Nota dell’editore

È universalmente noto che lo scrittore torinese Bruno Gambarotta, nei suoi numerosi incontri con gli alunni delle scuole superiori, ama rivolgere la stessa domanda ai giovani interlocutori: Voi sapete che cos’è una sineddoche? E quasi sempre ottiene il silenzio assoluto. Eppure, la risposta è così semplice; la parola deriva dal greco e significa “comprendo più cose”. Significa nominare la prora per intendere la nave ovvero dire un bicchiere per intendere la bevuta in compagnia di amici. Con una sola parola si intendono molte più cose, che la parola di per sé non dice, ma a cui allude in modo manifesto. Si tratta, certamente, di una delle più belle figure retoriche della lingua italiana, perché rappresenta la potenza di sintesi immaginativa della parola, che sta alla base della facoltà umana di esprimersi usando voci e suoni, le declinazioni e le coniugazioni.
Lo scrittore braidese Marco Lamberti sceglie una sineddoche del dialetto piemontese, barachin, per comprendere molte più cose che di per sé la parola non dice, ma a cui allude in modo manifesto. Si tratta del portavivande, detto anche la marmitta o, con espressione dialettale lombarda, la schiscetta, dentro cui si racchiude un pranzo completo per l’intera giornata. Tutti gli operai, che facevano il turno giornaliero negli stabilimenti Fiat a Torino, entravano in fabbrica con una cartella da scolaro, nella quale era contenuto il barachin e da cui sporgeva di lato il collo di una bottiglia di vino, per lo più Barbera, con il tappo meccanico, detto anche tappo puff o tappo a scatto, riempita preventivamente dall’operaio, distillando il vino dalla damigiana tenuta in cantina. Il barachin era il pasto dell’operaio, preparato a casa dalla madre o dalla moglie, mentre la bottiglia rappresentava il bicchiere da bere insieme ai compagni operai, durante la pausa prandiale.
Il termine barachin è subito divenuto una sineddoche, come la pro­ra che rappresenta l’intera nave. Barachin, infatti, individua l’operaio di fabbrica, per eccellenza l’operaio Fiat, piemontese o emigra­to dal Sud, ma integrato tra i piemontesi, di cui ha accettato tutto, al punto che si sforza di parlare in dialetto piemontese. Il barachin è un’identità storica e ideologica ben definita. Come storia nasce con l’introduzione dei turnisti, che si succedono nella lavorazione alla catena di montaggio senza soluzioni di continuità e che impone una breve pausa di lavoro per il pranzo allo scopo di fornire una rapida ricarica di calorie al lavoratore. Il suo periodo storico è de­stinato a tramontare e a scomparire con l’introduzione delle men­se di fabbrica. Come identità ideologica il barachin ha sostanzialmente due fondamentali e imprescindibili pilastri: la Famiglia e il Posto fisso. La famiglia è di gran lunga l’imprimatur originario, il seme da cui tutto discende: gioie, dolori, lavoro, vacanze, svaghi, amicizie, scappatelle, credenze, infine, anche le liturgie religiose, è tutto ben compreso e ben stipato nel barachin, nella porzione principale, cioè il piatto forte di cui il barachin si nutre, la famiglia, che rappresenta la sacralità incrollabile, per cui vale la pena compiere qualsiasi sacrificio e da cui ci si attende ogni valida occasione di gioia o anche solo di speranza. Il Posto Fisso, invece, rappresenta l’o­no­re di stare al mondo, la dignità sociale, la zattera che non affonda e che comporta l’adozione di un’etica ferrea del lavoro. Al primo posto si colloca la solidarietà coi compagni, poi il rispetto delle mansioni del lavoro, cioè lavorare bene, perché le cose debbono essere ben fatte (bin fait!); buon ultimo, ci vuole il rispetto della fabbrica come istituzione e quindi anche del “padrone”, contro cui occorre confrontarsi anche duramente, ma nella salvaguardia imprescindibile del Posto Fisso. Intorno a questo nucleo centrale, ci sono i sistemi corollari del barachin, cioè le sue idee politiche, il sindacato, il gioco delle carte con gli amici, andare a funghi nei boschi, cacciare la lepre nelle riserve autorizzate o andare a pesca nei vivai, cercare di non essere inghiottiti dalla metropoli urbana, ma avere un orto, vivere fuori dalla grande città e prendere il treno e il tram per andare al lavoro, viaggiare come un sacco postale o come un gitante in festa secondo che si vada al lavoro o si ritorni a casa. Una vita costruita sull’impegno a esercitare le abitudini e a spingere lo sguardo e le attese sempre verso il miglioramento delle abitudini per renderle più agiate e più sicure.
Il romanzo di Marco Lamberti rinverdisce l’alta tradizione del neorealismo italiano, ma anche la rivoluziona dalle basi, perché elimina totalmente il dialogo, che era così caro ai romanzieri neorealisti, e lo sostituisce con la documentazione accurata degli accadimenti, seconda la moda letteraria più moderna chiamata del docu-romanzo. Il periodo raccontato supera i vent’anni, dal 1960 al 1980, e segue uno sviluppo cronologico, che quasi non ammette salti, ma concede qualche ripresa, riaggancio o ritorno all’indietro. Si osserva molto da vicino la trasformazione del Pae­se, dal Dopoguerra, con il miracolo economico già avviato, per giungere fino agli anni bui del terrorismo delle Brigate Rosse, cui fa da contraltare il terrorismo nero. Lo scrittore tiene d’occhio sia le evoluzioni nel privato della famiglia di Giovanni e Maria, coi figli Luca, Cristiano e Michela, sia i cambiamenti nel collettivo sociale e più di tutto le trasformazioni del padronato italiano e l’abbandono della famiglia Agnelli della vocazione quasi esclusivamente industriale e concentrata in Italia per adottare al posto un sistema finanziario con interessi diffusi all’intero capitalismo mondiale, di natura monetaria e finanziaria.
Pochi libri sono usciti in questi anni capaci di offrire un panorama così ampio e di fornire le chiavi di interpretazione così esemplificatrici del rapporto di contrasto e di definizione identitaria dell’asse sociale operai-imprenditori. Tale binomio davvero ha rappresentato l’asta di equilibrio e il motore di sviluppo dell’economia italiana nel periodo 1960-80, raccontato in modo eccellente da Marco Lamberti. Prima di Lamberti, su questo versante letterario, si trova solo il celeberrimo libro Memoriale di Paolo Volponi, uscito nel 1962.

Sandro Gros-Pietro

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