<b>PREFAZIONE</b>

Inusitato, anche se lecito è pensare alla matrice mitologica, è il plot della <i>Storia penace</i> di Gennaro Grieco, che può anche lasciare sconcertato il lettore. L’autore nella sua terminologia non usa eufemismi, ma le parole crude perdono la loro connotazione per assumere funzione esclamativa o interlocutoria. Grieco sorvola sugli scabri dettagli dell’episodio centrale, poiché la sua attenzione è concentrata sulle ragioni del comportamento del protagonista e degli altri personaggi. Con sapiente indagine psicologica scava le motivazioni delle cause e degli effetti, l’origine dei comportamenti e lo sviluppo degli svolgimenti. I suoi attori sono esseri normali coinvolti in accadimenti ordinari di vicende quotidiane, determinate però dal rigore del sesso. E quando ad esso si sostituisce il sentimento, la farsa si stravolge in dramma.
Nella sarabanda di contingenze sfugge quasi dalla penna di Grieco l’elogio della poesia (amante nascosta e protetta nella nicchia della apparente noncuranza), reso in tonalità volutamente stonata da chi se ne fa vanto e in brevi note sommesse da chi arriva alla inaspettata scoperta. Né manca qualche cenno di denuncia sociale.
Ma se la vicenda si sviluppa a sorpresa, a sorprese incorporate come le bambole delle matrioske, avvince e conturba lo stile personalissimo, indifferente a ogni canone, evasivo di ogni regola, eppure limpido e scorrevolissimo. È il linguaggio soprattutto la chiave di volta della costruzione architettonica, a piani bassi, continuati, ripetuti uno dopo l’altro con la regolarità delle casermette, fra le quali ogni tanto si erge il bastione di un monologo o si distende un campo per le esercitazioni fisiche. La maggior originalità sta nella reiterazione, in anadiplòsi, delle proposizioni o di frammenti di esse, ripresi in fondo alla frase oppure ripetuti come unico periodo nella frase successiva. Costituiscono una sorta di ritornello, che marca e ribadisce le considerazioni più sofferte a sottolinearne l’importanza e la ineludibilità.
Un altro espediente dell’autore è quello dell’ékphrasis, cioè della storia nella storia, poiché l’ultimo capitolo è una specie di prefazione che si presenta totalmente nuova nell’argomento, nel tono e anche nei caratteri tipografici, richiedendo tempi di assuefazione. Il problema posto è quello del valore cronologico sulla proprietà dell’invenzione. Ma almeno questa seconda storia, che non è un romanzo e non è un racconto (secondo la definizione di entrambi gli autori) arriva a un esito positivo. Il percorso è uno spaccato sulla cabala della scrittura e sui suoi archisemi, sulle sue tecniche e anche sull’apparato scrittorio, reso con piacevolissima ironia e autoironia, con sottili sottintesi e frecciate al perbenismo, con un soddisfacente accomodamento finale sul filo del gioco rischioso, come nel titolo polisemico.
C’è intelligenza creativa in questa operetta di Gennaro Grieco, che lo rende capace di entrare in rapporto con le più recenti e innovative correnti letterarie, conducendo una vicenda di apparente minimalismo, ma di sostanziale drammaticità con un dettato volutamente provocatorio per eccesso di pudore. La scrittura liberamente fantastica, densa di implicazioni gnoseologiche, viva di un personale retroterra culturale eclettico, aperto agli spazi liberi dell’avventura umana, lo humor sapientemente sotteso, possono fare pensare alla lezione di Queneau. E non è poco!

Liana De Luca

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