Prefazione

Tra una goccia e l’altra della vita / che scorre / e scoppia sull’asfalto / si riesce a cogliere / – forse – / lo spazio per sostare / il tempo di salvarsi // […]
Mentre leggo i versi di Edith Dzieduszycka, e sottolineo, e faccio le solite orecchie ai fogli da scassinatrice di libri, e mi accingo a scriverne qualcosa, sono, come ormai quasi tutto il mondo, in quarantena in piena pandemia da Covid-19. Pensieri strani si accavallano, incrociano nodi di angoscia. A tratti, si aggrappano al comico che la stempera. Lo sguardo sul mondo è smar­rito. Il quadro, sghembo, crudele e canagliesco, ma che lo inquadrava questo mondo, è andato a gam­be all’aria. Il tempo è sospeso, è come scrivere sull’acqua. Leggo Tra un pensiero e l’altro con questi oc­chi, in un tempo da reinventare. Ed ecco i versi di Edith venirmi incontro come se li avesse scritti oggi: […] stringo / senza scampo / lacerti residui di un pianeta a portata / di respiro / che intorno a me dirada / il suo fragile alito… Proprio nel respiro siamo toccati, senza sapere come respireremo domani.
La finitezza di scrittura di chi lima, sposta e scava si accompagna in questa raccolta di poesie alla sublime infinitezza di chi si domanda il che cosa, il dove, il perché dell’esistenza, di cui solo sappiamo che la mor­te è certa, ma non sappiamo né quando né dove e, forse, nemmeno da dove. O forse sì? Forse dalla fine di quel varco attraverso il quale / quatta inavveduta / fugge la sostanza / seme del nostro essere che ci ha dato la vita?

“Il fenomeno della vita rimane, nella sua essenza, completamente impenetrabile, non smette di sfuggirci, qualunque cosa facciamo”, diceva Jacques Lacan nel 1955 nel Seminario Le psicosi. Erano gli anni della scoperta epocale della struttura del DNA; dell’esplosione della genetica e del passo a gambe levate ver­so la frammentazione dei corpi da parte della scienza; del mondo del vivente ridotto a logaritmi – oggi dipendiamo dalla curva di Gauss del coronavirus, una curva non simmetrica però, non a campana, ma ancora sospesa verso l’alto, curva che si calcola, ap­punto, a suon di logaritmi… Edith percorre la distesa dell’esistenza, il “fenomeno della vita” – biologica, etica, soggettiva – in una sorta di conversazione tra lei e l’anima e l’animo, non senza il corpo. Già, l’anima di Aristotele è il corpo per Lacan.
Tra un pensiero e l’altro. In questo tra Edith, caparbiamente, senza tregua, mi ha imbrigliata tra i fili di una strana levità che evoca l’arte del trapezio. Edith trapezista. Vola ad altezze vertiginose mentre il corpo della sua parola si stira, si tende, si libra nell’aria so­pra il mondo provando ad afferrarne lacerti. Ci obbliga a guardare da distanze siderali quello che succede quaggiù – crediamo – ma, in verità, è da quaggiù che il suo pensiero si libra per il viaggio acrobatico: dal corpo affranto, accaldato, stanco, insonne e vivo, talvolta ridotto da sabbia a polvere / da polvere a niente, a molecole, a pulviscolo… Ondivaga / oscillo /sull’albero del tempo / avvinghiata alla palma in balìa del vento…

La levità è una strana levità. È levità della mente, ma è densa di corpo. Viaggia, Edith, con il suo circo di acrobati in testa che si fa circolo, cerchio e matassa, e la dipana questa singolare matassa / dipanata da mani di cui non so il corpo / né conosco la meta…, perché, appunto, il fenomeno della vita resta impenetrabile e sfuggente, e ancor più la sua meta, al punto da scordarsela: […] dolcemente si va ad incagliare // e s’inabissa // poco a poco scordando // l’oggetto del suo viaggio.
Ma che levità è quella di qualcosa che s’incaglia e s’inabissa? Sta in quel poco a poco scordando l’oggetto… Non solo levità della dimenticanza dell’oggetto del suo viaggio, ma, direi anche, dell’oggetto propriamente detto, quell’oggetto che Sigmund Freud considerava perduto da sempre e che illusoriamente, se ci fos­se, se lo ritrovassimo, dovrebbe colmarci. Ho in­contrato spesso nei testi di Edith, anche in prosa, il sen­timento della dimenticanza, della perdita che ri­chiede un lavoro di fili e di trame, come nel suo Trame.

La vita non è senza il corpo e in queste poesie, scritte tra il 2012 e il 2014, con diverse aggiunte nel corso degli anni, Edith ci restituisce una sorta di “biologia” del vivente, dove il corpo è la condizione di ogni godimento, il corpo in quanto marchiato dal linguaggio e tagliato dalle parole, e dove, sempre, qualcosa resta fuori. Questo, sul filo di una riflessione sul tempo, colgo nei versi di Edith Dzieduszycka.

Constantino Kavafis, a Èumene, ancora giovane poeta che si lamentava con Teocrito di aver composto soltanto un idillio, faceva dire: “[…] Povero me, lo vedo bene, / è alta, molto alta la scala di Poesia. / Sono soltanto sul primo scalino: / povero me, che non andrò più su”.

Edith è salita, e salita, e salita ancora. È arrivata in cima alla scala di Poesia. Da lì, senza rete, come le più coraggiose, o i più coraggiosi, dice cose che sembrano denudate della tunica del pudore e, invece, sono solo spogliate del fare finta che a volte si prende a prestito al nostro piccolo fantasma personale per non parlare di lei, della vita, e dell’età, e della morte, e della don­na. Edith ne parla, della vita, e del pensiero che vi ha messo radici, e della donna. Si lancia da una sbarra all’altra di trapezi linguistici tenuti da funi che pendono da un soffitto maturo, come si addice all’esperienza di vita, a l’Âge Mûr – e perché no alla Destinée, o ancora a Le Chemin de la vie, o alla Fatalité. Sì, l’Âge Mûr che per lei non è nié come lo è stato per colei, la Camille, che cavava dal marmo e dal bronzo la sua arte e che, in una lettera a Auguste Rodin, aveva scritto: “C’è sempre qualcosa d’assente che mi tormenta”. Non è negata l’età matura a Edith, e non se l’è negata, perché, con la sua arte, ha voluto e potuto e ancora vuole e può interrogare il farsi e il disfarsi del femminile. Questo soffitto maturo, che ha retto e regge, in­fatti, è al contempo aperto, forse un po’ a cielo aperto. Le funi vi pendono come dal niente, o per lo meno dal­la precarietà dell’essere meno definito che ci sia, quello di una donna. Donna, matura e lieve, forte e sempre indefinita.
Edith eleva, abbassa, adduce le parole, con forza che tradisce anche fatica, come quella dei muscoli, e poi, con trapezio di altro tipo, come una velista, si sporge nel vuoto, fuori bordo, fuori da ogni margine che sia limite, a fare da contrappeso alla densità della domanda che si infila in questo tra – tra cane e lupo, come se il pensiero fosse un morso, non sai quale dei due meno doloroso. La domanda: Come / dentro si è potuto entrare / senz’accorgersene? // Sarà ipotizzabile / un bel giorno trovare l’uscio / liberarsi? Liberarsi da cosa? Dal cercare? Dal provare? Non credo e non lo crede – credo – nemmeno Edith.

Non si tratta qui di un pensiero da ossessivo, di un rimuginare che ammazza il desiderio, ma piuttosto di scrittura che imbastisce, a volte cuce, per un attimo annoda, poi sfila e fila via. Scrittura che negli spazi, nelle sospensioni a cui si è condotti leggendo, fa apparire la faglia che attraversa l’essere umano. Pochi, co­me i poeti, fanno vedere – perché creano anche immagini – come l’essere umano non sia niente affatto Io a tutto tondo – del resto, come sarebbe mai poeta un Io a tutto tondo? –, ma sia diviso, ferito e per questo soggetto. Soggetto alla presa del linguaggio, certo, ma il linguaggio che non riesce a dire tutto. Altrimenti perché scrivere, se il linguaggio davvero dicesse tutto? Perché scrivere: A cosa sto pensando / in quel preciso istante che / più non è l’istante / quello che prima c’era / – non lo sarà mai più – / […] per chiedere / com’è che sto pensando / a quello a cui penso / […] tra l’istante di prima / del dopo suo fratello…? Perché scrivere questo, scrivere così, dove sorge il soggetto, diviso tra coscienza e sogno, il soggetto che non è nemmeno l’essere nella sua compiutezza? I filosofi si sono dati da fare intorno a questo groviglio del prima del dopo dell’essere, e i bambini ancor prima, filosofi ante litteram, quando parlottano da soli tra sé e sé, tra anima e animo. Poi, la filosofia si smarrisce, se non c’è qualche poeta che la ritiri fuori lavorata e scolpita per via di levare, perché la lingua del poeta contempla l’impossibile, l’infinitezza. La lingua, caduta fuori dal linguaggio come cascame, potremmo dirla dal ritmo disossato che si fa chiodo piantato nella carne – lettera marchiata nella carne per farsi poesia.

Dicevo prima: “biologia”… carapace; formiche so­lerti; crosta; melma; scorza; cranica custodia; bosco di neuroni; parcelle… Un mondo dove lo smarrimento è sempre dietro l’angolo, viscida lingua / d’una nebbia in agguato / che lecca indiscreta il davanzale grigio… Già, viscida lingua, visione schifosa. C’è dello schifo nell’esistenza, qualcuno vuole vederlo nella donna, nel­l’orrore che il femminile incute, perché è comodo vederlo così, viscida lingua… Chissà se Edith ha pensato ai davanzali grigi della sua giovinezza, gli stessi miei, coperti di sottilissime, ma non invisibili, particelle di carbone che respiravamo a pieni polmoni, pri­ma delle moderne caldaie!? È dai davanzali che guardiamo il mondo. Oggi, in queste ore più che mai dai davanzali.

Edith attraversa il confine della pelle per dire di un sentire palpabile opaco // impronunciabile // non d’uccello le ali spiegate e lievi; per dire di una cappa di seta; per dire di un grido muto; per dire di silenzio. Occorre essere in alto per dire l’impronunciabile che riguarda il “reale” della vita, il “reale” del corpo, quel “reale” che Lacan pone fuori dal simbolico, che lo eccede. In Edith Dzieduszycka è importante ciò che accade nel punto di sospensione, al limite del dicibile. Edith si iscrive forse in quello stesso intervallo che per Rauschenberg sta tra l’arte e la vita, intervallo in cui si posizionava nel suo operare.

L’essere in cima alla scala di Poesia non è di chi si dà arie di altezza, ma piuttosto di chi il tra non lo teme, e l’infinitezza tipicamente femminile, non necessariamente in senso anatomico, dona a lei o a lui una certa libertà di discorso. Riconosco in questi versi la flebilità della voce di Edith, il suo parlare poco, il suo regalarci di tanto in tanto, anche durante una cena, dei fili che sta a noi acchiappare. Fili di ironia, fili di dubbio, ma anche fili di ferro, tale, questo ferro, che le sue pa­role sfottono, bucandola, la banalità, e le fanno cadere a lato di ogni cosa, le parole, di quel tanto di millimetro che spiazza e obbliga a guardare la stessa cosa con altro occhio. All’istante ti appare il comico dell’esistenza di per sé tragica. Da quale stoffa lercia / frastagliata e cosparsa di sangue raggrumato / s’illude / e si ostina / a tagliare e cucire un vestito decente? Eccola!

Céline Menghi

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