Premessa dell’Autore

Gentilissimo Editore, mi sembra doveroso riferire perché ho deciso di raccogliere buona parte delle poesie contenute nelle otto raccolte che finora ho pubblicato. Sono raccolte monotematiche e come tali chiuse in se stesse, autonome e quindi inadatte a formare un corpo unico più ampio e armonico per cui ho sentito in modo impellente la necessità di vedere, quasi fisicamente, se ci fossero delle tematiche che scorrendo da un libro all’altro facessero da connettivo amalgamante l’opera intera. Guardando l’insieme, mi sembra di poter individuare, nel tempo, nel viaggio, nella memoria e nel ritmo le componenti del filo che scorrendo da composizione a composizione lega il tutto. Il tempo sia come tempo umano, fugace, misurabile, relativo, sia come tempo immisurabile, immobile, eterno, assoluto.
Il viaggio come allontanamento e avvicinamento alla stessa meta: Itaca come principio e fine; la memoria a sua volta è la rete che lega il viandante alla sua partenza, la corda che corre da un piede all’altro del tempo umano a fermarne la corsa, impastoiarlo; il ritmo quasi sempre andante, a volte movimentato, a volte sognante, a volte riflessivo e narrativo, percorrendo dalla prima all’ultima composizione si configura come un ulteriore elemento unificante.
Il gioco della vita, tra perdita e attesa, sconforto e speranza, tra essere e apparire, tra realtà e sogno, morte e vita, materia e spirito, partecipa a costruire la composita tela del­l’umana vicenda. Questa tela avvolge e penetra i miei testi da Galateo per enigmi a Tela di parole, raccolta non ancora edita con cui il volume si chiude e da cui prende il nome.
La partita, plaquette solo in parte edita, potrebbe sembrare del tutto avulsa dall’insieme dell’opera, ma essendo una metafora dell’esistere finisce per farne parte integralmente. In essa il tempo si presenta come lo spazio in cui si sviluppa l’azione, l’attimo che la conclude: il successo o la resa; il viaggio si manifesta nella corsa e nella lotta verso la vittoria finale, quindi verso la chiusura del cerchio, mentre la memoria si propone quale ricordo della primitiva condanna quando l’uomo venne catapultato nel campo dello scontro affinché potesse sperimentare la sconfitta, superarla e proseguire il cammino verso la definitiva meta ch’è il porto di arrivo e di partenza, lo spazio metamorfico, il “punto dove scorre l’universo”; il ritmo che, quale sistole e diastole, è antico quanto la vita e che nel suo chiudersi e aprirsi ci racconta dell’andare e del venire in cui si snoda il nostro viaggio: anabasi e catabasi, un percorso, il primo, faticoso, in salita che porta verso spazi di bellezza e di vittoria, in discesa, l’altro, ma che porta agli inferi, alla sconfitta. Il vivere e morire.
Una ulteriore costante unificante mi sembra possa essere individuata nella continua tensione verso un altrove. Tensione che trova linfa e forza nella memoria di una perduta alba e nell’attesa di un’alba forse promessa, certamente invocata. Lungo questa traiettoria di rimpianto e di speranza, risuonano i passi di un cammino che attraversa un campo visivo caotico, spesso sconcertante e sconsolante, a volte rassicurante o abbagliante. Questo campo visivo m’illudo venga narrato con linguaggio che tenta l’equilibrio scritturale attingendo a quella parola incipitaria che si è impregnata, lungo l’arco del tempo, di sentimenti e di storia facendosi quindi profondamente umana, senza perdere, comunque, l’originaria purezza e la capacità creativa per un superiore disegno di bellezza e di armonia. Non so ancora quanto il tentativo sia riuscito.
Con questo finisco di annoiarvi e consegno l’opera alla vostra benevolenza.

 

PREFAZIONE

La poesia progettuale e l’abbandono della concezione individualistica

La complessità progettuale della poesia di Giovanni Chiellino costituisce un raro caso nella letteratura italiana degli ultimi anni. Il carattere di eccezionalità della vicenda è conferito da numerosi elementi, quali l’inizio della sua avventura letteraria in anni posti al di là dell’età di mezzo; l’immediata valorizzazione in uno dei più fecondi laboratori editoriali di scrittura poetica del tempo; l’impegno sia liberatorio sia angoscioso da lui profuso nel cimento a oltranza con i limiti e con le possibilità espressive della scrittura. Ha cinquantuno anni compiuti Chiellino quando, nel 1988, superata ogni ritrosia, si decide a uscire con l’opera prima di poesia, Galateo per enigmi. Nessun autore ha mai chiarito il motivo per cui si scrivono libri di poesia, ma da quando Karl Popper scopre che l’uomo agisce per concatenazione di errori che si accumulano e si cancellano a vicenda, sembra affascinante supporre che anche la poesia si manifesta come soluzione errata dell’agire umano: errore di approssimazione a una meta rimasta nel vago, defilata alla vista, ma mantenuta sotto traccia nelle nostre intenzioni di raggiungerla. Succede così che l’honnête homme Giovanni Chiellino – con tutto il derivato di equilibrio e di pace della coscienza che la celebre espressione sviluppa presso Montaigne – decide di consegnarsi al sacro fuoco della poesia. Fino ad ora, egli è stato un apprezzato medico, specializzato in pediatria, ha curato tonsille gonfie e fioriture da morbillo, ha confortato genitori in ansia per la salute dei figli. Ma, ecco che inopinatamente si spalanca davanti a lui un orizzonte tanto incerto quanto attraente. L’uscita del libro avviene nei caratteri della Genesi, propiziata dallo stesso scrivente, ma in più è testimoniata da Giorgio Bárberi Squarotti che, da tempo, si pone al centro di un ideale laboratorio di scrittura poetica di dimensioni nazionali, con sedi operanti presso una pluralità di marchi editoriali di ricerca, fra i quali trova posto anche la Genesi. Chiellino, con il suo Galateo, si ritrova proiettato nell’arena dei poeti on the road, che sta promuovendo il critico e poeta torinese, Bárberi: conoscitore e ispiratore della poesia d’attualità, catalizza intorno a sé uno straordinario fermento di tendenze disparate, nel quale è possibile individuare il disegno organico e coerente di realizzare la moltiplicazione delle espressioni di poesia, tutte di verificato valore, come risposta paradossale a chi, negli stessi anni, predica la morte della poesia. La storia recente mostra che Bárberi vince la scommessa: la vince alla grande, perché la poesia italiana risorge da un incenerimento che, forse, non si è mai verificato. Ma vince la scommessa anche Chiellino, che nell’arena in cui si è calato diviene presto un efficace maestro del verso. Poiché è stato osservato che nulla avviene per caso e che la natura non fa salti, è facile argomentare che Chiellino si è preparato con metodo all’epifania poetica dei suoi cinquanta anni, per cui la prima pubblicazione si presenta in termini di approdo conseguente a un lungo percorso di maturazione compiuto in sordina. Il nostro inizialmente si orienta su due elementi di sicurezza, universalmente registrati dalla critica. Da un lato egli lavora su quel clima di sconfitta e di disillusione intellettuale, che è divenuto la vulgata ufficiale del mal di vivere montaliano e che costituisce la base a cui si intonano molti cantori nella penisola: la ricerca del varco di fuga dalla prigione della vita quotidiana attraverso un’occasione di autenticità delle emozioni, capace di rinnovare la speranza per una salvezza individuale, nello sfascio della storia collettiva. D’altro canto, Chiellino lavora sulla concretezza di un filone altrettanto solido della poesia italiana, quello fornito dagli echi del Sud e dalla condizione di mediterraneità delle sue origini, per cui si orienta a evocare campagne solatie, mare sognatore e mitica Magna Grecia, con una formula che è il corrispondente, ma in controcampo, di quella adottata dai poeti nordici della penisola, i quali preferiscono evocare, con altrettanto plauso della critica, periferie metropolitane e nevrosi esistenziali. Nel nostro si realizza, inoltre, l’intonazione dell’esule, che sviluppa il fascino particolare della nostalgia e dell’incanto memoriale rivolto a una presunta età dell’oro, dispersa nelle dissolvenze di immagini avite, risalenti a una vagheggiata infanzia (e adolescenza e prima giovinezza), antecedente all’elezione della residenza a Torino, in un vuoto di riferimenti, che bene alludono alla condizione di alienazione e di sradicamento dell’uomo moderno, come si legge in Esule:

Oscillo su vuoti geografici,
lontana terra che non ricordo,
pietre che non conosco
sugli arsi muri dell’attimo che passa.

Quel galateo del titolo è certamente un omaggio al zanzottiano Il galateo in bosco, uscito dieci anni prima. Chiellino rimane estraneo a ogni tentazione sperimentalista, ma certamente è affascinato dal lavoro magmatico sui materiali linguistici che conduce il poeta di Pieve di Soligo; la trama delle parole lo incanta come il gorgoglio dei ruscelli alpini, e ama scegliersi le sue parole amuleto che organizzano nel linguaggio lo scambio polifunzionale come monete con corso universale, in grado di smerciare la trasversalità dei significati. Al riguardo è rimasto esemplare il vocabolo conchiglia, che ancora Bárberi interpreta in chiave di “immagine del mare come origine della vita che conserva il murmure delle esperienze compiute individualmente e collettivamente, ma anche metafora del sesso femminile, come ossessione di dolcezza e come fonte di angoscia”. Non di minore polisignificanza è il vocabolo elitra, che diviene icona del brivido primordiale di vita soffiato in ogni processo creativo sia naturale sia artistico, ma anche simbolo inquietante del dubbio irrisolvibile, cioè linguaggio enigmatico e velo inamovibile disteso sulla realtà del mondo. Chiellino è affascinato dall’enigma, dai nodi insolubili in cui si perdono ragione e sentimento, al punto da invocarne la misura indicativa in entrambi i titoli dei suoi primi due libri. Infatti, due anni dopo l’opera prima, nel 1990, esce il suo secondo libro di poesia, che si chiama non a caso Daedalus. L’enigma, in lui, diviene espressione basilare del linguaggio poetico, diviene ermeneutica del processo di indagine della poesia intorno alle orme della realtà, diviene dimensione della canoscenza ulissiaca, sospinta oltre i limiti della convenienza, in un estremo margine di coraggio e sacrilegio. L’esercitazione al dubbio come forma di apprendimento e di racconto del reale conduce la poetica del nostro a sviluppare l’estetica del contrasto, della contraddizione, dell’opposto, talvolta anche destinata a fondersi nell’amalgama dell’ossimoro. Ne deriva uno iato incolmabile tra la realtà del mondo e la rappresentazione che ne fa la poesia. Non solo non c’è mimesi, ma nel poeta non c’è neppure intenzione di svelare l’ostilità del mondo e il suo enigma. Il poeta si sente parte integrante dell’enigma, l’enigma è in lui l’autentica entità definitoria dell’essere. Dice bene Roberto Carifi di Chiellino, quando afferma che la sua poesia è “maggiormente orientata verso un approccio di matrice orfica e mitica”. La visionarietà è una tensione poetica più affine a Chiellino di quanto non sia la descrizione del reale. E dice bene Dorian Veruda quando afferma che “quella di Chiellino è una visionarietà ascetica, ma pulsa in uno spasmo carnale, sanguinante e gridante”. Tomaso Kemeny parla di “golfo sacro dell’esistenza”. Ciò che è al centro dell’indagine – è ancora Carifi a scrivere su Poesia – “è l’Intero, l’Essere che dona senso all’esistere, il divino a cui occorre guardare per non restare prigionieri del nulla e della morte”. La scelta di frontiera è subito netta, fino dalla prima uscita. Chiellino si colloca su tutto altro versante che quello minimalista, in contrasto rispetto alla tendenza egemone del momento, quest’ultima più incline a una rappresentazione episodica delle collusioni con il parziale rispetto al generale, più votata a una visione di scorcio e di ambiente rispetto alla rappresentazione in campo lungo. Chiellino, invece, è un poeta da ricapitolazione epica, con una grande capacità progettuale di racconto, esercitato e dilatato attraverso l’uso della memoria. Arriva a scrivere Giorgio Linguaglossa: “Chiellino reca impresso il segno della memoria come un martire le stimmate [… egli] legge il mondo con la lente della memoria, o meglio il volto della memoria”. Baricentro della poesia diviene il progetto di esplorazione della memoria, che finisce per trionfare come forza ispiratrice principale: memoria del mondo e memoria della poesia finiscono per coincidere. Ciò non esclude che la memoria non sia interrogata anche nella dimensione del privato e più specificamente autobiografica. Infatti, sono numerose le poesie che ricostruiscono la rete affettiva del poeta sia in direzione ascendente verso la nonna Rachela sia in direzione discendente, verso i nipoti, Francesca e Federico, non escludendo dalla trama delle emozioni intime una serqua di nodi degli affetti, al maschile e al femminile, stretti in nome del sentimento dell’amicizia ovvero in nome dell’eros. Ma resta il fatto che la condizione individuale del poeta, la sua complessa egocità di individuo unico e irrepetibile nella storia dell’umanità, non è più la protagonista dell’avventura letteraria, perché al centro di ogni vicenda si colloca il progetto di scrittura che il poeta concepisce interrogando la memoria del mondo: è solo quello l’immenso mare da cui il poeta attinge notizia memorabile di sé e della sua condizione episodica di essere vivente, di essere la parte disciolta nell’Intero, come ama dire Carifi, di cui la poesia può fornirci rappresentazione artistica, cioè la visione unificante, l’unica umanamente possibile, che si colloca al di là di ogni conoscenza scientifica, al di là di ogni misurazione esatta. La maieutica diviene espressione di poesia. La poesia è il colloquio rivelatore che il poeta conduce intorno alla storia del mondo, elaborata nel profondo della nostra mente e, attraverso la poesia, richiamata alla luce dell’evidenza, cioè resa manifesta. Poesia, dunque, come epifania del pensiero, manifestazione e apparizione della vastità, profondità e interpretazione della mente umana sui fenomeni del mondo. Non si tratta di una weltanschauung, nel significato tradizionale di principio di concezione del mondo, perché, ripetiamo, che Chiellino non at­tribuisce alla poesia una funzione prometeica, di ribellione e di liberazione dalle tenebre. Si tratta, invece, della capacità di osservare, per campi lunghi, l’immensa vastità del pensiero umano, con tutte le luci e le tenebre che lo caratterizzano, in un continuo alternarsi di polo positivo e negativo con la frequenza della corrente elettrica, senza lasciarsi andare a giudizi di merito – è meglio il polo positivo o quello negativo? – in quella concatenazione popperiana di eventi cui già ci siamo ispirati, in una indefinita dialettica degli errori e delle verità, fino a descrivere, al meno per simboli esemplari, l’immenso oceano di tutte le rotte praticate dagli Argonauti e registrate per sempre nello sterminato fondaco della memoria. Per dirla con Hallberg, Chiellino esercita lo sguardo del flâneur: ma lo fa in una dilatazione del tempo e dei luoghi, che assumono un’altra unità di misura rispetto a quella normalmente deputata per misurare la realtà del mondo. Non vi è un capo e non vi è una coda: ciò che conta è la rete, l’intreccio, il plot. Ciò che conta è la capacità del poeta di osservare, di passare attraverso la densità delle idee umane, di vincere la resistenza vischiosa che le idee oppongono a chi le vuole traguardare: il viaggio è condotto nella memoria, non per illudersi di capire, ma per non perdere la traccia del passato, mantenere viva e integra l’informazione sull’infinita catena del nostro DNA intellettuale. La metafora della possibilità di esplorazione del reale è mirabilmente svolta nella poesia L’agrimensore, il cui valore esemplare è a tal punto significativo da meritare il richiamo per intero:

Attraversi torrenti
sali colline e arranchi nella valle
con la corda di nodi sulle spalle:
unità di misura.
Ma il tuo passo è già una misura
e cammini per terre illimitate
segni confini, dividi i campi
in angoli e quadrati.
Sul tuo bastone segni le giornate
come tuo padre segnava i capi
di pecore e giovenche.
Il mulo ti sta dietro
bruca paziente l’erba dei sentieri
quando con gli occhi chiari della mente
guardi gli spazi dell’ora che declina
nella densa caligine del tempo.
Nuvole nere dopo un giorno chiaro
coprono il cielo e il mare
ansima, si increspa, si fa cupo
poi solleva schiene
ricurve di tori in lotta aperta.
Il vento sulle case apre dirupi
sbatte mantelli scuri alle finestre
strappa gemiti di paura alla ginestra
urla alle cime dei pioppi e della quercia.

Ovviamente la metafora è plurisemantica, ma intende comunque demandare alla ricognizione del reale che l’uomo conduce in qualità di filosofo e scienziato, non escludendo aprioristicamente da questa attività neppure il poeta che abbia la vocazione per farlo. I due tempi in cui la poesia si divide marcano l’inclinazione di Chiellino a creare, nello stesso testo, un effetto di contrapposizione e contrasto, per cui dall’ambiente di pace agreste e bucolica della prima parte si passa senza soluzione di continuità allo scenario di tempesta e di “lotta aperta” che caratterizza la seconda parte della poesia, ove si scatenano i tori dai dorsi ricurvi – oggetti-amuleto che ritroviamo in tante altre poesie – si solleva il vento destinato a scerpare l’ordine proiettato dal­l’agrimensore sul mondo, si diffonde un urlo munchiano lanciato dalla natura che si ribella dall’alto delle cime di pioppi e di querce. In questo panorama di presenze simboliche, ciascuna delle quali ha una valenza metastorica, – siamo a sud di quale nord? siamo discendenti di quali avi? – si smaterializza la cifra di conoscenza e di reperimento delle connotazioni concernenti ogni problematica individuale, si dissolve definitivamente nel bosco della letteratura la pista di briciole lasciata dall’incauto Pollicino novecentesco, cioè da quella nozione di poeta che si è addentrato tra i grandi simboli della parola, portandosi appresso come viatico e come breviario solo il culto di un’evanescente individualità, e semmai una liricità specialistica, agganciata a suoni, odori e colori tipici dello spicchio di terra e validi per il frammento di tempo in cui si è consumata la vita di Pollicino. Chiellino sembra proporre al poeta che si congeda dal Novecento – il secolo dell’individualismo e dell’individualità – e che si avvia a vivere il nuovo secolo della globalità su base planetaria, vissuta in una compenetrazione di culture epocali molto differenziate, la consegna di ridimensionare in confini di maggiore decenza e di misurato riserbo il culto dell’egocità. Egli sembra invitarci a sviluppare la nostra curiosità per Parigi ossia, fuori di metafora, ci invita a esercitare uno sguardo di flâneur attraverso la storia e i Paesi del mondo, per trovare le uniche informazioni possibili che sappiano dirci qualcosa di utile su di noi e sulle nostre idee.

 

La piccola epopea

È innegabile la familiarità di Chiellino con le formule di astrazione tipiche dell’ermetismo, come troviamo in Sera:

Scivola il giorno
l’ombra si fa alta,
chiude porte il silenzio
nelle case
e il cuore oscilla
pendulo nel vento

La sintesi dell’espressione, limitata alla nudità di un’idea essenziale, con potere rivelatore ed estatico, costituisce anche l’ideazione del quadretto Fanciulle al sole, in cui la rima baciata dei primi due endecasillabi viene cercata per sigillare il concetto di corrispondenza elettiva tra le gatte e i ragazzi in unico stampo di fugacità e rapina, che si porta dietro la coda del terzo endecasillabo

Morbide gatte dagli occhi fugaci
offrono amore a ragazzi rapaci
ragazzi astuti dagli occhi di fuoco.

A volte la concisione sintetica è ottenuta adottando un verso più breve, per lo più un settenario o l’emistichio di un endecasillabo, come avviene in Paura,

Braccato il fanciullo
dai rami delle ombre
tiene il piede sospeso
sull’orlo della fossa:
gli è caduto dagli occhi
il volto della luna.

e ancora più chiaramente in Giardino di notte, ove l’ultimo endecasillabo è spezzato in due versi, sul taglio della cesura alla settima sillaba:

Il buio occhio della notte
ha nascosto il ciliegio in fiore:
il mio giardino è vuoto.
Un desiderio d’alba
mi perfora.

Talvolta, le forme ermetiche confluiscono nelle soluzioni eteree di una liricità espressa in modo sobrio e cristallino, come in Volo di farfalla:

Volo di farfalle a primavera,
mi porta i colori dei tuoi occhi,
cado in ginocchio
di fronte alla natura che ti mostra.

Sono probabilmente proprio queste inflessioni di chiara liricità che consentono a Giorgio Linguaglossa di collocare con ragione Chiellino sulla direttrice di una linea Leopardi-Betocchi, contrassegnata dai richiami della memoria cui abbiamo già accennato, rivolti sia al teatro della storia celebrata nei grandi eventi collettivi sia alla rievocazione di volti anonimi, di mezze figure o dei familiari che detengono le chiavi delle segrete stanze di vita del poeta. Tutto ciò conduce il critico romano ad affermare che “la poesia di Chiellino anche quando si arresta dinanzi alle umili erbe che oscillano al vento, al mormorio di gemme, alle primule rosse e al canto dell’usignolo, non ha mai il sapore stucchevole della lirica mielosa, il tono e la dizione è sempre icastico, asciutto, anche se il tocco è lieve e la mano del poeta guida le parole come un pastore il suo gregge”.

Accanto alla poesia progettuale, che si occupa di allestire l’ampio racconto del mondo e dei destini umani, convive, dunque, in Giovanni Chiellino un gusto mai disatteso per la poesia episodica, che potremo definire in termini di canto libero, tanto per indicare l’affrancamento da qualsiasi criterio architettonico di ricostruzione delle grandi epifanie a cui, invece, conduce l’inventività progettuale del nostro. Chiellino non disdegna affatto l’esercizio della poesia immune dal progetto specifico di rappresentazione universale del mondo; addirittura si compiace di partecipare, talvolta, alle iniziative di poesia tematica, quella che nasce per talento spontaneo o per passione pura dello scrivere ovvero per scommessa o per compiacimento rivolto a qualche altro scrittore, con cui il nostro coltiva buoni rapporti di amicizia o di mondanità, eco residua e sopravissuta, forse, che proviene dal lontano, lontanissimo certame poetico. Questo gusto di immediatezza e di familiarità, che lo porta a spendersi anche al di fuori dei crismi e delle liturgie della sacralità, contribuisce ad arricchire di umanità il suo ritratto d’autore, che non si trincera nel sussiego di occasioni esclusive, ma che è disposto a mettere sempre in gioco la sua credibilità nella scommessa di contribuire alla grande avventura del mondo. Va fatto salvo che anche quando intona il canto allegro – di Canti allegri il poeta si è effettivamente occupato, in Nello spazio della mente – Chiellino rimane rigoroso e fedele alla specificità degli strumenti creativi che gli sono propri – il misurato controllo dei suoi grandiosi apparati retorici – ma in aggiunta dà mostra di possedere numerosi registri di stile – e di saperli tutti controllare nell’uso abituale della poesia – come quello ermetico, lirico o favolistico, cui già in parte si è fatto cenno. Giova all’economia complessiva dell’autore, aggiungere che Chiellino ama anche realizzare escursioni estemporanee e inopinate in modelli esotici dell’espressione poetica, come avviene nella serie degli incantevoli haiku, introdotti quasi per gioco nella sezione finale dei testi inediti, Tela di parole, che proietta il titolo su tutto l’antologia.

Ben presto queste rievocazioni autobiografiche apparentemente episodiche, se non addirittura estemporanee, si accumulano in una concentrazione organizzata di viaggi della mente e della parola che danno vita alla ricca composizione di una piccola epopea. La chiameremo piccola perché è vivificata dal microcosmo sociale, dall’osservazione da vicino, dall’ingigantimento del fenomeno quotidiano a comportamento esemplare di una costante antropologica: una luce induttiva illumina stabilmente questa epica domestica. Appartiene al filone appena descritto uno degli indiscussi capolavori della poesia di Chiellino, Isabel, che ricostruisce il ritratto di una ragazza di paese, un poco abbandonata a sé stessa, capace di sprigionare un’incontenibile passione sensuale. Isabel, nel racconto poetico che ne fa Chiellino, a più riprese e poco alla volta, viene catturata dalla spirale dei sensi e del dono di sé, per cui si lascia scivolare nel vezzo di costringere l’amore dentro il labirinto della nota e antica professione, ma rimane simbolo incorruttibile di gioiosità della vita e di sfida coraggiosa alle gabbie dei sensi imposte dal perbenismo, sull’onda della celeberrima Bocca di Rosa di De André:

Sedevi sovente sopra il muro
a lato della strada
le gambe un poco aperte
il busto eretto
e lasciavi che potessimo guardare
il rosa del tuo petto e sentire
l’umido odore denso del tuo ventre.
Fanciulla come noi eri, ma eterna
e sapevi d’antico.
Avevi il tempo nel chiaro dello sguardo
nei sussurri del sangue, sulla fronte.
La tua e la nostra voglia
correva a perpendicolo, volava
e negli occhi tuoi fondi
una luce vibrava di gioia e di ironia
per quel nostro nascosto turbamento.

[…]

Isabel era il tuo nome
imposto da noi al tuo fulgore
magistra vitae eri
per ragazzi che sognavano cavalli
e seguivano i sentieri delle stelle
negli anni delle danze e degli amori

[…]

In tutt’altro ambito morale e affettivo, ma pur sempre collocata all’interno di un’epica domestica che si fonda sulla ricostruzione rievocativa degli spunti che provengono al poeta dalla sfera dell’esperienza spicciola è la figura della nonna Rachela, che giganteggia nell’epica casalinga come un vessillo sacro, bandiera di un dolore vecchio d’ere, – racchiusa nella didascalia dell’endecasillabo come farfalla nella teca, quando il volo sia finito – ma infinite volte rivitalizzata nel viaggio di riconoscimento e di frequentazione che il poeta compie tra i suoi amati simboli, nell’intreccio vivificante della rete. Non siamo in una strada metropolitana, ma siamo in una ruga, che sarebbe il viottolo calabrese ovvero il cortile, l’autentico habitat di Rachela, sorta di utero all’aperto in cui si alimentano e si rinnovano i miti strapaesani:

La vecchia Ruga
amata nella gloria del sogno
che corre nelle vene dei fanciulli
– grande è l’amore
se il sogno lo comprende –
porta nel grido di squallore e pena
nella penombra triste del crepuscolo
un crepitio di fiamma nella mente:
il tuo volto ridente
il portamento austero,
Donna Rachela,
per tutti noi “La Nonna”
fanciulli numerosi della Ruga.
Il tuo gabbano nero,
bandiera di un dolore vecchio d’ere,
la tua voce tonante
se comandavi di tornare a casa
o ci sgridavi per le malefatte
sono nel vano stretto delle scale.

Entrambi questi personaggi protagonisti, Isabel e Rachela – che ritornano a più riprese nella poesia di Chiellino – sono stati uniti e correlati insieme da Silvio Ramat, nella presentazione che egli fece, insieme a Marzio Pieri, della ormai mitica antologia Le maschere invarianti, del 1992, uscita sempre in questi stessi caratteri editoriali. Ramat sostiene che Chiellino dispone di “tutto accentrare in una mitologia domestica e tangibile (personificata grazia, ‘fra le foglie del moro l’Elegia’), la cui reggente è la Nonna, e nido la Ruga o una eponima ‘casa disabitata’. Preme a Chiellino reinventare i punti sacri, solenni della sua iniziazione alla vita, alla vita intera: e in questo raggio acquista luce, risonanza, vigore mitologico la prostituta Isabel. Ed ecco allora che in questa riduzione (ma direi meglio traslazione, visto che la pronuncia si enfatizza volentieri e il canto si slancia in ampie, inebrianti campiture strofiche) la mitologia si rifà accessibile. L’eterna Isabel, ‘arcana creatura’, è lei a custodire ‘le chiavi dell’enigma / la giusta cifra che guida l’universo’.

 

L’alto eroismo dei piedi

L’evoluzione dalla piccola alla grande epica in Chiellino no

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