Introduzione

Questa antologia d’autore, dedicata al poeta milanese Fausto Cercignani, copre esattamente un trentennio di pubblicazioni e circa trentacinque an­ni di scrittura poetica, dai primi scritti dati alle stam­pe dopo quasi un lustro di sedimentazione riflessiva, per giungere fino agli inediti più recenti, selezionati tra le ultime produzioni. Si tratta della ricapitolazione più documentata e ampia attualmente disponibile riguardante i fondamenti e la vastità della ricerca poetica compiuta dall’Autore in tanti anni di devota fedeltà alla poesia.
La figura umana e letteraria di Cercignani è a tal punto complessa, che appare opportuno iniziare a parlare di lui in sordina, con un’osservazione “a minore” e illustrare la sua “anomalia milanese”. Infatti, benché perfettamente inserito nel dibattito di ricerca sulla poesia contemporanea nazionale, che trova nella città di Milano una delle piazze letterarie italiane di massima espressione, Fausto Cercignani “ha saputo creare una sua personalissima nicchia, che nulla deve alla scuola lombarda, a lui vicina so­lo geograficamente. I suoi componimenti non offrono sensazioni o narrazioni, ma piuttosto percezioni, poiché il poeta penetra con lo sguardo nell’essenza delle cose”. Pertanto, nella sua opera, non è presente la quotidianità mondana, epicizzata in evento letterario e memorabile, come prescrivono i canoni della linea poetica lombarda, ma viene sviluppata in alternativa una epistemologia della dissoluzione del reale e di conseguenza viene anche formulata una palingenetica rifondazione dell’essere. Eppure, si collocherebbe subito fuori capitolo chi pensasse a Cercignani come a un caso di poète philosophe. Egli è tutt’altro: è un lirico puro. Ciò significa: essenzialità, rigore, perfettibilità, lucen­tez­­za, mistero, malia e incanto della forma della paro­la. Più propriamente, significa: il processo di transumanare della parola, cioè il passaggio dalla for­ma alla sostanza. La singolare scommessa di Cercignani sta nella concezione diacronica della parola rispetto al fatto. Tra i due elementi semantici non c’è alcuna sincronia, come invece vorrebbero gran parte dei poeti contemporanei, bensì c’è una rifrazione incantatrice che innesca un consolatorio inganno della mente. Noi ci illudiamo di nominare il reale e, quindi, ci convinciamo di declinare e di coniugare la conoscenza delle cose. In verità, usiamo delle forme espressive e comunicative – le parole – che hanno una loro valenza autonoma e diacronica rispetto alla realtà, e che si muovono in una nebbia al­trettanto anfibologica e indeterminata, quanto sono i fatti del mondo. Il poeta è consapevole di possedere questi due sistemi autonomi di velamento della verità: il fatto e la parola. Ambedue sono simulacri autonomi dell’essere. Ambedue interessano al poeta, ma in modo diacronico scatta, nel poeta, una primazia per il controllo della parola, in quanto nominare la parola è espressione di volontà manifesta da parte del poeta. Nominare le parole è, quindi, un atto puro, che ha sicuramente pre­cedenza rispetto alla narrazione dei fatti; que­st’ultima rimane, di conseguenza, un’azione spuria della mente, contaminata da concatenazioni di causalità e di casualità. Sia concesso ricorrere alla metafora della luce e del colore, le quali – ut pictura – mettono in rapporto di affinità il pittore con il poe­ta, il quale ultimo dovrà vedersela con il fatto e la parola. Il pittore è, sì, immerso nella luce come il poeta lo è nella realtà, e rappresenta la visione con il colore, esattamente come il poeta rappresenta il reale con le parole. Ma il colore è tutt’altra cosa, totalmente autonoma e diacronica rispetto alla visione che è demandato a rappresentare. Alla fine, il pittore matura la convinzione che la sua priorità consista nel controllo del colore, e solo successivamente della visione che intende esprimere. Chi scri­ve queste brevi note – che si augura non appaiano né pedanti né apodittiche – è convinto che Fausto Cercignani sia il poeta italiano – e non solo italiano – che si è spinto più in avanti con coerenza e con merito nella ricerca dell’autonomia della parola poetica rispetto alla rifrazione emotiva e percettiva che il reale suscita, come inganno della mente, all’interno del linguaggio. E nel formulare questo positivo primato, lo scrivente ha il demerito, ma anche il conforto, di non essere arrivato per primo a riconoscere il valore della poesia di Cercignani.
A proposito della sua prima silloge (Fiore siglato, Firenze, 1988), Ghino Ghinassi mette in evidenza la straordinaria capacità del poeta di ricreare un’età primordiale in cui tutto si ritrova e al tempo stesso si annulla, come se la voce lirica venisse da tempi e luoghi perduti nella storia del mito e del sentire dell’uomo. Fiore siglato contiene anche una ventina di componimenti dedicati ad altrettanti drammi shakespeariani, un contesto forse ancora più “alto”, in cui, grazie all’impostazione originale dei temi e dei motivi, Fausto Cercignani riesce a coniugare il variegato mondo del Bardo con la contemporaneità del suo riflettere e domandare. Altri componimenti di questo ciclo shakespeariano (che ne comprende trentaquattro) sono usciti sull’Almanacco dello Specchio (vol. 13, 1989), con un’introduzione di Roberto Mussapi.
Le liriche di Fisicità svanite (pubblicate dalla Genesi nel 1988) sono state accolte da Giorgio Bárberi Squarotti come tipico frutto “della concezione orfica dell’invenzione poetica”: la parola crea la situazione, gli oggetti, i contenuti della visione, l’ordine dei rapporti fra il poeta che la pronuncia e ciò che è al di fuori, e che non ha forma ed esistenza se non nell’atto di essere nominato. Carlo Alessandro Landini non è d’accordo e sostiene che i componimenti di Fausto Cercignani “raggiungono il massimo della concentrazione mediante un’accelerazione del pensiero o del sentimento che ricostruisce la fisicità per mezzo dell’astrazione”. Mirella Larizza ha preferito concentrarsi sui contenuti, giungendo alla conclusione che Fisicità svanite contiene la poesia dell’insignificanza del reale, modulata in tutti i suoi possibili registri e imperniata su due te­mi centrali e speculari: quello del silenzio dell’Esse­re, da un lato, e quello dello sforzo inesausto e va­rio del comprendere, dall’altro. Nella sua postfazio­ne a Nella grafia di un’ombra (Alessandria, 1991), Lionello Sozzi parla della lirica di Fausto Cercignani come di un modello di rigore, di asciuttezza, di densità quasi mallarmeana, di un autore che propone un’assidua riflessione sulla parola.
Nella presentazione a Vene di trasparenza (Verona, 1990), Frediano Sessi osserva, tra l’altro, che i versi di Fausto Cercignani sono lo specchio di un mondo che, rifratto nelle parole, appare frantumato e insieme compatto, quasi fosse una forma possibile del reale. Lionello Sozzi insiste sulla capacità del poeta di conciliare il gusto musicale della metrica con una incredibile libertà e varietà espressiva e vede nel gioco di associazioni sempre nuove e mutevoli la possibilità per il lettore di riscoprire una verità perduta, un mondo arcano e affascinante nel suo splendore artistico.
Dopo avere letto Pulviscoli rigati (Napoli, 1992), Emilio Mariano parla di una poetica complessa e rigorosa, in cui l’espressione è raffinata a tal punto da divenire consustanziale all’idea che racchiude in sé e vede nell’attacco dei componimenti, nella musicalità del verso, nel ritmo incalzante e nella densità concettuale gli elementi da cui emerge una inconfondibile identità poetica.
Scrivendo delle raccolte pubblicate fino agli inizi degli anni Novanta e quindi anche di Stelle di brina (Milano, 1993), Lorenzo Morandotti evidenzia uno svolgimento coerente e originale da cui spicca l’assoluta alterità della scrittura come strumento elettivo di espressione di fronte allo sgretolarsi dell’o­rizzonte di riferimento tradizionale. La poetica di Fausto Cercignani intenderebbe dunque restituire dignità verbale all’indicibile e consentire il riconoscimento, nel discorso che ambisce a farsi specchio del mondo, di un effettivo accesso di lettura della fi­sicità dell’essere, pur nella consapevolezza della condanna all’instabile pellegrinaggio in un finito angusto e ostile.
La lettura di Reticoli svagati (Milano, 1996) induce infine Giorgio Cusatelli a parlare di un disegno stilistico estremamente coerente, che si invera e si supera ad ogni raccolta, senza segni di cedimento.
In generale tutta la critica ha espresso una valutazione molto positiva anche sul lavoro fatto dal poeta riguardante la forma, che ha comportato un immenso impegno di rigore, di riordino, di classificazione e d’armonia delle espressioni. Già Bárberi notava nel testo cercignano la “presenza di tante metafore della fatica, dello sforzo, del timore, della scandalizzata sorpresa per quello che la parola è costretta a dire” per poi concludere che “la poesia di Cercignani non ha davvero riscontri nella vicenda poetica di questi anni: la fedeltà assoluta all’orfismo la libera da ogni rischio di compiacenza decorativa, di nostalgia classicistica, di affidamento all’idillio o al patetico […] è una grande poesia della conoscen­za non discorsiva, ma metarazionale, per forza di contatto d’anima, di illuminazione d’anima: severa e rigorosissima, fino all’ascetismo assoluto, fino al sa­crificio di sé per poter toccare tanto alta purezza creativa”. Frediano Sessi sottolinea in tutt’altro modo la fantasiosa e laboriosissima arte creativa di Cercignani, suscitando, come poi vedremo, il risentito rimprovero di Lionello Sozzi, ma probabilmen­te a torto. Dice infatti Sessi che “ciò che in Cercignani rende soltanto apparente il naturalismo della parola è semmai l’insistenza quasi ossessiva su termini barocchi o desueti o comunque ricercati (laddove questa caratteristica è insieme cerebrale e tecnica) di cui ogni verso sembra iniettato (“reconditi drappeggi”, “immobili spirali”, “rantoli gelati”, ecc.), a partire dagli stessi nomi delle poesie. “Altro che termini barocchi o desueti di cui scrive Frediano Sessi nella sua peraltro ottima presentazio­ne”, commenta con stupore Lionello Sozzi, che poi prosegue: “È come se dal gioco di associazioni sempre nuove e mutevoli emergesse per il lettore una ve­rità da riscoprire, un mondo arcano e affascinan­te nel suo splendore artistico, una possibile realtà che traspare dal moto combinatorio dei versi”. In realtà i due critici hanno entrambi ragione, perché Cercignani effettivamente rispolvera il trionfo della figura retorica come veicolo di autentica creazione d’arte, secondo un’inclinazione di pensiero artistico che già era stata esplorata dal migliore stile barocco e che ha resistito e tuttora resiste nei secoli. Nei ver­si perfetti e matematici di Cercignani c’è, infatti, una messe di figure retoriche, principalmente nelle due forme più consuete, di contenuto e di pensiero, tali da trasmettere una densità e una ricchezza e uno spessore letterario al testo che è del tutto inusuale e appare fino paradossale, se paragonato alla sobrietà spoglia e volutamente negletta di gran par­te della poesia contemporanea. Solo per citare le più ricorrenti: allegorie, iperboli, metafore, perifrasi, sineddoche, sinestesie, antitesi, eufemismi e via discorrendo. Ma soprattutto un ricchissimo florilegio di ossimori, alcuni impagabili, come le salde fisicità svanite o le supine prepotenze, ma l’elenco sarebbe lunghissimo. Proprio l’uso frequente dell’ossimoro mette a nudo una caratteristica del Poeta che, a giudizio di chi scrive, non è ancora stata sufficientemente avvalorata dalla critica, cioè l’ironia. Si tratta di un’ironia amara, anche acida, e se vogliamo venata dall’arresa accettazione per uno stato di fatto costrittivo e contraddittorio, per una vocazione universale all’entropia, cioè a un arreso adattamento all’universo rauco, altra splendida figura retorica di Cercignani. Ma l’uso insistito dell’ossimoro è sempre rivelatore di una vocazione ironica da parte dello scrittore. Nel caso di Cercignani, la sua ironia si risolve in una superiore capacità di intelligenza delle contraddizioni del reale, perfettamente rifratta nel linguaggio purissimo della sua poesia.
È un linguaggio molto ritmato, come mette a punto Frediano Sessi, che scrive “il ritmo è quello della ripetizione ossessiva di John Cage o di certi preludi di Debussy”. Lorenzo Morandotti esplora nel profondo la caratteristica ritmica del linguaggio, che sovente si conchiude nella conchiglia bivalve di un distico e che inizia con l’esposizione di una sorta di preludio in foggia di teorema, cui seguono i due punti e la conseguente dimostrazione di tenuta ovvero di vanità della nominazione. Dice Morandotti che Cercignani predilige rinunciare “a una parte essenziale del discorso come il predicato, a favore del­la pura nominazione. La trama dei componimenti si regge su sostantivi e aggettivi, collegati soprattutto da complementi di specificazione e luogo e da proposizioni relative-dichiarative in cui viene concentrato il contenuto residuo dell’azione. Pienamente funzionale alla tendenza all’astrazione risul­ta inoltre il ricorso alla punteggiatura, in modo particolare ai due punti al termine degli incipit, a stabilire la cornice entro cui il poeta intende situare il quadro oggettivo di riferimento”.
Le titolazioni dei singoli componimenti di regola non svolgono il compito dell’enunciazione argomentativa del contenuto sviluppato nel testo, fatto salvo, per ovvia disciplina degli omaggi, per le poesie di eco shakespeariana. In realtà i titoli sono dati da componenti versali, estratti chirurgicamente dal contesto. Si tratta di semplici vocaboli o più sovente di locuzioni binomiali, sovente formate da un sostantivo e un aggettivo, che sono gangli versali, cioè ingranaggi della meccanica espressiva usata dal Poe­ta, isolati dal contesto e riprodotti con piglio rap­presentativo in testa al manuale di funzionamento in cui essi risultano assemblati.
Gli splendidi ultimi inediti, che arricchiscono con particolare significazione l’intera poetica svolta in trent’anni da Fausto Cercignani, debbono ancora ricevere il vaglio della critica e sono brevemente introdotti dallo scrivente nella sezione loro dedicata.

Sandro Gros-Pietro

 

 

La sovradimensione della parola lirica

Dalla fortezza Bastiani il Sottotenente Giovanni Drogo attende che finalmente i tartari si materializzino sulla linea dell’orizzonte e vengano a ricoprirlo di gloria permettendogli di combattere l’eroi­ca battaglia contro la morte. Ogni editore di poesia è l’esatta metafora del capolavoro di Dino Buzzati: egli resta di scolta a scrutare l’orizzonte della Poesia, così formicolante di visioni e miraggi, che esalano in assenze e che sfumano in simulacri non appena si avvicinano alla fortezza inespugnabile per combattere la morte che cancellerà ogni loro velleità.
Finché all’improvviso l’invasione della fortezza av­viene, proprio quando Giovanni Drogo ormai vec­chio viene collocato a riposo, nella corsia di un ospedale. È, dunque, questa, resa nella cifra della metafora letteraria – avrei potuto esimermene? – la testimonianza del mio servizio quasi quarantennale reso come editore di Poesia, nel deserto dei Tartari, tratta dall’acribiosa descrizione della redazione di Via Solferino, ideata per registrare la realtà a beneficio del primo giornale di Italia, e ove non è mai accaduto nulla altro che il resto di niente, ogni giorno per tanti e tanti anni, niente altro che il resto del nulla, per tutti gli anni quanto è durata la carriera del narratore e giornalista Dino Buzzati, alias Sottotenente e poi Maggiore Giovanni Drogo vice comandante di Fortezza e poi editore di uno sperduto avamposto di Poesia denominato Genesi in li­nea di confine con il deserto, sempre il sottoscritto, che è la chiave e il passepartout della metafora. Poi il fatto è avvenuto; la parola ha travolto il reale. Il deserto si è materializzato, l’invasione ha sopraffatto ogni barriera di difesa dell’ordine destinato a custodire il resto di niente, mentre gli altri poeti so­no chini a rimestare le ceneri con cui si celebrano an­cora i riti vuoti del passato e si scrivono le cronache di una vanesia e anodina realtà che è l’esatto re­sto del nulla da sempre già noto, più nudo del re nu­do e più scornacchiato di una maschera dimessa. È arrivato Fausto Cercignani: si è verificata, così, l’invasione della Poesia, che si fa vittoria definitiva sul­la paura della morte, ci rende interpreti del fatto, sconfigge la storia e le sue trappole redatte nel sangue e nel sacrilegio dei violenti. La parola di Fausto Cercignani ha il dono ineguagliabile del sovradimensionamento, cioè adopera una misura superio­re a quella della semplice comunicazione, del tipo ti amo, ti odio, ho freddo, ho paura, passami il sale, ecc. Per tradizione millenaria, le parole sovradimensionate hanno sconfinato nel metafisico e hanno comunicato una sapienza inintelligibile. Ma le cose sono cambiate in modo radicale da Baudelaire e Rimbaud, per arrivare fino a Nietzsche. Il linguaggio poetico “sovradimensionato” non è più il logos della divinità, come era inteso da Dante a Blake, ma è la rappresentazione della liberazione totale dello scrittore dai vincoli della dimensione imposta dal reale, principalmente dallo spazio e dal tempo, ma poi anche dai lacci e dai lacciuoli minori, come fossero l’etica, la socialità, il tornaconto o addirittura l’estetica e la definizione della bellezza. La poesia diviene una lirica pura, quasi un canto del silenzio: è la rappresentazione dell’essere, rispecchiato e “deformato” nell’autonomia del linguaggio.
Fausto Cercignani propone una poesia tendenzialmente connotativa e non descrittiva o addirittura declinatoria. Lo sviluppo avviene attraverso bre­vi locuzioni introduttive, sovente sospese ai due punti della connessione. Quasi un’indicazione lapidaria, un aforisma, un apoftegma, ma congegnato con sistemi di orientamento analogico, nella grazia di un discorso allusivo denso di metafore e di figure simboliche, sempre esposte nel rigore delle proporzioni, come a ricordarci che il pensiero poetico possiede una sua determinata lunghezza d’onda, al di fuori della quale si cambia stazione e si finisce per captare un’altra rete, come accade con la manopola della radio: finisce che ci si va a sintonizzare sulla re­torica, sulla storia, sulla politica, sulla scienza, qua­si sempre, però, si decade nel chiacchiericcio, che è la vera piaga della poesia contemporanea. In questi splendidi Inediti, Cercignani usa con più frequenza l’interrogativo e – in aggiunta e anche di conseguenza – si apre di più a una forma di poesia propositiva, quasi dialogata, con velati intenti addirittura maieutici, di suggerimento oblativo. Ma la natura della poesia di Fausto Cercignani resta pur sempre consacrata all’incanto tanto rigoroso quan­to ammaliante della ricchezza della parola soppesata nell’inflessibilità della sua misura espressiva.

Sandro Gros-Pietro

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