Prefazione

Nell’estate del 2012 la poetessa franco-italiana Viviane Ciampi trascorre un periodo di soggiorno in Linguadoca. Si tratta di un arco di tempo denso di significati, memorie di vita, riflessioni letterarie e altri fantasmi. Va detto che la poetessa è di origine lionese e, come il vento Mistral, ella scende per la valle del Rodano fino a incontrare il mare Mediterraneo, nell’incanto della Camargue intorno ad Arles ed altri luoghi. La vita conduce la poetessa a compiere una svolta ver­so levante: si lascia alle spalle Marsiglia e si trasferisce a vivere a Genova, ove Vedrai una città regale, addossata a una collina alpestre, superba per uomini e per mura, il cui solo aspetto la indica signora del mare, così definisce Petrarca la capitale ligure. Ma il suo cuore resta legato indelebilmente alle terre natie (Di Provenza il mare e il suol, chi dal cuor ti cancellò?). Il libro di poesia, Scritto nelle saline, è contraddistinto da un titolo proposto quasi in sordina, come se fosse più propriamente un sottotitolo ovvero una glossa a piè di pagina che funzioni da spalla alla titolazione principale, tuttavia non pronunciata: è un atteggiamento corsivo, di confidenza conviviale, una indicazione di mo­do e di metodo. Il mondo poetico che si apre sul paesaggio arioso e aprico dei grandi stagni, pennellato nei colori variegati delle saline, dal bianco, al rosa, al ver­de, all’indaco, assume i toni d’antan del surrealismo e dell’ermetismo: è un’immersione e un’evocazione nel­la grande letteratura poetica del Novecento. Sfuma l’incombenza della realtà nel riflesso di un’istanza prioritaria di definizione delle condizioni della vita e della conoscenza. Forse, anche una risalita all’origine delle cose, che diviene viaggio nella memoria personale attinente alle scelte fondanti e che diviene sublimazione ed elisione dei rapporti sociali, dei lacciuoli di compulsione stretta con le faccende minute del quotidiano. Da­vanti al sale della terra, la poetessa pare attonita, ma non smarrita. Osserva lo slancio ieratico e maestoso della natura, gli ampi spazi, les flaques de couleur, le pozze di colore, che ci danno il tempo e la dimensione di ciò che siamo, la nostra resistenza all’erosione inarrestabile della vita, il volo bianco e rosa dei fenicotteri sospesi fra mare e cielo, che decadono entropicamente perché minacciati dai cormorani, ladri di uova dal nido. La poetessa educa la direzione dello sguardo in modo tale che gli occhi si pieghino sulla visione del creato e la poesia si pieghi sulla poesia: la parola diviene evocazione delle parole poetiche della grande poesia novecentesca e la visione del mondo diviene viaggio nella memoria dell’arte e della sopra realtà interpretativa del mondo e delle sue espressioni. L’unica possibilità per il poeta è lasciare l’appunto, la nota confidenziale, la glos­sa di chiarimento, della sua totale adesione agli ar­chivi della memoria, in cui si conservano ma sempre più decadono e si allontanano le immagini del mondo: “In fondo, pensi di aderire // a questo recinto / al granaio della mente. // Osservi tutto come un’amante os­serva l’amato. / Carezzevole recluta // in sogno conti le detonazioni”. // Non accumuli tesori. / Non affili spa­de. / Non reclami con animo d’attrice / la fine della sventura”. Grande conforto trasmette la presenza dolcificante e balsamica della natura: “Ogni cosa ti chiama: / l’estate / le piante selvatiche / la nuova canzone. // Le api sui telai / s’aggrumano in gemme di pazienza / sono campi aperti, territori ignoti. // Il miele – secondo loro – aggiusta tutto”. L’umanità rimane sospesa nell’inanità di atti infantili, compiuti da vecchi che giocano a bocce: “Non serve girovagare – estenuante fiore – // ascolta le voci / dei giocatori di pétanque / intenti a tracciare cerchi / di un inizio partita”. C’è un diario in­teriore che registra i panorami dell’anima, con una lo­gica che è diversa dall’alfabeto usato nei titoli maiuscoli della storia, per cui il poeta scrive un libro dal ti­tolo corsivo, se vogliamo minuscolo: “potresti costruire piramidi di cartone / lasciare l’alfabeto umano / fiu­me convulso / deviante / troppo iscritto nella gravità”. Diviene inevitabile chiedersi il significato dello specchio ovvero della caverna platonica in cui si osservano danzare le ombre: “Che cosa guardi mentre guardi? // Le cose che ti guardano? / Le parole incontrano l’aria / si mutano in panneggio d’ombra // in forma sonora del preesistente”. E la rappresentazione del mondo diviene il circo dei clown, nei fuochi di ferragosto: “Domani accenderanno i fuochi, / accade sempre a ferragosto. // Ci sarà odore di polvere da sparo / e lassù, di sicuro, brillerà un nome. / Dalla finestra intravedi / il circolo dei nomadi – scalcinato – lo stesso di ogni anno”.
La poesia di Viviane Ciampi, nella compiutezza delle sue formule di allusione e di metafora, raggiunge l’espressione più acuta e limpida del pensiero poetico contemporaneo, mirabilmente attratto dallo scandalo della propria inanità, incapace di dare conto fino in fondo del vero e del reale in cui l’uomo moderno si dibatte, accecato lo sguardo dalle luci artificiali della cultura, per cui è impossibile schermare o liberare la vista, anche se il poeta ricorre all’estasi di un viaggio à rebours e si sprofonda nella contemplazione della natura. Poesia di altissima qualità letteraria, non solo come pensiero poetante, ma per la forma lieve e solenne della parola, sempre vivida e tremante, capace di rendersi testimonio pietoso e inesorabile della ferita umana di esistere.

Sandro Gros-Pietro

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