I CONFINI: ORRORE E RITROVATA TENEREZZA

Fino attorno alla metà degli anni ’90, la storia della poesia di Carlo Molinaro si può configurare entro un’orbita (neo) crepuscolare, com’è stato suggerito da Giorgio Bárberi Squarotti; di attenzione ai fatti e ai paesaggi minimi del quotidiano, con particolare risalto di fatti erotici, il tutto vissuto con un’allegria lievemente malinconica, com’è proprio dell’uomo cólto del Novecento, dopo che, dalla «triade del sospetto» in giù, i filosofi hanno una volta per sempre destituito di fondamento le illusioni e presunzioni di attingere una «verità» assoluta; con una svolta nell’ultimo tratto, costituita da Quaranta frammenti per Monica e da altre brevi raccolte a quell’altezza cronologica, di netta tragicità, occasionata dalla morte di una persona amata, pur continuando a celebrare, di questa, gli aspetti più contingenti, terra-a-terra, socialmente poco «presentabili», come l’eredità più preziosa.
Esauritasi (apparentemente) l’occasione del tragico, la successiva produzione di Molinaro riprende un tono più lieve e sempre in gran parte diaristico, con uno stagliarsi di figure femminili più o meno tratteggiate, e un panismo naturalistico che quasi ne è sfondo, ma nel contesto di una pensosità più diffusa, che non può non riflettersi sullo stile, ora orientato a una più complessa architettura sintattica e ritmica, dove sembra di poter dire che la morte proietti una sua impronta e una lunga ombra, diversamente dalle liquidazioni con qualche ironia e un poco sbrigative dei libri degli esordî. Ma la poesia degli anni più recenti di Molinaro sembra incorporare una nuova svolta più radicale e dirompente, di cui questi Rinfusi sono una testimonianza molto incisiva. È intanto, a un primo livello, la rinuncia a una dizione di eclettico e depotenziato classicismo, crepuscolare appunto, a favore di una vera quasi-prosa, che non esclude vasti inserti di versi metricamente regolari, sebbene spesso dissimulati, né inserti di lirismo sorretti da una ricca e ardimentosa capacità metaforica, che sempre ha caratterizzato Molinaro («[…] sono fiamme / o è l’ultima saliva del crepuscolo / che asciuga dentro i pori della terra?»), ma più largamente si apre al parlato, a una meno stringente grammatica, ai non nettati vocaboli.
Ancóra l’andatura rimane di diario («Mi sono seduto un momento / nei giardini di piazza Peyron», «Il salone dei parrucchieri cinesi / è una semplice stanza quadrata e c’è gente», «Sorseggio da solo / una cocacola»), e non manca una già nota intervallante scherzosità, ma l’assunzione di una tendenziale quasi-prosa si rivela funzionale a un «problema», la cui soluzione sta a cuore a Molinaro nel nuovo corso della sua scrittura. Solo una scelta stilistica di dilatazione, di non-concentrazione, di moderazione delle impennate liriche, infatti, consente di assumere nel corpo dei testi una pluralità di posizioni di fronte alla vita, o, più precisamente, anche le posizioni dell’altro o degli altri da sé, che nelle prime raccolte poetiche e, con qualche cesura, nelle successive, restavano eluse nel «monolinguismo» dell’io poetico con cui Molinaro esprimeva con vibrante convinzione le sue idee «controcorrente», «fuori dal coro».
Si scopre ora che la morte, la fine, è stato l’oggetto or­rido che da sempre ha «costretto» Molinaro ad approntare una sua personale difesa: il trattenimento illimitato nella me­moria dei momenti di gioia o di calma, contemporaneamente non a una rimozione, ma a una consapevole messa fra pa­rentesi della morte stessa (quanto lancinante sia il dolore di quest’oggetto, è dato vedere qui in poesie come la commossa Colombo).
Pur criticando il «maledettismo», Molinaro ce ne diede spesso una versione potremmo dire educata, ma fortiter in re, nella sincera proclamazione di uno statuto alto (proprio nella sua «minimalità») del suo sentire di poeta, avversato dalla communis opinio, dalla dóxa, borghese ma anche antiborghese. Un sentire di poeta, le cui conseguenze pratiche non trovano, né possono trovare, accoglienza tra la moltitudine degli uomini che poco sanno guardare e poco, infine, salvarsi (si veda in questo libro Little entr’acte). È ora più confesso il carattere reattivo e difensivo di questa poetica.
Ma in che cosa consistono (consistevano) le conseguenze pratiche che la particolare difesa dalla morte procurava all’autore sulla scena sociale, tante volte descritte e deplorate nei suoi libri numerosi? Non sarà inappropriato parlare di uno scontro dimensionale. Allontanata mentalmente (anche se non rimossa) la morte, il confine supremo, altri confini chiedono di cadere, di essere travolti. L’orrore dei confini, della finitezza e delle fini, è la marca distintiva del trentennio di scrittura poetica di Molinaro.
I confini posti dal tempo (il destino di svanimento dei singoli episodî di conoscenza e di felicità o di serenità) trovano un potente abbattimento in una disposizione naturale della memoria di Molinaro, a conservare in aeternum il ricordo degli amati, soprattutto di ogni amata, rafforzato dalla poesia, che durevolmente li fissa. Nel che c’è qualcosa di faustiano in radice (non si può non pensare al «Férmati, attimo, sei bello!»), ma non di diabolico poiché nessun potere sugli esseri viventi interessa a Molinaro, ma solo una vittoria in vita sulla morte, sul passare, sul divenire.
Ma se il divenire in generale è vinto dalla memoria e dal ritratto poetico, il divenire parziale di sé, dell’uomo Molinaro, non è altrettanto da vincere, ma, al contrario, da assecondare, perché altri sono in questo caso i confini aborriti, quelli spaziali, quelli dell’io, quelli tra io e mondo (cfr. Tempo e spazio). «Sensibile alle foglie», all’avvicendarsi dei paesaggi come all’avvicendarsi, sulla sua strada, di incontri con soggetti femminili, Molinaro trova immorale selezionare, scegliere «un eterno» anziché «una pluralità di eterni» (che tali, almeno ottativamente, si costituiscono in forza della memoria e della poesia che all’esterno la divulga).
La pluralità delle emozioni, allora, suscitate dai plurali soggetti femminili (ma anche, benché in misura molto minore, maschili), ulteriormente espanse a un livello cognitivo da un’inclinazione – dice Molinaro – alle fantasticherie (che certo è avvertibile anche come coazione – e si veda per esempio Martina Leskovská –, salvo che poi non sarà troppo da obiurgare in nome di una «obiettività» che, come si è visto, risulta ormai impraticabile, checché ne pensino i nuovi realismi e le nuove ontologie), non può che cozzare, e talora anche violentemente, col sentire «comune» nel momento in cui la scelta innanzitutto linguistica – e poi anche pratica – di Molinaro le qualifica come «amori», autorizzando un’aspettativa di corrispondimento, di compiacenza quantomeno, da parte dei soggetti femminili di cui Molinaro si emoziona e ritiene d’innamorarsi. Il che non sempre accade; e, d’altra par­te, quando accade diventa oggetto di riprovazione, variamente motivata, da parte di una «collettività». Che sul freudiano principio di realtà si regge, motore di evoluzione per la specie, e subentrante al dispersivo principio di piacere: una dialettica pulsioni/coscienza che in questo libro, ed è cosa nuova, può affacciarsi in modi non necessariamente polemici.
Viviamo in una koiné logico-linguistica che ancóra, nella parte più vasta di una «collettività», fa riferimento all’impianto fondativo di Platone, per il quale l’amore tende verso un’unicità di oggetto. Ma, anche a prescindere da Platone (imploso in toto se non altro nelle avanguardie del pensiero), ci potremmo chiedere, come interpreti, come mai Molinaro, sicuramente assillato nell’intimo delle sue fibre dal tempus edax omnium, accetti ciò che in ultima analisi torna come vittoria dei tempi finiti, della resecazione fra il tempo offerto ad A e il tempo offerto a B, e via continuando. Non l’offerta s-confinata a un unico soggetto, ma una parcellizzazione, e quindi il ritorno dei confini, del tra-passare.
Il fatto è che Molinaro, come si diceva, è tetragono nell’opporre il suo «no» ai confini dell’io, a quei confini insomma che, a parte quello supremo della morte, più lo op­primono (si veda, con la solitaria catarsi finale in una capsula viaggiante, Una lettura di poesie a Erli). Ma dicevamo anche di una novità che questo libro ci segnala, in qualche mi­sura già precorsa dalla precedente raccolta, Una città, che si dovrà ora precisare come dato di fatto, non meramente stilistico, sia pure ancóra un poco in sospeso tra passato, presente e futuro della storia poetica e umana di Molinaro.
Carlo Molinaro giunge, qui, a una consapevolezza nitida di un «problema». Il tragico, che si affacciò una volta, e decisivamente, come materiale concreto (e creaturale), di­venta ora condizione interiore, posizione di un «discorso dell’altro» che non può più essere orgogliosamente accantonato come negazione della poesia. Non ingannino le non rare ar­guzie, l’attrezzeria clownesca. Sopprimere continuamente i confini dell’io, vuoi quando ci si accanisce nel coltivare, o nel tentare di coltivare, plurimi amori nello stesso (ma in realtà, s’è visto, non nello stesso) tempo, vuoi quando le fantasie sulle donne amate esondano senza «far ritorno» alla realtà, o, meglio, a quella media o de minimisoggettività che richiede il vivere concreto, non appare più, in Rinfusi, il gesto pacificamenteatto a garantire la poesia, sia nel senso letterario-tecnico, sia in quello traslato di vita improntata alla poesia piuttosto che all’aridità e al banale di uno heideggeriano «si» dice.
La «realtà», la media oggettività condivisa che non può fare a meno dei confini, rivendica le sue ragioni e queste non sono più eluse da Molinaro, ma presentate in un dráma, sempre rappreso in figuratività (e penso allora a Cavalcanti al di là dell’abissale differenza di timbro), che a determinati momenti riconosce e teneramente sfiora il confine che la donna amata (e particolarmente la donna che qui campeggia nella terza sezione, ma anche in altri luoghi appare) oppone al confine – «reale», oggettivo – dell’autore: vane forse le fantasticherie, occorre apprezzare e celebrare il semplice e prosaico fare-insieme, l’imprendibilità (lacaniana) dell’altro/a, la sua opaca infungibilità, il biologico «grado zero» dell’amore (significativa in tale direzione appare una poesia come Riflessione prima delle albicocche).
La fantasia, l’oltrepassamento dei confini, sembra restituito a una più «salutare» o «salvifica» funzione: intessere e celebrare l’inesistente, ad esempio un amore non corrisposto, che è quanto occupa in prevalente misura l’ultima sezione di questo libro.
Non possiamo escludere che, un domani, Carlo Molinaro ariostescamente si determini, in poesia o in quasi-prosa o in una franca prosa, a narrare tout court fantasie di amori, senza antefatti precisi nella realtà storica. Per intanto ci consegna questo libro, che si raccomanda per l’alta tensione intellettuale che lo governa, per il vitale caleidoscopio di voci (esterne e interne) e di modulazioni stilistiche che lo anima.

Franco G. Trinchero

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