PRESENTAZIONE DELL’ANTOLOGIA

Genesi

Trent’anni or sono nasceva la casa editrice di poesia Genesi, in Torino. Si collocava in Largo Montebello 40, in un angolo della città che rimanda a memorie deamicisiane, precisamente alle vicende degli scolari che frequentavano la scuola elementare della maestra dalla penna rossa. Ma l’elezione di quella sede non dipendeva dai richiami culturali custoditi dal rione, situato all’ombra della Mole Antonelliana, bensì da un’imposizione comunale dell’annona. Infatti, Genesi nasceva come libreria editrice dei poeti e, a quei tempi, siamo nel 1980, vigeva una rigida regolamentazione comunale per la concessione delle licenze al commercio nel settore librario. In pratica, esclusi pochi e fortunati casi, le librerie nascevano solo per rilevamento della licenza da un libraio preesistente che intendesse smettere e, quindi, che trasferisse ad altri la sua concessione. Come fanno i paguri, ci si insediava nella conchiglia già usata da un altro. Ed in largo Montebello 40, a Torino, dal 1977 al 1981, era stata aperta e aveva funzionato la Libreria delle donne, sull’onda lunga del movimento femminista, che furoreggiava nell’intero Paese, come del resto in tutto il mondo occidentale. La Genesi dei poeti, ne consegue, è nata da una costola di Eva, per contrappasso biblico dal primo di tutti i libri: per prima fu creata la libreria delle donne e solo dopo, in quella stessa conchiglia, trovò accoglienza la libreria dei poeti. Questi ultimi – bene si sa – sono olimpicamente ermafroditi: sono maschi, sono femmine ovvero sono soluzioni intermedie, di transeunte anfibologia, ma sempre poeti sono, e basta. La denominazione di Genesi alludeva a un’ideale rifondazione del ruolo e del significato della poesia. Era risaputo, infatti, che Dio fosse già morto da qualche tempo: ne aveva dato contezza l’anagrafe nieztschiana. Ma di lì a poco morirono tragicamente per efferata violenza tutti i chiari di luna e molte altre manifestazioni di poesia lirica: ne registrò il trapasso l’anagrafe marinettiana. Al sommo delle sventure, per espiazione delle atrocità nazi-fasciste e del bagno di sangue causato dalla seconda guerra mondiale, perì per sempre l’eterna musa della poesia: si celebrò il lutto beckettiano con rito laico. Le ceneri delle ceneri della poesia vennero, infine, destrutturate e defibrate da agenti patogeni riuniti in Gruppo fino dal lontano ’63 e dai suoi dintorni ed epigoni. Una rugiadosa brezza di cordoglio alitava per i cartigli e i brogliacci della poesia. Che fare?

Dal tempio alla piazza

Dagli arcipelaghi dell’eccellenza e dell’esclusione fu progettato un viaggio à rebours verso il continente dell’ordinarietà e dell’inclusione. Poiché la poesia costruita sulla formula della turris eburnea era divenuta la larva di sé stessa, si sarebbe invertita la prora della nave e, con il beneplacito di Baudelaire e le icone di Watteau e le note di Chopin, si sarebbe fatto rientro da Citera, divenuto polo museale, visitato da nostalgici tremebondi e da orde di turisti giapponesi, con macchina fotografica e cappellino di plastica. Nasceva la Genesi dei poeti: era la nuova frontiera della parola ordinaria, cioè del parlare diretto e diffuso, cioè del colloquio poetico che si rende testimonianza di condivisione, di partecipazione, di gestione, di ricezione di tutte le cose del mondo. Non si sarebbero più cercati i nuovi poeti nei salotti esclusivi degli editori patinati o presso le baronie universitarie o nelle redazioni culturali dei giornali, tra neghittosità e sussieghi, ma ci saremmo rivolti ai quattro cantoni, nei mercatini sulle cassette di verdura, nell’agorà della società civile, circondati da quelli che si sporcano l’abito, come fecero Machiavelli e Ariosto, a fare funzionare le cose materiali e quotidiane, condividendo la fatica e le umiliazioni che impone la realtà, ma conservando incontaminato uno spazio per il sogno e una voglia indomabile di perseguire la bellezza. Genesi voleva ingaggiare e testimoniare il linguaggio poetico usato da chi non concepiva crociere per Citera: studenti, insegnanti, professionisti, medici, magistrati, calciatori, commercianti, politici, fabbri, orologiai, farmacisti, sacerdoti, casalinghe, veterinari, infermieri, poliziotti, ristoratori, pittori, sensali, agenti di cambio, vasai e altri ancora. Sono questi i mestieri dei poeti pubblicati da Genesi fino ad oggi. Genesi ha diffuso in trent’anni il linguaggio della poesia posseduto e praticato da chi ha sempre fatto funzionare la società civile in cui viviamo, giorno per giorno, fatica dopo fatica. Si è trattato di autori che sedevano sulle cattedre di scuola o sugli scanni dei magistrati; che lavoravano in fabbrica o in farmacia; che compravano e vendevano immobili o amministravano aziende o gestivano responsabilità politiche, curavano malati o realizzavano abiti o mobilia. Ma ognuno di loro si portava in cuore la passione cui non sapeva rinunciare e per cui si imponeva sacrifici e da cui traeva delizie. Gente che amava scrivere versi e desiderava confrontarsi con quanti altri avessero la stessa passione. Genesi ha cortocircuitato fra loro queste situazioni di amore per la parola e ha creato la casa dei poeti. Anzi, non si è trattato di una casa, ma di una piazza, con uno spazio ideale che ha sconfinato dal contorno infranciosato di largo Montebello, è uscito dall’ombra della Mole Antonelliana, ha travalicato la paternità dell’ateneo torinese in cui era pure stata concepita e covata e si è ritrovata in un canto libero, che ha per asintoti sia la canzonetta popolare sia il salmo biblico sia l’espressione mediale plurilinguistica.

Long-vehicle e quad

Se viaggiate lungo una strada trafficata da autoveicoli vi capiterà di osservarne di diversa misura: piccini come un quad che non raggiunge i due metri di lunghezza ovvero bisonti della strada che superano i venti. Non parliamo delle difformità tecniche, per cui auto snelle come un cabriolet possono sviluppare caratteristiche meccaniche ed elettroniche bene più complesse delle lussuose familiari. Ma se voi amate la sapienza umana che si è realizzata nella fabbricazione degli autoveicoli, necessariamente finirete per ammirarli tutti e non vi passerà neppure per il capo di dire che l’uno vale più che l’altro: ciascuno esprime la sua soggettiva equazione di efficacia e di uso. Allo stesso modo, ben difficilmente un serio zoologo arriverà a dire che la balenottera azzurra è più significativa dello scarabeo: quest’ultimo ha la prerogativa di essere l’animale più forzuto del pianeta, perché può trasportare gravi superiori a mille volte il suo peso. Bene è vero che si tratta di carichi di sterco, ma che cos’altro si può capitalizzare in questa danza macabra che è la vita? Ogni serio studioso che ami a fondo le espressioni della bellezza sa che non esistono graduatorie assolute con cui misurarla. Se la lunghezza si misura in metri o piedi e pollici; la capacità in litri o galloni e pinte: la bellezza, invece, suscita emozioni che sono incommensurabili, ma che sono tuttavia interpretabili attraverso argomentazioni pertinenziali alle forme e ai modi con cui essa si è manifestata. Interpretare la bellezza della poesia, in fondo, non è nulla di più che la passione del collezionista: si rimane commossi davanti a una bella poesia come il filatelico trema davanti al milionesimo francobollo immesso nella collezione, in tutto simile al precedente milione che è già stato classificato. Certi francobolli rappresentano un’epoca, un evento straordinario, una rarità irrepetibile. Ma non è detto che siano i più belli. Ogni filatelico vorrebbe possedere un Gronchi rosa come ogni poeta vorrebbe avere scritto L’infinito, ma sarebbe una bestemmia sostenere che si tratta della poesia più bella. I calligrammi di Apollinaire, le micro poesie di Kerouac, la poesia visiva dei futuristi, gli iper-versi di Walcott, la semplicità di Szymborska, la complessità di Pound, l’ermetismo d’Ungaretti, la filosofia di Montale, la memoria di Eliot, la passione politica di Neruda, l’intellettualità di Valery, la liricità di Heaney, la matericità di Müller: tout se tient nell’agorà della casa Genesi, tutti vengono citati, allusi, collezionati, esplorati con curiosità dagli scrittori che inanellano parole nuove ed usate, con sentimento di amore e con speranza di contribuire a rendere più ricca la vita. Vi sono poesie brevissime come un quad e poemi giganteschi come un long-vehicle. Chi ha la vocazione lapidaria rivolta alla sentenza o al ganglio semiotico di Barthes e chi invece progetta complesse affabulazioni poematiche, e si porta sempre Omero e la Bibbia nel cuore: dall’edelweiss al campo di grano turco. Anche le forme visive differiscono molto: poesie a pettine sdentato, ad alberello, a piramide, a quadrato, a bandella pubblicitaria, a paragrafo narrativo, a nastro telegrafico, a convoglio ferroviario, a dazebao, per non parlare delle infinite soluzioni di calligrammi, già citati. Ma non vi è la forma giusta e canonica della poesia, così come lo zoologo non definisce la caratteristica canonica degli animali: con ali o con pinne? con peli o con scaglie? più lungo che alto? Nessuno, dunque, si picchi di stabilire i canoni della poesia moderna, ma tutti si limitino ad amarla.

E lucevan le stelle

Ciò che è comune a tutti i poeti di ogni tempo e luogo è la metafora espressa dall’aria della Tosca che mette a nudo il dramma del pittore Mario Cavaradossi: il luccichio delle stelle, cioè la visione del poeta, diviene massima proprio nell’istante in cui l’artista raggiunge la piena consapevolezza dell’inganno illusorio che egli stesso ha costruito e che ha suscitato in lui il massimo amore possibile verso la vita e contemporaneamente la massima vicinanza alla morte, cioè – fuori di metafora – al silenzio assoluto. Questo momento, di “amore e morte”, vezzosamente romantico, è l’equilibrio poetico tra la perfetta verità e il totale inganno. Per modi e per forme sempre diverse, esso è ricostruito ad arte infinite volte nella scrittura di ogni poeta. Intanto si è poeti in quanto si sappia dire come lucevan le stelle, cioè si sappia costruire una visione trasfigurata delle cose, ma anche millimetrica, precisa, puntigliosa, nitida, reale e materica. La visione perfetta e tangibile, quotidiana e veritiera della poesia è la realtà di ciò che non esiste, essendo ogni stella lontanissima e collocata in un cielo irraggiungibile, che però, attraverso l’inganno, è perfettamente toccabile, Giuseppe Giacosa usa un aggettivo impagabile, dice che è: fragrante.
Una nota canzonetta pubblicitaria, riguardante la bontà di un popolare salame, dice che “le stelle sono milioni di milioni, ma la stella di Negroni vuole dire qualità”. Potrebbe essere assunta come lo slogan del poeta: solo la qualità della visione rende buona la poesia, oltre che il salame. La visione del poeta è data dall’intreccio del suo discorso creativo: l’avere messo insieme con arte significati e significanti, avere disposto le parole negli spazi bianchi del foglio, avere composto il disegno armonico delle corrispondenze e dei contrasti delle diverse discipline impiegate, avere dato un ritmo profondo ai concetti espressi e una musicalità immediata ai suoni vocali, avere saputo fermare il sole e creare una dimensione temporale e fisica che si consuma in un modo diverso rispetto al consumo della vita, che forse durerà di meno oppure durerà di più, ma sarà comunque una durata diversa rispetto a quella della vita reale. Tutto ciò, Giuseppe Giacosa e Luigi Illica, indicarono con la metafora “e lucevan le stelle”, che poi altro non è che una delle perifrasi possibili per indicare la poesia. Non è, dunque, il tema che fa la poesia: ma è solo la qualità (come per il salame!). Altri dicevano che è la parola che fa la poesia. Ma la poesia non è fatta di sole parole. Anche di disegni e di segni sul foglio, anche di contrasti e di concordanze fra concetti e astrazioni, analogie e diversità, chiarezze e ambiguità. Ut pictura, la poesia richiede la vista del testo per essere pienamente colta nella sua fragranza. Ciò non significa che un poeta non possa essere cieco – lo è già stato e a quale livello! – esattamente come un compositore potrà essere sordo – lo è già stato e a quale livello! – purché sappiano ricostruire nella mente il suono delle note scritte sullo spartito ovvero lo spazio e la disposizione dei significanti registrati sul foglio bianco. In poesia si va a capo esattamente quando si vuole andare a capo: diffidate dei soloni che sostengono con alterigia il contrario! Si stramba al vento che ci siamo figurati in mente, un colpo di timone e si cambia verso, anche a metà di una parola, anche quando assolutamente non si dovrebbe farlo, ma si crea il salto, la rottura, lo strappo: volutamente. Oppure si può seguire una regola metrica, per cui si va a capo quando il verso di quelle date sillabe è finito, allora se ne incomincia un altro, delle stesse sillabe oppure diverso, in rima oppure senza rima. La migliore regola della poesia è non avere mai una sola regola fissa: è da lì che s’erge il primo gradino della qualità. Ma la qualità della poesia è una scala fatta di pioli che punta verso un equilibrio sempre più difficile ed etereo, perché in continuità è contraddetto, per gioco di analogie. Il poeta registra sempre più cose nel foglio bianco e per ognuna di esse dovrà cercare la buona qualità: la scelta del tema, delle parole, della forma, della memoria, delle citazioni, delle metafore, delle invenzioni, delle trasfigurazioni, delle inversioni, delle ambiguità, delle certezze, della retorica, della persuasione, dei convincimenti, degli ideali. Visto in una prospettiva di anni e di opere scritte, ogni poeta potrebbe divenire un manierista che scrive sempre e soltanto la stessa identica poesia per tutta la vita. E ciò non è un male, anzi è uno straordinario arricchimento in vastità e in profondità, perché ogni versione di quell’unica poesia sarà irriconoscibile da tutte le altre.

Il repertorio dell’amicizia

Difficile dire quale sia il senso e l’utilità delle antologie. Più facile definirle in negativo e cioè nominare le funzioni che le antologie non sono in grado di svolgere. Le antologie non servono a stabilire le eccellenze ossia gli autori memorabili e più rappresentativi, proprio perché quel tipo di poesia, che si era sviluppato sul versante delle “egregie cose”, è finito per sempre, come è finita per sempre l’epopea degli scopritori di nuovi continenti e delle terre vergini, dei missionari che convertono le genti al cristianesimo, degli eroi dei due mondi che combattono le guerre altrui in nome del progresso civile. È finita per sempre, pertanto, l’epoca di Prometeo scrittore destinato a portare la luce all’umanità barbara che vive nella tenebra, perché a vivere nella luce, collegati con internet e con le fonti dell’informazione e della cultura, c’è forse un miliardo di persone sul pianeta, che anche se rappresenta meno di un sesto di tutte le anime viventi, è comunque un numero sterminato e tale da rendere comica la funzione di Prometeo. Iddio ci liberi dai troppi prometei in giro ad ogni angolo di strada, in ogni sottoscala universitario, e dalla loro patetica scintilla! Le antologie non servono neppure a dettare i canoni e a stabilire l’elenco delle opere memorabili, proprio perché la poesia, sempre di più, si è affermata come linguaggio della libertà della parola, fino ai limiti dell’anarchia e dell’arbitrio (per i futuristi, poi, si va anche oltre!). Ciò significa che è poeta di qualità colui che conosce tutte le regole, i divieti, i limiti, i giardini chiusi e le riserve di caccia e, come fosse un cacciatore di frodo che non rispetta altro che il suo talento nel catturare le prede fatte di parole ma non solo di quelle, sa come si fa a entrare e a uscire impunemente da ogni gabbia, come si forza ogni scrigno dell’accademia, lasciando esterrefatti gli altri che non fanno altrettanto. La regola in poesia è non avere regole e, quindi, non ha senso costruire repertori che stabiliscano la regolamentazione della bellezza poetica. Eliminati questi punti focali dell’utilità del repertorio, resta valido solo quello della “lista degli amici”. Si debbono mettere in repertorio solo gli amici che desiderino testimoniare la loro vicinanza e la loro solidarietà artistica e culturale, escludendo olimpicamente tutti gli altri, come facevano con serena gioia gli stilnovisti al tempo delle origini: “ti metto in lista solo se ti piace essermi amico, ma se tu non gioisci di me, per me sarebbe pena grande averti accanto”. Verrebbe da chiedersi: se su facebook un tale poeta avesse cinquecento amici o forse di più, e i suoi amici fossero tutti poeti, la volta che egli volesse compilare un repertorio, li dovrebbe includere tutti e cinquecento? cioè quasi il doppio degli amici di Leonida? Beh, sarebbe la volta che Serse ne uscirebbe sconfitto e bisognerebbe riscrivere l’esito delle Termopili. In metafora, Serse rappresenta l’autorità che cade dall’alto, il deus ex machina che sistema la commedia d’arte, ma che altro non è che un re nudo, cioè una divinità fasulla. “Tutto chiacchiere e distintivo”, direbbe David Mamet: esattamente ciò, chiacchiere & distintivo, sono le antologie che vogliono pontificare nomi e opere di eccellenza. La parte del poeta, invece, è quella impersonata da Leonida, cioè di chi si affida agli amici per beffare l’esercito dell’imperatore che vuol imporre il suo ordine costituito delle cose. Al culmine della metafora, solo Leonida interpreta fino in fondo l’aria rivelatrice di “e lucevan le stelle”. Per concludere, ogni repertorio moderno che si rispetti non dovrà proporsi come decalogo dettato dall’alto. In poesia, ogni Annunciazione dell’elezione divina si ritorce subito in ridicolo. L’antologia moderna è, invece, una libera espressione dell’avventura cui conduce l’amicizia di penna, la gioia di essere insieme, la mappatura ideale del bosco condiviso, il palinsesto del sogno descritto e commentato. Siano benedette le antologie e ne vengano quante più se ne possano scrivere o leggere: ci procureranno sempre gioia, purché esprimano la traccia autentica degli scrittori che si sono riuniti insieme per testimoniare la loro amicizia di scrittura. Mi piace qui rendere omaggio a uno dei più grandi critici letterari italiani viventi, si tratta di Emerico Giachery, autore tra l’altro del magnifico libro di saggi critici che si chiama Letteratura come amicizia: proprio dall’amico Emerico confesso di avere derivato il gusto e il valore dell’amicizia nata e condivisa in nome della letteratura.

La festa dei coscritti

L’antologia Trent’anni dalla Genesi è composta solo da autori pubblicati dalla Genesi che hanno accolto l’invito di celebrare il trentennale in nome dell’amicizia poetica che li lega alla casa editrice. I poeti pubblicati da Genesi sono oltre trecento (a proposito di Leonida!). Ma poco più che ottanta sono quelli che hanno risposto all’invito. Gli altri hanno tentennato, hanno smarrito il foglio di adesione o hanno smemorato l’impegno assunto a voce; infine, molti hanno semplicemente risposto che non condividevano l’iniziativa. Nessun autore è stato incluso d’ufficio dal curatore, ma qualche poeta, che ha rinnegato pubblicamente l’amicizia verso la Genesi dei poeti, per ossequio alla sua presa di lontananza, non ha neppure ricevuto l’invito di ritrovarsi in antologia. Esistono nel catalogo della Genesi numerosi nomi di poeti anche prestigiosi che tuttavia non figurano nella presente antologia perché non sono sensibili al richiamo della letteratura come amicizia: essi credono ad altri valori. Esercitano la letteratura come professione retribuita ovvero come elezione di dignità, all’insegna della sapienza, dell’erudizione, dell’etica, dell’estetica: si tratta di parole grosse! Essi, oggigiorno, si collocano con coraggio ai confini dell’eroico e del comico, già un poco abbagliati dall’allucinazione di sentirsi l’ultimo dei moicani ovvero il primo hidalgo. Gli autori presenti, invece, è come se facessero la festa delle matricole: magari operano in Genesi da trent’anni, ad alti livelli di prestigio, anche fuori della casa editrice, ma la loro gioia di partecipare è sempre quella del novizio. Questo è il presagio dell’autentico valore poetico: proporsi come avventizi in un mondo e in un linguaggio che sono in continua metamorfosi, con la gioia di inventare ogni volta la parte che si vuole.
Un sentimento di inossidabile amicizia lega il curatore dell’antologia a Liana De Luca, che è stata negli anni e lo è tuttora l’anima femminile per antonomasia della Genesi: è il poeta che più di ogni altro si è prodigato con l’opera critica e con la partecipazione creativa a costruire la fisionomia e l’evoluzione di tutte le attività editoriali della casa. Il vincolo di amicizia e di proficua collaborazione è altresì vivido nei confronti di Elio Andriuoli e di Giorgio Bárberi Squarotti, poeti e studiosi che hanno dedicato molto del loro impegno alle attività di Genesi. E sullo stesso piano sono gli autori Giovanni Chiellino, Luigi De Rosa, Giuseppina Luongo Bartolini, Loris Maria Marchetti, Pierantonio Milone, Carlo Molinaro, Rossano Onano, Gianni Rescigno e Armando Santinato, stretti amici e collaboratori sempre operosi ed efficaci. Fra gli amici poeti di antica e di sicura nomea nazionale sono da includere Marcella Artusio Raspo, Giovanni Barricelli, Roberto Berardi, Aldo Berti, Angelo Caroli, Franco Castellini, Fausto Cercignani, Walter Chiappelli, Ferdinando Clavarino, Mirka Corato, Angela Donna, Mauro Ferrari, Eraldo Garello, Renato Greco, Diego Luciano Mantelli, Natino Lucente, Nevio Nigro, Giuseppe Rabezzana, Liliana Ugolini, Eugenio Vitali, Guido Zavanone e Franco Zoja. Sono amici di antica data e di dolce e rarefatta frequentazione Marzio Banfi, Luciano Calvi, Maria Teresa Codovilli, Domenico Cultrera, Antonio Faccio, Agostino Gandolfi, Marco Guglielmino, Fernando Maina, Adriana Mondo, Rita Montanari, Gerardo Pagano, Mario Parodi, Anna Gertrude Pessina, Flaminio Gastone Pezzuoli, Maria Rosa Pino, Mimma Pisani, Eliseo Pisinicca, Ugo Pupillo, Davide Riccio, Serena Rosso, Anna Maria Salanitri, Gianna Sallustio, Edio Felice Schiavone, Grazia Sciolla, Roxi Scursatone, Franca Simonelli e Laura Vanetti. Sono amici di recente data, rispetto al trentennio che si celebra, ma di vividissima operatività e importanza – anche affettiva – Gaetano Alessi, Ferdinando Banchini, Gabriella Bertizzolo, Beatrice Bressan, Carlo A.M. Burdet, Francesco Clausi-Schettini, Giovanna Colonna, Maria Grazia Fidora, Tiziano Fratus, Giacomo Giannone, Paola Grandi, Silvia Marzano, Antonella Montalbano, Giacomo Panicucci, Gino Pastega, Maria Domenica Piccatti, Franca Pissinis, Nicola Prebenna, Mario Rondi, Clara Serra.
L’inserimento degli amici di Genesi in questa antologia non rende pieno onore al loro valore letterario, ma si limita a darne un vago accenno: come se fosse solo un apostrofo, meglio ancora un’apocope, cioè l’elisione quasi totale dei loro meriti. Ciò che conta è l’avere deciso con semplicità e senza cerimonie di partecipare insieme questa trentennale ricorrenza, che s’intona al sogno gentile del padre fondatore della nostra lingua: “Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io fossimo presi per incantamento e messi in un vasel, che ad ogni vento per mare andasse al voler nostro e mio” (si vada pure a capo ut vobis libet, cioè senza l’incubo perentorio delle barrette: si rispetterà anche così la carta segreta di Dante di concepire il dolce stile come fosse la più alta declinazione poetica dell’amicizia).

Sandro Gros-Pietro

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