PREFAZIONE

Conteso fra condanna e ribellione, Paolo Bignoli percorre la sua discesa agli inferi, non con abbandoni decadenti, nonostante qualche richiamo a Baudelaire, ma con determinazione dantesca. Non sono soltanto i rimandi intertestuali, spesso parafrasati, a palesare la sua dimestichezza con la Divina Commedia, quanto piuttosto l’intonazione e la decisione della cifra poetica specie nella prima composizione ad ampio respiro Non lubet scribere… Bignoli ha un suo Virgilio, che però è una donna, non si sa fino a che punto reale o essenza di femminilità, al tempo stesso guida e dannato. Anche l’autore è immerso nel travaglio della sofferenza, quasi mai manifestata in analisi di smarrimento interiore, ma materializzata in simboliche pene macabre o grottesche. Imbozzolato nel suo presente male di vivere, avverte la diacronia del passato in dimensione temporale ma soprattutto come diversità emotiva. Colei che era sembrata novella Beatrice, “donna e montagna / fianchi intangibili / che non ho osato”, la già “musa, amante nemica” ha scoperto “l’inganno dei seni, / i fianchi meschini e tal è, tu puttana” che si graffia “con le unghie rognose”. Eppure oltre ogni logica, oltre ogni traviamento della came e dello spirito, oltre ogni punizione senza possibilità di riscatto, ancora incanta “l’odioso fantasma” e, anche se nello sterco rivolta il suo volto, grazie meravigliose ostenta.
Il tema dell’amore domina in questa raccolta, come nelle precedenti Se a qualcuno importa di una storia d’amore e La cometa silente, ma non più sereno, stilnovista, fiducioso, per cui Stefano Jacomuzzi aveva potuto scrivere di una poesia sabiana “la più antica difficile del mondo”. Il dramma incombe, anzi è materia prima del discorso, influenza la tensione stilistica. Le nuove soluzioni di scrittura sono, in correlazione all’affabulazione, di una durezza e secchezza sia linguistica sia sintattica, veramente singolari. La stringatezza del dettato è in consonanza con la scabrosità della tematica. La scelta dei vocaboli è oculata e, in disprezzo, a ogni levità, privilegia termini duri, scavati, carichi di accezioni ancestrali: “I sassi abbandonati da millenni! litigano alla riva decrepita”. Anche le immagini sono pregne di metafore alludenti a una dissoluzione senza occasioni di salvezza: “Neppure l’onda latra / all’isola che affonda / nell’aria immobile e segreta / del mio scordato strumento”.
Non poteva Bignoli essere indifferente alla figura di Ulisse, in un certo senso fratello spirituale di Baudelaire per la inutile ricerca di una verità definitiva, destinato “ad annegare nei vermi di carogne”. Il mito dissacrato architetta una immaginaria Torino, città di mare che, contrariamente a quanto il titolo potrebbe fare supporre, non si apre su orizzonti sia pure irraggiungibili, ma racchiude nella suburra del porto demoniache lussurie nel rimpianto del paradiso perduto.
Coinvolto e stravolto dal disincanto, l’autore vede sotto il segno negativo tutte le valenze dell’esistenza, compresa quella poetica: “Il velo s’è squarciato / senza scampo, / in questa voce / parole senza canto”. Confinato nella stalla di Augìa, si trova però in compagnia di Arsenio (altro esponente della triade dei suoi maestri), sia pure di un Arsenio umano che non lo ascolta e lo calpesta. Con una costruttiva antitesi, continua a comporre versi e, se ostenta la vanità di ogni aspirazione e la caduta di ogni speranza fino a dichiarare “sono il nulla che annientai’ sono il vuoto nel vuoto”, per quella meravigliosa contraddizione che è l’anima della poesia stessa, anche se “si è chiuso il giorno”, può programmare “ti amerò domani”.

Liana de Luca

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