Prefazione

La specialità di Edith Dzieduszycka consiste nella ricchezza delle arti con cui si esprime: il collage, la fotografia, la scrittura sono i tre principali regni della sua natura creativa. Ma all’interno di ciascuno di essi è strabiliante la diversificazione delle forme stilistiche che l’autrice fa coabitare e interagire fra loro. Eravamo rimasti, circa un anno fa, all’essenziale asciuttezza aforistica di Cinque + Cinq, che ci aveva conquistato per il lindore sapiente delle riflessioni poetiche, orientate al relativismo moderno, e alla moltiplicazione delle realtà possibili come accade nella rappresentazione dell’universo a stringhe della fisica dei quanti. Cinque + Cinq, nella sua affascinante impostazione bilinguistica in Italiano e in Francese, organizzato secondo un’armonica bipolarità versale di due tempi scanditi su due strofe, a loro volta racchiusi in due sezioni non a caso denominate Uno e Due, rimane una perfetta visione caleidoscopica della possibile forma del pensiero poetante moderno, vagamente ispirato o meglio orientato alla visione esistenziale della vita e quindi a un pessimismo di sostanza, profondo, teorico o meglio teoretico.
Il libro Trivella, che esce oggi come una fresca novità, ma che in realtà è l’approdo in versione conclusiva di una ricerca o meglio di un’invenzione creativa su cui la scrittrice ha lavorato negli ultimi anni, con un’azione continua di rinvio e di ripresa, di rifinitura e di riformulazione, è la proposizione di una poesia in prosa con lo sviluppo tipico del poema che risulta imbastito intorno a una vicenda da raccontare. Ma nel caso di Trivella, più che una vicenda reale o un mito si tratta di una visione onirica ovvero di una rappresentazione surreale o anche di una indagine nella psicologia del profondo. In questo tipo di espressione poetica, lo studio della prosodia e quindi della quantificazione e della lunghezza, mu­si­calità, accentazione degli spazi versali, diviene una spe­rimentazione del tutto nuova, totalmente rivoluzionata nelle sue regole deputate e fisse che avevamo visto ap­plicare dalla scrittrice in Cinque + Cinq. Qui il verso è vo­lutamente franto in una sillabazione intermittente da alfabeto Morse, come una lunga striscia telegrafica di lemmi e di locuzioni, attraverso i quali l’autrice intende marcare il significato drammatico del messaggio. Dunque, si tratta di un dramma, sì, cioè di una teatralizzazione dell’evento descritto che ammetterebbe la messa in scena, come nientemeno si vede fare da Dante, precisamente nella Divina Commedia. E, pertanto, si tratta di un viaggio, cioè di un movimento di ricerca verso la me­ta deputata. Il viaggio è altresì drammatizzato, più esattamente si svolge in un’atmosfera di carattere tragico, in cui è romanticamente bandita la gioia e tende a trionfare se non la disperazione per lo meno la rassegnazione al destino avverso, cioè alla situazione in cui il protagonista – un iconico Ulisse in viaggio di canoscenza – è destinato a realizzare il suo conclusivo naufragio che in realtà consisterà nella dissoluzione nel nulla, come già lascia intendere pienamente il titolo del poema, Nulla per te. Va detto, quindi, che i poemi di Trivella sono due. E infatti, a Andata e ritorno fa seguito Nulla per te. I due esergo scelti dalla scrittrice per orientare il lettore nell’interpretazione di Trivella contribuiscono già da subito a conclamare l’atmosfera di sconfitta cui prima si accennava. Giorgio Caproni, il poeta della “teologia negativa” e del Deus absconditus, viene citato, sì, citato in Lilliput e andatino, che è probabilmente la sezione più antifrastica, ironica e addirittura giocosa, ma è pur sempre una tessera del libro Il muro della terra, cioè l’ossuta e scarnificata dichiarazione di resa di Ca­proni circa l’impossibilità di mettersi in contatto con l’al di là e, anzi, l’inerenza del poeta al rimanere nell’al di qua. Dunque, dietro la Dzieduszycka, del poemetto Nulla per te, c’è Giorgio Caproni. E come bene si sa, dietro Giorgio Caproni c’è Dante del Canto X dell’Inferno, “Or sen va per un secreto calle, tra il muro della terra e li martìri”, che segue Virgilio verso l’incontro con Farinata degli Uberti, l’eretico seguace di coloro che l’anima col corpo morta fanno, perché non credono nell’immortalità dell’anima, uomo di altissima dignità e di nobile sdegno dei terreni privilegi, cui si deve parlare, benché sia collocato all’Inferno, solo rivolgendogli parole conte, cioè di massimo riguardo. Dzieduszycka intende dirci che se anche lo si trivella, tale muro della terra, quanto e come si vuole, si rimane sempre nell’al di qua, e non è dato raggiungere, con alcuna azione di sca­vo della mente e della ragione, così come della poesia, la dimensione dell’al di là. Cioè, per dirla dantescamente, l’uomo del ventunesimo secolo è consapevole di non potere arrivare a contemplare l’amore che fa girare il sole e l’altre stelle. Questa è, dunque, la morale della favola: non c’è nulla per te, caro poeta che ti illudi, coi tuoi fantasmi e coi tuoi sogni! Ci sono, tuttavia, i tuoi fantastici inganni; le tue apocalittiche visioni; i tuoi mondi onirici e trasognati; i tuoi ipnotizzanti incubi. Ce n’è un intero cratere colmo, con tanti personaggi colorati – possiamo leggere, con tanti artisti! – che girano a vuoto dentro il loro circolare e perfetto incubo, senza bocca per parlare e senza occhi per vedere e via di seguito. Ma non forziamo troppo le pur splendide metafore di Dzieduszycka, perché sarà bene ricordarci che l’autrice ha in capo un riferimento del mondo che è di natura quantistica e, quindi – se le mie scarsissime nozioni di fisica non mi tradiscono – ammette una pluri-realtà pari a 10 elevato alla trentacinquesima potenza del numero di mondi diversi e possibili rispetto a quello che noi siamo in grado di esplorare, cioè un pandemonio di demoni inimmaginabile per qualsiasi mente umana. Così quel tale albero che si colloca alla fine del viaggio – reminescenza e reinvenzione del biblico albero della conoscenza, il melo i cui frutti sono proibiti al genere umano nell’Eden – al cui tronco è legata la presenza di una “Lei” che può essere la Grande Madre ovvero Eva o chissà qua­le altro mito o divinità oppure un piccolo oggetto minuscolo del vivere quotidiano, un qualsiasi feticcio si voglia evocare, è destinato ad annichilirsi in un bagliore accecante ed esplosivo di totale nullità.
Andata e ritorno ripercorre il mito così caro ai poeti fin dall’antichità del trapasso nell’Ade e del ritorno al mondo dei vivi. La riproposizione è in chiave mo­derna, con elementi di invenzione psicanalitica e visionaria, con apporti della scienza e della fantascienza. Fa lo stesso, e non cambia molto, se invece del pneuma cerchiamo adesso la cosa, così come altre civiltà hanno cercato al loro tempo la piuma ovvero lo spirito. Ma, nel poemetto della Dzieduszycka, ci sono anche aggiunte dell’ultimo minuto, come il diritto all’eutanasia, cioè alla morte felice, che è una stridente contraddizione in termini, ma che è sicuramente di antichissima proposizione e di modernissima attualità, e che oggi gior­no è divenuta una pratica molto diffusa, oggetto di accese diatribe circa la sua liceità di attuazione. L’anima – ovvero sia la cosa – esiste? e dove va a finire? e chi ne sarebbe il detentore? e con quali diritti di disponibilità? Si tratta di questioni che, come bene si sa, costituiscono la storia del pensiero umano, e che Dzieduszycka sviluppa con ariose metafore e con poetici racconti, ricchi di fascino e di lucente immaginazione e invenzione. Sem­bra quasi un bagliore di algida sapienza, su un tema così vitale e luminoso, avere dedicato da parte della scrittrice l’esergo a Emil Cioran e al suo tagliente e inflessibile pessimismo umano.

Sandro Gros-Pietro

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