PREFAZIONE

La poesia di Walter Chiappelli rifugge dall’unicità di un solo timbro definito e trova pienezza in una nozione allargata di pluriespressività, le cui intonazioni principali si manifestano nel mistico religioso, nello straniamento onirico, nel simbolismo e nel surrealismo, nella testimonianza civile e politica, nell’epica familiare, nel lessico confidenziale della conversazione amicale o di conforto. Chiappelli spazia liberamente fra questi registri poetici come un virtuoso musicista passerebbe dal pianoforte alla chitarra e alla tromba, ogni volta cercando la specificità sonora competente al nuovo strumento valorizzato con l’adozione di un linguaggio musicale sempre nuovo e sempre differenziato, ma anche senza mai perdere l’unicità del motivo compositivo ossia l’idea di un’architettura organica del discorso, del quale ogni registro rappresenta solo una delle tante coniugazioni del mondo, sempre condeterminate da tutte le altre che interagiscono a fianco. L’idea che sorregge il mondo è la fede di partecipare ad un evento unico e miracoloso: la vita. Vita carnale e vita spirituale, come si evince dal titolo, le quali sono forme declinate dell’effimero e dell’eterno, ma non sono così contrapposte come lo sono la caducità e l’eternità, perché la carne e lo spirito sono entrambi vicini e presenti nell’hic et nunc: davanti alla ragione e alla coscienza umana, sono loro a dare notizia di ciò che si consuma e di ciò che resta. Il poeta è, dunque, un Mercurio sempre in cerca delle notizie del mondo. Raccoglie le orme della carne e dello spirito che soffiano sulle acque e che accendono la vita nelle due espressioni, di evento passeggero e di fondamento perfetto della creazione del cosmo. Gli eventi passeggeri si rinnovano ciclicamente, nell’avvicendarsi delle stagioni e, più in generale, nella fabbrica delle nascite e nel logorio delle morti che tutto arrovella e che tutto instancabilmente riproduce. Il fondamento eterno si realizza nell’infinito ripetersi dei cicli, che si proietta nell’idea perfetta di creazione al di là del qui e, quindi, oltre i confini della ragione, ma che non è riscontrabile dalla percezione dei sensi e che neppure è conoscibile dall’elaborazione della mente. Il poeta raccoglie simulacri, abbagli, visioni mistiche, illuminazioni, rivelazioni, cronache circostanziate ma incomplete, notizie alluse, echi evanescenti, barbagli e balbuzie, nozioni scientifiche, formule esatte, reliquie del mosaico, estasi ed incantamenti, traumi e strappi, olocausti e sacrifici, supremi eroismi e tenebrosi abissi, stoiche abnegazioni e sviamenti iperbolici: il foglio di carta del poeta tutto registra, come nastro di Möbius, rende conto dell’infinito alitare della carne e dello spirito che qui si consumano e che qui denunciano con evidenza la loro incommensurabile eternità e gli invisibili confini del loro infinito modo di essere. Qui c’è il seme di ogni emozione, di ogni perdizione e di ogni salvezza; e il calamaio del poeta è il seminatoio che lo sparge sulla pagina bianca, cioè su quel tal bianco foglio che torna così sovente nelle percezioni incantate di Chiappelli, come fosse il luogo dei miracoli, il tabernacolo che serba la pisside delle particole consacrate, ma che, per altro, potrebbe anche essere semplicemente mutuato dalle stupende allucinazioni e nevrosi che Stephane Mallarmé aveva per il foglio di carta bianca.
Ciò che marca in modo originale la poetica di Chiappelli è il suo tentativo di avvalorare l’opera del poeta in chiave dantesca di visione del divino: il poeta vede il disegno di Dio, nel senso che arriva ad intuire l’architettura del mondo, ossia la verità profonda e fondante di ciò che esiste. L’occhio del poeta è tale da resistere ai barbagli diffusi delle occasioni – come lampi e dediche, ci verrebbe voglia di dire per evocare montalianamente il tal libro Bufera ed altro, sulla cui copertina la gatta di Chiappelli poggia il capo per assopirsi con maggiore agio. Il poeta, invece, riesce ad avvertire la perfezione della luce superiore che illumina l’uomo, certo non con l’opulenza poematica della suprema visione cantata a conclusione del Paradiso, ma in modo tuttavia convinto e chiaro. Per sdrammatizzare scherzosamente l’inevitabile scarto secolare che corre tra Alighieri e Chiappelli, ci sia concessa l’amicale ironia di annotare che solo il Fiorentino godette della perorazione di San Bernardo alla Vergine e che a nessun altro poeta venne mai accordata una tale commendatizia ecclesiastica collocata in sì alto loco, tale da procurare addirittura la piena visione di Dio ad un mortale. Ciò che qui occorre annotare, con ogni rispetto e fuori da ogni celia, è la funzione meta-letteraria svolta dalla poesia; funzione che Chiappelli da più tempo sottolinea e sviluppa, con coerenza e con coraggio, in avversità alle mode dominanti di ricerca o di sperimentazione, fieramente contrarie ad acconsentire al testo approdi o appigli al di là della testualità o comunque al di là dell’orizzonte conchiuso ed autonomo del linguaggio, sia pure complesso ed articolato in pluriespressività artistiche, ma purché sia sempre riconducibile ad un affaire de beaux-arts e mai sconfini in un avvistamento del divino, che farebbe scattare, nella convinzione egemone della critica moderna, i confini del credo religioso e quindi rinchiuderebbe automaticamente l’opera nel ghetto della letteratura confessionale, ritenuta una sottocultura, ammorbata da pregiudizi e da superstizioni, e ritenuta in ritardo storico rispetto a quella laica, chissà poi perché, visto che quella laica è sorella minore di quella religiosa. Vale la pena di mettere a segno, dunque, un ulteriore punto obiettivo a favore di Walter Chiappelli: egli non è un poeta che tenga in alcun conto le mode imperanti degli intellettuali e dei poeti del suo tempo. Ma ciò non significa che la poesia di Chiappelli sia anche metastorica. Al contrario, il suo viaggio poetico prende sempre le mosse da una connotazione di luoghi e tempi bene definiti e radicati nella modernità quando non addirittura nella cronaca dell’attualità, ma poi finisce per superare la specificità del contesto da cui è partita ed approda ad una soglia di generalità o meglio ancora diremo che il poeta sa cogliere in ogni elemento specifico della realtà che egli analizza l’orma di una sopra realtà che tutto sottende sotto di sé. Si guardi, ad esempio, lo stupendo testo L’immenso bacio che trae le mosse dall’osservazione di una giovane coppia che si scambia un gesto di amorosa tenerezza e basti confrontare il primo e l’ultimo verso della pure breve poesia per rendersi conto dell’arcobaleno tracciato dal poeta tra la terra e il cielo nell’atto di coniugare insieme, all’inizio, I due giovani stretti e, alla fine, la potenza celeste dell’oblio, dove quell’oblio agita in sé l’eco del Lete, il fiume collocato da Dante nel paradiso terrestre. Del resto, ad agganciare la poesia di Chiappelli alla cronaca dei tempi suoi basterebbero già i non pochi testi che qui si ritrovano dedicati ad amici o parenti, in speciale modo ai fanciulli cui il poeta si rivolge per celebrare l’illibata integrità e dolcezza, come accade in Lorenzo, nella prima terzina di endecasillabi: Sei da poco nato e la tua bellezza / squilla nell’aurora dell’innocenza / tua, intangibile volto tutto sole. Dal lessico familiare si passa, con naturale continuità, ad una poesia che, invece, è intrigata con il simbolismo e che pronuncia le categorie ideali denotandole con le maiuscole, per sottolineare un’ansia metafisica e un intento rivelativo, come si riscontra in Oh, giovinezza, nella quartina finale di endecasillabi: Nella carne dell’Amore passò / la gioia misteriosa dell’Essere / vi passa ancora inesauribilmente / inebriando il Cuore oh giovinezza. Confinante con il simbolismo, in una posizione di straniamento dalla realtà, è l’osservazione di sé che il poeta compie come occasione rivelativa di un momento magico, di contaminazione tra la vita e la morte, e capace di dare conto di una verità superiore, come accade nel testo Il moscerino, già apparso insieme a molti altri qui citati, su Vernice n.° 27/28: Ecco è venuto un moscerino / a morir nel mio occhio; / questa fragile furia l’ho sentita / rabbrividire sotto la palpebra / di colpo chiusa. Nella stessa prospettiva di straniamento, cara non solo agli scrittori simbolisti, ma più ancora ai pittori impressionisti, mutando l’osservazione di sé in osservazione di un soggetto altro, si colloca il testo Incinta, raffigurante come in un quadro en plein air(“dove la luce non è più unica e si verificano effetti multipli”t;, scriveva Émile Zola a proposito degli impressionisti) una donna ancora gravida o, forse, una puerpera già pronta all’allattamento del suo piccolo: Tanta bellezza corporea diffonde / negli occhi nostri il rito della grazia / presto vagito sacro; / e in sé si gode tutta la Speranza. In tutte queste situazioni appare sempre palmare l’intento denunciato dal poeta di fare della poesia uno strumento rivelativo di verità non pianamente descrivibili, ma solo intuibili per magia, per incanto alchemico o per rivelazione.
Un’importanza particolare assume nella poesia di Walter Chiappelli l’intonazione mistica, che trova splendenti ascendenti in Giovanni della Croce e in William Blake, e particolarmente in quest’ultimo, la cui importanza poetica solo recentemente è stata appieno valorizzata come ideatore di una poesia non mimetica e non descrittrice del mondo, ma, invece, creatrice e rivelatrice, cioè rivolta all’eterno e capace di superare lo schermo dei fenomeni occasionali che ci bombardano con immagini e con suoni. Sono indubbiamente di concezione mistica i versi dell’incipit di Nel regno dei cieli: Già da vivi siamo nel regno dei cieli: / la vista eterna del cosmo ci tiene / in sé ora e dopo: Energia possente. Ancora più appropriata, in termini di visione mistica, sembrerebbe la citazione di alcuni versi di Non mi rassegno, quelli della terza strofa: Sto ascoltando il leggero soave vento / che appena fa oscillare il silenzio / divino delle rose profumate / qui, reale bellezza rara pace: / Un bagliore di tregua. Ma la citazione più completa deve essere la poesia Concordia, nei cui versi Chiappelli accenna alla sinestesia esitente tra la parola poeta e quella profeta, il quale ultimo parla per conto di Dio, mentre il primo, si sa, cerca una collocazione del proprio io nello specchio dell’umanità: L’immenso silenzio parla Dio / all’ascolto materiato di tempo, // lo intuisce lo ricama il PrOfETA / sull’ordito brulicante del mistero… Giova ricordare che questa poesia, non a caso, è dedicata a Franca Alaimo, poetessa siciliana autrice, fra l’altro, del poema di mistica lirica intitolato Samadhi, cioè estasi, amica e corrispondente poetica di Chiappelli. Forse, anche in questo omaggio in versi rivolto ad altri poeti – è opportuno ricordare anche quello offerto da Chiappelli a Giorgio Bárberi Squarotti – si può vedere un apparentamento alla lontana con quanto si iniziò con il simbolismo di Mallarmé, per cui la bellezza della poesia divenne intemporale e sempre più venne confusa con la poesia stessa e sempre più venne destinata agli stessi poeti, per cui si assistette ad una catena di poeti-scrittori che si rivolsero, in cerca di destinatari privilegiati, alla stessa catena di poeti-lettori. Basterebbero già queste semplici considerazioni per svelarci quanto sia fondato e fondante lo studio letterario che sta a monte dell’ingegno poetico di Walter Chiappelli, ma non è questa la sede per ricostruire la collocazione e il ritratto d’autore, che del resto emerge da sé, già chiaro e delineato, all’indagine di un lettore innamorato di poesia e non necessariamente poeta anch’egli.

Sandro Gros-Pietro

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