce del Cenisio III).

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A far da sfondo alle prospettive di una nuova Partecipazione interviene d’altronde la critica radicale dell’Ecologia tradizionale, ancorata a una visione antropocentrica e incline a considerare la nostra specie come “altra” rispetto alla Natura. Valgono in tale senso le parole di Fritjof Capra: “Il potere del pensiero astratto ci ha condotto a considerare l’ambiente naturale – la trama della vita – come se consistesse di parti separate, che diversi gruppi di interesse possono sfruttare. Inoltre, abbiamo esteso questa visione frammentata alla società umana, dividendola in differenti nazioni, razze, gruppi politici e religiosi. Il fatto di credere che tutte queste parti – in noi stessi, nel nostro ambiente e nella nostra società – siano realmente separate ci ha alienato dalla Natura e dai nostri simili.”
Alla concezione razionalistica, l’Autore contrappone quella dell’Ecologia profonda, tratta dall’elaborazione del filosofo Arne Næss, e in particolare dalla riflessione di Gary Snyder così attenta al “selvatico” dentro e fuori di noi. Si tratta di un sistema di pensiero che, muovendo dall’attribuzione di valore intrinseco ad ogni elemento della Natura presso varie culture primitive, rappresenta la realtà come una rete di comunità ecologiche interdipendenti e considera l’Uomo alla stregua di uno dei tanti componenti della trama della vita.
Non per nulla molti componimenti sono affollati di animali selvatici: s’incontrano marmotte, cervi, gheppi, allodole, gracchi, corvi… Creature necessarie all’Umanità, hanno contribuito a formarla nel corso di milioni d’anni, e la nostra biofilia, come ci ha insegnato Edward Wilson, nasce da quella lunga coesistenza. Vengono ammirati per la loro bellezza, libertà, purezza, energia di sopravvivenza, capacità di autosufficienza. Hanno uno strano potere nei nostri confronti: mantenendosi nella purezza, contribuiscono alla nostra salvezza, c’è un legame invisibile che ci unisce ad essi: “Sfreccia il gheppio ansante / rade la terra / forse attizza la fiamma che in certe ore t’investe / poi arruffa la cuticola verdebruna / che osserva il tutto / dentro il tutto / che è fuori di te”. (Sfreccia il gheppio). Gli stessi animali domestici non sono assenti: si vedono emergere le vaches tarines et abondances insieme ai loro placidi pastori, e poi cani operosi, petulanti galline.

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Più volte, ma tutto svolto sul piano della perplessità critica, si affaccia il tema della crescita economica a tutti i costi, mito a volte delirante, sintomo di una nuova religione laica. L’animalità selvatica, in questo caso i gracchi imperiali, osserva tutto ciò con senso di sbigottimento, come dall’alto di una maggiore consapevolezza: “Appesi o tesi nell’aria / folli con occhi sbigottiti / docili ancora del verde e del blu, / ma come spiegare / questo nostro volere a strappi e sempre di più?” (Giostra degli imperiali). È un grido di smarrimento quello che sale dai versi “Cos’altro si prospetta nelle città senza fine / e ibridamente si progetta / nell’omogeneizzante disidentificante spazio?” (Vivificante OM). E dello stesso tenore, ma raccolti in un afflato lirico, sono i versi “Ogni anima non avrà cuore / interminato ci travolgerà questo furore” (L’exemplum dei semi). Dell’insensato mito della crescita si giunge infine a svelare l’antropocentrismo di fondo: “Oggettivamente in verità / non possiamo andare avanti / procedere così all’infinito / dare, con la gruccia dell’orgoglio, / la scalata al cielo” (Scalata al cielo).

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Di fronte allo scempio non si può rimanere del tutto passivi, prigionieri dell’indifferenza. Un atto d’amore diventa necessario per evitare che la pulsione di morte deflagri sui luoghi di gloria e di idillio, gli stessi che la poesia tenta disperatamente di salvare. Pier Paolo Pasolini lo afferma in “Saluto e augurio”, un componimento contenuto in Nuova gioventù. Da tale testo rivelatore sono tratte le citazioni impiegate con particolare spicco in Convergente armonia e segnalate dalle virgolette basse: “«difendi i paletti di gelso, di ontano, / in nome degli Dei, greci o cinesi»”, così come “«muori di amore per le vigne. / Per i fichi negli orti. / i ceppi, gli stecchi…»”. E ancora: “«Difendi i campi tra il paese e la campagna, / con le loro pannocchie abbandonate. / Difendi il prato», «Difendi, conserva, prega!»”
Per evitare che tutto scompaia trascinato nel gorgo nullificante, occorre una solidarietà d’uomini, stretti da una comunità d’intenti. Essa si è materializzata nel cuore della Val di Susa, in una parte di popolo da sempre contrario ad un’opera di rapina: la Torino-Lione. Due intere sezioni, Disgregamento e Madeleine sono ad essa dedicate. Se la prima è scritta nel segno di Eugenio Turri, in quanto la geologia è qui vista come “motore pulsante della fine”, come apocalisse ventura che riduce tutto a roccia petrosa, a polvere minerale, la seconda è un catalogo d’immagini brevi e fuggevoli che raccontano la fine drammatica di quella che fu definita, con una certa enfasi, la “Repubblica della Maddalena”. Sono luoghi testuali in cui si raggiungono forse i maggiori picchi di intensità metaforica e analogica: “Straniti gli origani / inebetite le care mentucce / nel flagellato ciglio / troppo aspro fu lo squasso / per un nascente giglio” (Straniti gli origani). Ma se la Storia risulta ancora una volta immedicabile, lo spazio della psiche si offre come compenso di liberazione: “Avrei bisogno / assolutamente di rinascere / ricentrandomi disindentificandomi / da ogni norma e azione / premeditazione caotica / alla liberazione” (Avrei bisogno).

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Una sezione del libro è dedicata al tema delle rovine, perlopiù casematte usate dai militari nelle due guerre mondiali, stalle e baite di ricovero usate un tempo lontano dai pastori, ormai frante e vinte dalla potenza degli elementi. Il fascino che esse irradiano consiste tanto nel fatto che un’opera dell’uomo possa esser percepita come un prodotto della natura, quanto nella vista della vegetazione capace di ricoprire quelle vecchie rovine dove le marmotte vi scavano le loro intricate tane. Le rovine sono qui considerate come una sorta di immagine dialettica: da una parte sono una ammonizione di ciò che la surmodernità (Mar Augé) ci potrebbe riservare: ovvero la perdita, la distruzione; dall’altra sono stimolo alla ricostruzione, volontà di reazione, alimento vitale per una nuova creazione. “Non toccate quelle rovine / prima che le marmotte vi s’annidino scivolando nell’oscurità / raggomitolate in un angolo dimenticato dal mondo / non toccate quelle rovine“ (Non toccate quelle rovine).

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Dopo la lettura di una raccolta poetica di Winfried Georg Sebald, intitolata Secondo natura: un poema degli elementi, l’autore ha sentito il bisogno di scrivere l’ultima sezione del libro, dedicandola alla figura di un eretico valdese, Giovanni Sensi. Utilizzando i verbali del processo inquisitoriale, scoperti dall’autore stesso presso l’Archivio di Corte di Torino, vi si raccontano gli ultimi giorni dell’eretico prima della condanna al rogo, con riferimenti ai luoghi più belli e significativi della valle di Susa: l’Ospizio dei pellegrini al Moncenisio, la Cappella di sant’Eldrado a Novalesa, la Precettoria di sant’Antonio di Ranverso e la Sacra di san Michele, di cui viene ripreso il racconto leggendario della fondazione. Il testo alterna uno stile che mima la prosa a momenti decisamente lirici ed evocativi. L’eretico valdese appare come colui che ha saputo muovere una sfida al pensiero unico e dogmatico, rischiosa realtà sempre operante nella Storia. Ma anche come colui che, morendo, vuole congiungersi con il tutto, ricomporre l’armonia con il creato. “Eppure non è ancora sera, / ma nel cielo non vi sarà stella che brilli, / viaggio eterno di cometa / luna che spanda candido raggio […] / E allora mi alzo, dispiego le ali / e volo alto a provare una nuova appartenenza / attendetemi dolci elementi, sarò sempre con voi” (Giovanni Sensi XI).

Marco Sguayzer

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