PREFAZIONE

Esistono dei libri che iniziano a sprigionare fascino già dal titolo, prima ancora che si abbia avuto modo di leggere e di meditare il contenuto. Appartiene a questa fortunata specie Terra di passo, di Giuseppina Luongo Bartolini. Egregia titolazione davvero, per un testo di poesia, che intona sempre il parlare per metafora. Nella più alta delle accezioni, la terra di passo è l’intero pianeta azzurro sul quale ogni essere umano riceve il dono della vita e compie il suo passaggio biologico, contrappuntato da un numero variabile di albe e tramonti. In un’accezione mediana, la terra di passo per antonomasia, all’interno della cultura occidentale ed in particolare modo all’interno dell’Europa, è proprio l’Italia, l’ineguagliabile penisola protesa come ponte franto fra due continenti che si giustappongono alle opposte sponde del mare nostrum: luogo disteso tra amenità ed asprezze che è sempre stato, fino dalla più buia preistoria, spazio di passaggio, di soggiorno e di conquista per popoli e per genti di ogni genere, l’ideale agorà di confronto e di scambio delle alterità. In una significazione più realistica e contingente, la terra di passo è il lembo di confine di due stati contigui: la terra di frontiera, il paradiso dei doganieri e dei contrabbandieri, l’intrico favoloso dei sentieri oscuri e dei percorsi solari, che si innervano i primi nei secondi, con scambi di ruoli e di identità, per sottolineare la precaria levità dell’essere che, nelle terre di passo, è messa a nudo, perché colà vengono a mancare le distinzioni manichee tra il bene e il male, colà si rende più evanescente l’ordine civile che tenta di disciplinare il caos su cui ogni civiltà perigliosamente si sforza di realizzare l’equilibrio di galleggiamento. Queste tre cornici di significato – alto, medio e basso – rappresentano la profondità di scavo del discorso poetico di Giuseppina Luongo. La prima cornice sottende il dialogo sull’identità dell’uomo come espressione creaturale della volontà di Dio. La seconda è l’ampia cassa di risonanza della memoria delle civiltà, e cioè si rende testimonianza della fatica umana nei secoli ed è lo spettacolo dell’umanità nel mondo, le città, le campagne, i monumenti, le fabbriche, le prigioni e i luoghi infernali delle mattanze. La terza è quella nozione di terra di passo che abbiamo definito più realistica e contingente, ma che dovremmo dire anche più singolarmente personalizzata ed agganciata alle vicende individuali dell’io narrante, con una specificità autobiografica e un’indagine psicologica ad personam: è anche il crogiuolo di fusione e di rifondazione di ogni pensiero, è la pisside che conserva le sacre particole degli affetti umani, confusi e fusi in uno con le ostie consacrate dello spirito.
La tradizione letteraria ama ricondurre tutte le opzioni sulla poesia ad una semplice scelta binaria: la prima, è la poesia che crede nelladicibilità del mondo, e la seconda è la poesia che crede unicamente nella dicibilità del modo di fare poesia, ma nell’impossibilità assoluta di raccontare il mondo. Come ognuno sa, si ascrivono queste due opzioni rispettivamente al dantismo e al petrarchismo e alle loro espressioni nei secoli. Se il lettore avesse la bontà di consentirci ancora l’uso di questa categoria binaria di distinzione di tutte le poetiche – chi scrive si rende conto che si tratta di una differenziazione abusata dal troppo ecumenismo critico – allora, dovremmo senz’altro collocare Giuseppina Luongo Bartolini all’interno del versante dantista, impegnata come ella a noi si manifesta nel raccontarci la storia del mondo, che è anche la storia dell’uomo e che è anche la sua storia personale di apprendimento e di ricerca della verità. Tuttavia, non dobbiamo pensare a tre scatole cinesi, l’una dentro l’altra incastrate ovvero ad una triplice matrioska, per cui aprendo la prima bambola, si ritrova all’interno la seconda che conduce alla terza. Se ragionassimo così ci allontaneremmo dalla poetica visione di Luongo e dalle sue tre cornici, perché in lei l’ideazione costitutiva è anche contestuale ed in tanto potrà esistere una singola cornice in quanto vi siano le altre due a fornire gli scontornamenti di contrasto, di profondità, di contrappunto e di collegamento. Se abbiamo l’obbligo di essere onesti fino in fondo, allora diremo che questa ideazione di profondità della scrittura, lungi dall’essere semplice espediente o peregrina complicanza retorica, non è tuttavia un’architettura che nasca inopinata e senza illustri esempi preposti dalla letteratura, perché il modello più alto che è offerto dalla tradizione sono le Confessiones di Agostino, risalenti al quarto secolo, una radice, quindi, chiaramente pre-dantista e, tra l’altro, conosciuta e meditata dal Fiorentino, per suo conto. Quel prorompere agostiniano dell’io nel dialogo con Dio, quell’usare il proprio io come coefficiente misuratore dell’aspirazione alla conoscenza del mondo e alla sua dicibilità, quel piano di armonico contrasto tra la storia personale votata ineludibilmente all’autodistruzione e la traccia della salvezza rappresentata dall’orma di Dio impressa sul mondo: sono proprio queste le corrispondenze – i correlativi oggettivi – che ritroviamo nel modello di scrittura di Luongo. Va appena giunto, per utile prudenza, che i secoli e la cultura che successivamente si è sviluppata hanno fatto le loro differenze, per cui in Luongo ritroviamo una nozione dell’io che è rifratta nella moltiplicazione frattalica di sé all’interno dell’analisi psicologica, con una ricchezza di specificazioni e di analisi che un autore del quarto secolo necessariamente non poteva possedere. Le illustri ascendenze riconducibili fino ai padri della Chiesa hanno come ulteriore terreno di incontro – si vorrebbe dire come terra di passo – quello spirito plotiniano e neoplatonico che formò la personalità di Agostino e che è vagamente presente anche in quella di Luongo: la possibilità di coesistenza tra la filosofia e la religione, l’aspirazione della filosofia ad una visione unitaria dell’Essere. Si tratta di conciliare la verità rivelata e la verità appresa. Tale conciliazione comporta delle conseguenze paradigmatiche. Ritorna proponibile un’architettura del pensiero che preveda il concetto del sublime e che preveda la ricerca della bellezza come categoria pura della mente, in campo artistico e letterario. Su questo tema fondante, c’è, dunque, lo iato e lo scostamento tra Luongo e la poesia per lo più egemone del nostro tempo, che ha, invece, una vocazione pervicacemente materialista, più ancora che laica. Se il nostro tempo è, per lo più, ancora fermo alla registrazione anagrafica della morte di Dio, Luongo, in un disaccordo di anticipazione rispetto all’abitudine imperante del momento storico, ha preso buon riscontro dell’avvenuta resurrezione e della risalita all’altare di Cristo: il Dio che muore è anche un Dio che risorge, nella fede di chi lo segue. Per cui la poetessa cerca quello stesso passaggio neoplatonico – che aveva già cercato Agostino – di conciliazione e di reciproca confermazione tra la filosofia e la religione. A chi scrive, essendo troppo digiuno di studi filosofici, non pare opportuno mettersi a discettare sul crescente ritorno del neoplatonismo ai giorni nostri, ma chi scrive confida nella migliore confidenza del lettore con l’attualità della ricerca filosofica per ricevere, da chi sa di più, una conferma e un avallo. Resta l’elemento fondamentale della poetica di Luongo: l’approdo alla purezza estatica della visione poetica è raggiunto servendosi della immediatezza caotica della vita. La vita è usata come terra di passo, come attraversamento necessario, come agorà di scambi e di acquisti per giungere agli approdi poetici desiderati, i quali sono già visione inintelligibile del mondo, cioè sono parola trascesa, e sono sponda metaforica dell’alterità. In questa poetica, l’elemento fondamentale – nel senso etimologico del termine, che costituisca il fondus, cioè la terra di sostentamento – è l’opus della vita, cioè, in metafora poetica, è la terra di passo. Ciò spiega il carattere quasi diaristico, confessionale, narrativo del massivo canto poetico di Luongo, che è descrizione dell’opus, cioè è narrazione della vita, anzi è confessione intorno alla vita, nel predetto senso agostiniano, di dialogo con un interlocutore collocato nella soprarealtà dei fatti accaduti. L’effetto diaristico e confessionale è volutamente amplificato dallo stile espressivo adottato, cioè da una scrittura di compressione, rattenuta e densa, e che non si dilata in abbellimenti e in lusinghe denotative, ma che s’incastra, un pezzo nell’altro; come altrettanti scatti delle calamite sono i versi che si attraggono e s’incuneano nelle loro sinapsi analogiche, improvvise e metalliche, il lettore ha la sensazione di udire il balzo della trappola, il congegno meccanico che si è azionato, e di potere osservare il pezzetto di vita che è stato catturato dal poeta. Tutto il poema – perché di unico poema si tratta, a dispetto delle tante composizioni, apparentemente autonome – sembra essere scritto come fosse un appunto a margine; come fosse una seriazione di annotazioni sul calepino del poeta; è la prima nota sul brogliaccio di viaggio, vergata in modo corsivo, mantenendosi all’essenziale, ma con il puntiglio di segnare, per rapidi accenni, ogni collegamento, ogni processo, ogni allusione o sponda di rifrazione. Poi, il poeta deve avere riletto i suoi appunti e deve essersi accorto che essi avevano già assunto l’armonia perfetta dell’opera compiuta, come realizzò Michelangelo davanti ai suoi Prigioni: si rese conto che ogni aggiunta all’opera avrebbe funzionato come sottrazione all’efficacia del messaggio.
Lungo le centosessantasette stanze del poema si articola la testimonianza della vita accolta come opera dell’uomo e come dono divino, fino dall’incipit di un’alba invernale: Ho detto buongiorno stamane al / mio pallido dirimpettaio il sole / d’inverno […] (cfr. 1.). Ma ben presto la scena viene campita dalle immagini del Sud, che rappresenta lo scenario regale e principale di tutto il poema: Zufola sulle terre del Sud il lamento / dei calanchi e delle forre insidiate / dalle mescite clandestine rientrano / nelle bocche della speranza riesumati / gli appenati canti di lontananza […] (cfr. 14.). E vengono evocati nel verso i valori fondanti del viaggio terrestre e celeste della Luongo, al primo posto l’amore irredimibile per il suo uomo: E che la tua mano mi sfiori […] (cfr. 15.). E si manifestano le prime indicazioni etiche e poetiche, valide per compiere il viaggio nella terra di passo, come di seguito si vede, anche nella ricchezza di un’epifania metaforica che traguarda le corrispondenze su lontane prode: Lasciarsi attraversare dalla vita letto / di fiume acciottolato mosso ghermito / […] lasciare nel risvolto dell’onda lo smerlo / arricciolato sulle prode […] (cfr. 18.). Così inizia l’evocazione della memoria, in cui si alternano prima, seconda e terza cornice, cioè tematiche sull’esistenza con tematiche paesaggistiche delle città e delle opere dell’uomo e con tematiche della vita personale, come accade a Montecarlo e a Napoli: Non fu l’appuntamento di un gioco / Montecarlo il castello sul mare (cfr. 19.); very nice la flotta americana / a babordo marcava la presenza / nel mio passo in sintonia […] (cfr. 20.). Mentre il paesaggio esteriore può riflettere la terra desolata dell’anima: […] le case / metropolitane di ringhiera bidonville / d’accatto uguale uguale uguale mete / di ricadute falde dal grigiore gravante / nella coppa rovesciata sugli assi della / mente […] (cfr. 24.). Prosegue lo scavo intorno alla definizione dell’io del poeta, che cerca nella vita – nelle tre cornici della vita – la sua vera identità: Né figlia né madre né moglie né / amante libera dall’anagrafe / e dagli elenchi scolastici ch’io / semplicemente umana mi sia se / sciolgo i miei lunghi capelli (cfr. 26.). La rievocazione della madre è fatta con i particolari autentici della passione di lei per il cucito: Madre della mia antica solitudine / […]sul lino / del mio vestito la tua raccolta di Mani / di Fata […] (cfr. 61.). L’immanenza di Dio nelle cose del mondo è avvertita anche come un mistero terribile: […] La luce / della tua spada mi / sovrasta Signore a / nulla vale il lamento / e la piaga e lo spasmo / delle palpebre […] (cfr. 89.). E si manifesta l’impegno, che fu profuso in modo particolare da Rainer Maria Rilke, di tramutare la realtà terrena in dimensione spirituale, e che in Luongo viene ricondotto al mistero dell’atto eucaristico, con un avvicinamento non poi così azzardato tra la visione poetica e la visione religiosa. Vale la pena, infatti, ricordare che proprio Mario Luzi, commentando il suo Frasi e incisi di un canto salutare, affermò: Anche Orfeo l’ho visto un po’ cristicamente, anche lui deve essere distrutto, assimilato nelle fauci della tribù; è la singolarità del poeta, dell’uomo conscio che deve diventare cibo per tutti per poi essere veramente utile e proficuo (1). Similmente, la Luongo vede nel sacrificio cristico dell’eucarestia la primazia della Chiesa e l’universalità antropologica del cristianesimo su tutte le altre religioni, seguendo quelle stesse considerazioni che portarono Benedetto Croce alla celebre affermazione “non possiamo non dirci cristiani”, come si legge nei versi: Nel corpo della Chiesa il segno / del supplizio il Crocifisso / la più alta parola che s’inarca sul Golgota / esso stesso pugnale di spargimento / separazione scissa nell’ardore del sangue / che a me scoscendendo nel fianco rivolo / del costato apre la spia del dolore e carne / nel suo sangue è l’Ostia sacra e cilicio […] (cfr. 141.). Del resto già poco prima, nella commovente rievocazione del fratello morto, avevamo avuto modo di riscontrare un’anticipazione di quell’arcobaleno pontefice che nell’architettura poetica della Luongo congiunge l’eternità figurata dagli artisti – in terza cornice – con l’eternità divina della prima cornice, quella svelata dalle parole della fede: Nella quadreria del tinello / i tuoi piccoli dipinti paesaggi / d’adolescenza nel credo / dei tuoi colori fratello ho riposto / che nella diffidente passione per la / vita racimolavi un sogno di bellezza / in pura eternità […] (cfr.140.). L’indicazione eponima che illumina il titolo è proposta in uno scintillìo metaforico che ha risonanza biblica: quel luminosouccello piumato – che calamita l’attenzione del lettore – ha un’identità ambivalente e contesa tra la celeste colomba e il terraneo pavone, ma riceve in ogni caso una cittadinanza biblica che si estende dall’antico al nuovo testamento: Terra di passo il rischio / dell’uccello piumato / la tagliola che occulta nel / maggese lo scatto se fosse / la zampa azzannata / l’evidenza il segnale ma / è la piuma che scardina / il silenzio nel suo circuito / breve e scompare(cfr. 146). Anche la stessa città dei morti è una terra di passo, forse l’ultima, la più riflessiva e silente, ma anche in essa si fondono le tre cornici, spogliate e scarnificate e scavate, ridotte all’essenziale – la divinità, l’umanità e l’egocità: La strada provinciale la via / del Cimitero alta la croce al / bivio e il fiume dei mulinelli / […] / a Ponticello il primo piano / quattordici gradini di marmo / per saltare l’armonioso portone / […] / sorta di vita che mi espelle / pensiero nel pensiero a me stessa / donandomi mi nega […] (cfr. 153.). Anche il finale del poema sviluppa sicuramente una chiave di lettura cristica, perché l’indicazione che fornisce l’ultima terra di passo consiste, per ogni essere umano, nella passione della croce e nel riuscire a donare la propria sofferenza agli altri che sopravvengono come riscatto verso la luce: Contemplo la solitudine dell’uomo / Dio di tutti gli Dei dinanzi allo / scempio ed alla morte un cammino / prescritto esorcizzato dai riti della / fede […] (cfr. 160.). Gli ultimi versi del poema, che si conclude alle spalle del tunnel di rispetto edificato per riattare la Chiesa della / Santissima Annunziata, sono un’invocazione esortativa a lasciare depositare ideliri della vita – sappiamo che vita significa terra di passo – e a lasciare manifestare il silenzio sull’irrisolvibile enigma del traguardo nell’alterità: […] Lasciate / che svapori il delirio e che si adegui / all’impossibile sogno la ventura fin / che perduri l’alberatura fatiscente / ed il silenzio dell’impraticabile rotta. (cfr. 163.)

Sandro Gros-Pietro

Anno Edizione

Autore

Collana

Recensioni

Non ci sono ancora recensioni.

Scrivi per primo la recensione per “Terra di passo”

Il tuo indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati