PREFAZIONE

Per Davide Riccio l’eclettismo è la dottrina più congeniale. La composizione dell’eterogeneo e l’accostamento del disuguale per marcare sia le differenze sia le relazioni analogiche: è su questa tipologia di intervento che la parola poetica di Riccio si è affinata negli anni. Di anni d’affinazione dobbiamo contarne più di dieci, visto che nel 1996 Riccio ottiene un inserimento su Vernice n. 4/5 come autore già definito, con una decuria poetica bene organizzata e compatta. Parte di quei dieci testi si ritrovano qui, riproposti e riconfermati dall’autore, nell’identica ideazione di due lustri prima – penso a esempio alla poesia A mia madre, che apre il libro. Su altri testi, invece, l’autore non ha trascurato di lavorare per ottenere un accrescimento in densità e in ampiezza – penso a esempio alla poesia Prendere un treno, cui sono stati aggiunti l’ultimo verso della penultima strofa e tutta l’ultima strofa. Queste considerazioni sono utili a farci capire che la poesia di Riccio è lavorata con puntiglio; è ruminata negli anni, sottoposta a processi di perfezionamento progressivo; come il cantiniere lavora lo spumante, e anche dopo averlo sigillato in bottiglia opera il remouage delle bottiglie per ottenere un affinamento ulteriore, anche il poeta realizza opportuni spostamenti di versi già sigillati in una visione poetica conclusa e ne ottiene un risultato di miglioria testuale.
L’ecletticità di Riccio si realizza anche a monte dell’evento creativo e risiede nella pluralità dei suoi interessi artistici. Non va scordato che egli è musicista e cantautore, e lo è a un livello di impegno e di risultati che trascende il puro diporto dei dilettanti. Anche in musica la sua cifra è la pluriprospetticità degli strumenti e delle espressioni stilistiche, ma l’intreccio di fondo delle sue composizioni è un pop-rock, definito dal modello di David Bowie e David Sylvian, due miti della musica che sono per lui maestri riconosciuti ed eletti. La coabitazione del poeta con il cantautore ha favorito nel Nostro un intreccio poetico da paroliere, e cioè funzionante per aree analogiche, dai fili enigmatici e dai significati pluriespressivi, vistosamente marcato da un ritmo metrico interno – sappiamo che Riccio ama moltissimo il tatantatà dei treni che rotolano sul binario – sovente anche manifestato esteriormente, con l’insistenza di rime quasi canterine, di assonanze dirimpettaie a scoppio plurimo, come matrioske incastonate le une nelle altre ovvero con l’adozione di veri e propri ritornelli, cioè dell’antico e sempre valido rondeau, la ripetizione ecolalica di un gruppo versale, che è utilizzata nel minuetto del Settecento come nel rock del ventunesimo secolo. Se in musica l’impianto di base del discorso polifonico fa riferimento al pop-rock, in poesia l’orientamento di Davide Riccio si è definito sul versante della neoavanguardia, cioè collima con quell’area di sperimentazione poetica che prende le mosse dalle esperienze del Gruppo 63 e dei Novissimi, per intenderci Sanguineti, Pagliarani, Balestrini, Porta, Giuliani, Eco e altri. La fucina di elaborazione poetica è influenzata dalle teorie del marxismo critico, del pensiero fenomenologico, dell’induttivismo, dello strutturalismo e più di tutto dalla sociologia delle comunicazioni di massa. Proprio questa ultima ha finito per rappresentare la priorità delle riflessioni teoriche e del pragmatismo sperimentale in tutte le neoavanguardie, e anche, nel nostro caso, in Davide Riccio. L’urgenza sta nel trasmettere, nel comunicare, nell’inviare il messaggio, talvolta anche volutamente ironizzato in termini di semplice sms: nel flash di comunicazione c’è il volto dell’uomo moderno e il marchio della civiltà evoluta. Se le avanguardie dell’ultimo settecento si beavano di libertà borghesi e di democrazia, le avanguardie del primo duemila si beano di messaggi espressivi e di comunicazione. Bene, la poesia post-neoavanguardista riflette questa fondamentale presa di coscienza del fatto sociale: comunicazione è socialità, civiltà, vita. Fuori della comunicazione, c’è la barbarie, che si veste di ideologia vuoi borghese vuoi di proletarismo acritico. Fuori della comunicazione c’è anche la barbarie di un’ideologia tradizionalista di sinistra, capace di essere più realista del re. La difesa della comunicazione diviene tanto più marcata ed efficiente, quanto più il messaggio è poliespressivo, esplodente, frattalico. Davide Riccio è precisamente schierato su questa linea di frontiera della modernità. La sua è ovviamente una poesia della ragione, nel senso che non si affida ai buoni sentimenti, alle emozioni lacrimose, alle ansie e ai tremori dell’animo. La poesia per lui è sempre logos, non è mai pathos. La formula semplificata all’osso è che poesia è sempre un fatto di buon cervello, ma non necessariamente di buon sentimento. Ma se la poesia nasce e si alimenta nel cervello, allora il dubbio, il possibilismo, il relativismo voltairiano sono i suoi primari alimenti, rappresentano l’humus e i concimi fondamentali di cui si nutre. Quindi, c’è l’ironia. Infatti, l’ironia è sempre al centro del discorso poetico di Davide Riccio. Il discorso di Riccio è irreversibilmente ironico, antifrastico, aporetico, icastico e figurativo. La raffigurazione del mondo è continua: il poeta ci racconta sempre la realtà che si vede, perché il poeta vive nelle cose e racconta le cose del mondo, cioè quelle che vedono anche gli altri. Ma il poeta vede un maggiore collegamento delle cose fra di loro, e ci racconta i legami che gli altri non notano. La visione del mondo è sempre icastica, svelta, efficace, incisiva, simbolica, analogica. Il mondo è per sua natura disordinato e contraddittorio: il poeta ci racconta il disordine del mondo, ci fa prendere confidenza con il dubbio, con la contraddizione, con il contrasto, con le tesi opposte, con le verità contraddette. Nell’assenza dell’ordine, la lingua con cui si descrive la verità è una lingua babelica, costituita dai contributi più disparati. Ma la stessa verità è una non-verità, un accomodamento temporaneo e parziale, una proposta di mediazione, incrinata dai dubbi, gioiosamente illuminata dall’ironia. L’ironia è la fonte della gioia nel mondo: si partecipa alla pienezza del mondo sviluppando l’ironia, dio non c’è, ma se ci fosse sarebbe ironico.
Forse, proprio dall’ironia, così centrale e fondamentale nell’intreccio poetico di Riccio, conviene partire per ancorare i suoi contributi alla tradizione poetica, che è bene presente e sviluppata nell’educazione al gusto del Nostro. Per esempio, incominciamo col dire che vi è tanta parte di ironia crepuscolare, gozzaniana e corazziniana e non solo, in quel definire in tono minimalista la poesia, il non essere poeta, o l’esserlo in un modo da povertissement. Pensiamo a testi come In via Davide Riccio ovvero Il riccio ovvero Siamo poeti su internet, che sono di evidente eco crepuscolare, di aperta intonazione ironica, specie la prima poesia non a caso dedicata a Ernesto Ragazzoni, caro amico di Guido Gozzano, autore, fra l’altro degli irresistibili versi C’erano prima l’acque / poi sopravvenne il dotto / e allor come a Dio Piacque / si ebbe l’acquedotto. L’Inno al linoleum, invece, ha ascendenti palazzeschiani e futuristi, perché richiama l’ironia irresistibile, ma anche riflessiva e amara, di Palazzeschi e la coniuga con il furore epico di Cavicchioli e del suo Inno all’aeroplano. La stessa amara ironia riflessiva ritroviamo in Ciò che ugualmente passa, che ci dice del poeta che diffonde con un soffio – il celeberrimo pneuma dei filosofi greci – il seme del soffione di tarassaco, in luogo di fare figli con la sua amata. L’ironia del seme disperso a fecondare l’aridità del mondo viene ripresa più volte, come nella splendida poesia ispirata ad Andrea Zanzotto, Ho tanto soltanto seminato. A volte, l’ironia si trasforma in vera e propria farsa che può raggiungere esiti anche irridenti, come accade nella trasfigurazione della Pioggia nel pineto di d’Annunzio, che diviene La pioggia nel piloro, cioè diviene la descrizione del metabolismo digestivo dei prodotti naturali derivanti dalla visione panica del mondo; oppure come accade nella poesia delle poesie, cioè nella poesia per antonomasia, ossia nella madre di tutta la poesia moderna occidentale, L’infinito, che viene tradotta in grammelot, nella lingua comica per antonomasia, ottenuta assemblando un lessico che non esiste e che galleggia nell’effimero di una presunta tradizione orale. Ma l’ironia di Davide Riccio consiste anche nella scelta del linguaggio poetico: egli sceglie un linguaggio antipoetico, perché scientifico, matematico, tecnico. E se è vero che la poesia lirica, dal tempo dei greci a venire a oggi, ha sempre preso a simbolo erbari e bestiari poetici, costruiti selezionando con severità fiori e animali cui conferire cittadinanza lirica – acanto, anemone, clizia, leone, cervo, delfino, etc. – ecco che Davide Riccio fa esplodere nei versi una tassonomia scatenata e puntigliosa in grado di rintuzzare l’acribia del più pignolo biologo: anche in questo caso siamo di fronte a un intento chiaramente ironico, quello di mettere a nudo il perfezionismo di una competenza simbolica d’accatto e di maniera, che però, quanto meno in tempi passati, la faceva da padrone in questioni di poesia. Il mondo della classicità è lo specchio della modernità; il classico rappresenta l’infanzia del mondo; e se è vero, come dice Pascoli, che per essere poeti bisogna sapere conservare qualcosa di infantile per sempre ossia bisogna imparare a vivere in un tempo e in un modo che infrange i compartimenti stagni e sequenziali dell’età, allora per essere poeti moderni occorre conservare l’infanzia del mondo che risiede nel mito e nella filosofia dell’anima e degli elementi fondamentali. Forse, per questo motivo Davide Riccio ci parla di Eraclito e a sua volta si tuffa Nel fiume che passa sempre diverso e sempre uguale e ci presenta situazioni, personaggi, luoghi topici della classicità e del mondo lirico aureo, anche se ce ne parla sempre in termini mirabilmente moderni, agganciati all’esperienza trasfigurativa dei grandi simbolisti, impressionisti e cubisti del novecento, come accade per il mito di Venere nascente dalle acque del Mar Egeo che diviene una caffettiera senza manico che emerge dalle lenzuola del suo letto.
La poesia di Davide Riccio è un esempio riuscito di narrazione descrittiva del mondo moderno in chiave di un autobiografismo trasfigurato e simbolico della vita del poeta, che si rende l’Ulisse metropolitano della civiltà della comunicazione – forse, per la pena del contrappasso, dovremmo dire che si rende Argo, il cane di Ulisse, visto che il cane del poeta moderno si chiama già lui Ulisse. Lo stile diviene allora quello di un linguaggio esplosivo e frattalico, che si moltiplica e si scompone in modo indeterminato in una quantità inenarrabile di possibilità espressive, ma al centro dell’intreccio poetico rimane pur sempre il contorno e la definizione della realtà, l’architettura arrischiata di un mondo i cui confini sono sempre più fragili perché corrosi dalle crescenti possibilità di espansione verso l’esterno e di implosione verso l’interno.

Sandro Gros-Pietro

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