<b>PREFAZIONE</b>

I guardiacaccia ammoniscono i visitatori dei parchi alpini di non avvicinarsi al cucciolo del capriolo, accucciato nell’erba o fra i cespugli del bosco. La madre, infatti, sarà sicuramente vicina e vigile perché non abbandona la prole, ma gli impone di acquattarsi silente nel nascondiglio prescelto quando ode avvicinarsi l’uomo: lei cercherà di attirare su di se l’attenzione dell’importuno, pur di allontanarlo dal figlio. Ma se per sventura, l’uomo dovesse dirigersi verso il cucciolo, toccarlo, accarezzarlo e vezzeggiarlo, allora la madre, col cuore infranto, lo abbandonerà a se stesso, perché l’istinto le impedirà di allattare il cucciolo che abbia assunto l’odore dell’uomo. È sufficiente l’odore dell’uomo a uccidere una innocente creatura selvatica. All’improvvido visitatore non resterebbe che dolersi per sempre del gesto involontario con cui, per confortare un cucciolo lattante, lo ha invece condannato a sicura morte. Sarà come il giovane Ciparisso, di cui Maria Domenica Piccatti rievoca il mito, che involontariamente uccide il capriolo donatogli da Apollo e chiede allora al dio di ricevere il privilegio di piangere per l’eternità l’amico ucciso e viene dal dio trasformato in cipresso, le cui gocce di resina rigano il tronco come le lacrime scorrono sul volto dei penitenti. È, dunque, nel segno del capriolo che si riconosce questo splendido libro della scrittrice canavesana, come nel simbolo del panda si identificano i naturalisti di tutto il mondo. Il capriolo è la creatura nobile, carica di sconvolgente bellezza ed eleganza, che abita i boschi della regione in cui è nata la Piccatti, e colà conduce un’esistenza libera, scontornata ai bordi di una riservatezza impenetrabile, cioè di un comportamento discreto che sconfina già nel segreto, e proprio nel segreto, cioè nel silenzio meditato e riguardoso rivolto agli eventi che ci circondano, sta la <i>vera verità</i> delle cose, come la poetessa fa dire dalla voce di una zingara in una rivelatrice poesia, contenuta in questo libro.

&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;<font size=-2>Fu poi la giovane zingara
&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;nel crepuscolo, a Torino,
&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;in piazza degli Angeli,
&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;a dirle con lunghi occhi:
&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;“la verità che tu cerchi
&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;è un segreto”.</font>

La poesia di Maria Domenica Piccatti è orientata a descrivere il mondo che esiste nella profondità delle cose e che, per contrasto, appare fragile e provvisorio, gentile e luminescente, come fosse un’estasi ideale. Per indicarne la condizione, la Piccatti ha dovuto coniarsi un nuovo vocabolo, non trovando il significante che le premeva all’interno del pur ricco lessico italiano, e ha definito tale virtù una splendezza, che non abbiamo difficoltà a intendere sia la fusione di bellezza e di splendore, cumulati insieme.

&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;<font size=-2>E allora, trovandolo
&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;soltanto allora la tua acqua
&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;la tua mano sapranno

&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;potranno sapere la splendezza
&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;del fare, del fare bene
&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;&nbsp;del coltivare.</font>

Questa atmosfera di vita autentica e rivelatrice, cui allude il libro, è contrassegnata dalla <i>Grazia</i>, che è uno dei tre elementi portanti, insieme alla <i>parola</i> e al <i>Tu</i> della seconda persona, che titolano e che riassumono l’intera raccolta di poesia, <i>Tu, per Grazia e per parola</i>. Come bene si sa, le accezioni del vocabolo grazia sono numerose, ma qui importa sottolineare che esse ricevono sostanzialmente una partitura divisa in modo paritario tra un’area religiosa da una parte, che è sostanzialmente pentecostale, e un’area laica dall’altra parte, che è sostanzialmente mitologica. La nostra poetessa è decisamente orientata verso l’area laica, con attrazioni e seduzioni verso il mito e verso la verità nuda e cruda assurta a modello comportamentale metastorico. Basti dire, al riguardo, che la Piccatti non ci fa segreto di tenere in particolare considerazione, intellettuale e affettiva, la poesia di Giuseppe Conte, il poeta contemporaneo che più di ogni altro ha rivalutato con soluzioni di grande attualità la poetica del mito nel mondo moderno. Ma entrano negli interessi di Piccatti non solo il mito classico, con l’ineliminabile aura di epopea sia eroica sia tragica che tali argomenti si portano appresso, ma vi confluiscono anche le tradizioni popolari, il folclore locale, la mitologia contadina e montanara, i concatenati rosari di leggende sulla furbizia del diavolo, delle streghe e dei popolani, senza escludere, infine, gli echi dei canti carnascialeschi che hanno trovato in Lorenzo de Medici il celeberrimo esito del <i>Trionfo di Bacco e Arianna</i>, e che da Piccatti viene ripreso in chiave parodistica, sostituendo in luogo della <i>giovinezza</i> cantata dal Signore fiorentino il vocabolo della <i>libertà</i>, quintessenza del vangelo personale della nostra poetessa: “Quant’è cara libertà / che dileguar però si può / chi vuol dire dica pure / per domani non si sa”. Si è parlato di un equilibrio ternario, in cui accanto alla Grazia, si collocano altre due entità poetiche. La prima è il <i>Tu</i>, cioè la <i>seconda persona</i>, come recita la grammatica della lingua italiana. E la persona in seconda, a sua volta, rappresenta un ventaglio di possibilità poetiche e di racconto: l’alterego, lo specchio, la persona amata, l’io riflesso, il simbolo del prossimo, la genericità di un interlocutore indefinito ma ordinario, il volto canonico e astratto dell’esemplarità. Poiché il registro di Piccatti è tanto ampio quanto è allusivo, tutte queste categorie letterarie possono ingaggiare una pertinenza di significati nelle formule poetiche sviluppate dai suoi versi, anche se l’indole più autentica della poetessa risulta essere agganciata agli eventi e alle persone concrete della realtà quotidiana, per cui le “seconde persone” che si muovono sul proscenio della rappresentazione poetica di Piccatti sono personaggi che paiono radicati nella memoria autobiografica della scrittrice, sono voci di persone che suscitarono emozioni, che aprirono o che chiusero orizzonti di eventi probabili, che accesero o che spensero i fuochi del bivacco di quel lungo viaggio di ricerca che è la vita di ciascuno di noi. La vocazione di questa poetessa a mantenere saldo il rapporto di corrispondenza con il mondo reale non deve tuttavia portare a credere che essa non si serva proprio della poesia per aumentare indefinitamente il territorio della realtà, in quanto è un fatto reale ogni immagine costruita o anche soltanto pensata, come giustamente argomenta Ludwig Wittgenstein nel suo <i>Tractatus</i>: “L’immagine è un fatto”. Nasce da questa considerazione, nell’economia del discorso poetico di approccio ad una nozione fondante di conoscenza della vita, l’importanza che assume il sogno ovvero anche il viaggio carrolliano nel paese delle meraviglie, raccontatoci da Alice, e alluso dalla poetessa canavesana, tra utopia e surrealtà, nei versi dedicati al giardino che non c’è, variante edenica dell’isola di Peter Pan: “ Avere un giardino e coltivarlo / è una grande fortuna. Non averlo / è una fortuna ancora più grande / perché puoi sognarlo. / Averlo avuto e non averlo più / è il massimo della fortuna / perché puoi sognarlo meglio”. Il terzo pilastro che Piccatti erige per architettare l’equilibrio della costruzione è la parola, cioè il linguaggio, la nominazione del reale e l’affabulazione della vicenda accaduta o che dovrà ancora accadere: una parola di incanto e discanto, tenera e leggera, ma anche sfaccettata e poliespressiva, diafonica, infine, dantesca e babelica. Succede, così, che la forma contenutiva del suo racconto in versi sia libera a ogni esercizio di stile e preveda il verso breve esattamente quanto contempli il verso lungo, sconfinante nel rotolamento sillabico a diluvio sui pendii della narrazione: ciò accade perché Maria Domenica Piccatti vuole darci la percezione, anche di forma e di stile, di quanto significhi, nella sostanza, il vocabolo <i>libertà</i>, in termini di affrancamento da ogni regola costrittiva. Infatti, è propria questa l’immensa invenzione e l’unica aspirazione di ogni poeta che veramente rispetti il patto di fedeltà pronunciato all’indirizzo delle muse: l’artista deve essere libero, come lo è il volo di un uccello nell’aria. Tutto ciò non è libero arbitrio, ma interpretazione millimetricamente intuitiva della necessità di compiere, almeno una volta nella vita, il volo perfetto, che, come bene si sa, è una grandezza della mente assolutamente indefinita.
La poesia di Maria Domenica Piccatti, quasi per sortilegio captivo della sorte, nasce da un preciso riferimento biografico e si colloca nel quadro delle umide terre del Canavese, verzicolanti dei boschi che ancora racchiudono gli ultimi esemplari di fauna selvatica, ma in realtà s’invola verso un canto libero della mente che è lezione di apprendimento sulle possibilità di orientare la vita civile di ognuno di noi a un modello universale di rispetto di ogni altra forma di esistenza con cui si collude. La poesia, allora, diviene comunione ecumenica celebrata nel racconto delle vite che insieme compongono il fragile mistero di luce, ogni volta illuminatosi per poco tempo, prima che sopraggiunga la morte.

Sandro Gros-Pietro

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