Prefazione

Noi sappiamo che è dovuta alla preziosa opera di Laura Berti la collazione degli ultimi scritti del poeta Nino Pinto. Si è trattato di un’opera di riordino certamente non facile perché il poeta aveva maturato l’abitudine di scrivere a mano su taccuini o talvolta su fogli sparsi, per poi successivamente riordinare gli elaborati in brogliacci dattiloscritti. L’operazione di sistemazione e di battitura dei testi era compiuta solitamente con la preziosa collaborazione della professoressa Berti, che a tutti gli effetti era l’amica sodale più vicina al poeta per ciò che rappresentava l’elaborazione finale della scrittura. La confidenza maturata negli anni tra lo scrittore e la professoressa ha permesso a quest’ultima di condurre con assoluta fedeltà al testo il riordino delle Ultimissime, dopo la morte di lui. Bisogna essere grati alla professoressa Berti, grazie alla cui opera non è andato perduto nulla della vasta produzione che ora esce postuma a circa sei mesi di distanza dalla scomparsa dell’autore e che non avrebbe mai potuto vedere la luce, se non ci fosse stata quella liaison littéraire tra lo scrittore e la professoressa, che ha permesso a quest’ultima di leggere – e sovente di interpretare! – con assoluta pertinenza e fedeltà al testo la calligrafia assai minuta e ostica con cui Nino Pinto vergava la minuta delle sue opere.
È anche il caso di soffermarsi con qualche osservazione sullo stile formale delle composizioni di Pinto. Egli si è indirizzato sempre più nel tempo verso una poesia organizzata su una sola proposizione, anziché con uno o più periodi, come avveniva nelle prime opere da lui scritte. La proposizione, bene si sa, è l’elemento base della scrittura, come il mattone lo è di un muro, di un bastione, di un’intera fortezza. Con l’accumulazione e l’assemblaggio di tante proposizioni, tutte simili ma nessuna uguale alle altre, prende forma la visione complessiva dell’opera. Se stessimo parlando di pittura, avremmo in capo il divisionismo ovvero la grafica puntiforme, ove la figura complessiva è scomposta in tante minuscole tracce segnaletiche, semplici punti che addensandosi e condensandosi secondo il criterio rappresentativo voluto dall’artista originano la figura complessiva. Questo criterio creativo è stato trasportato dalla pittura alla poesia, secondo l’istruzione impartita da Orazio, ut pictura poiesis. La derivazione classica o comunque latineggiante dello stile di scrittura di Nino Pinto deriva anche dal marcato uso della proposizione inversa anziché di quella diretta, tipico della sintassi latina e assai meno usato nella lingua moderna. Anziché soggetto verbo e complemento, molto sovente troviamo il verbo, il complemento e il soggetto, secondo l’uso latino di enfatizzare l’azione verbale avant tout. C’è una dimensione indeterminata del fare che fa aggio e che fa premio, nella poetica di Nino Pinto, sulla dimensione nominativa del soggetto. Sfuma la consistenza autobiografica della poesia, mentre prende corpo e sostanza l’indagine interpretativa del­la conoscenza e dell’azione umana, con elaborazione etica, estetica e metafisica.
Del pessimismo di Nino Pinto si è già fino troppo favoleggiato. Nessuno può negare che la visione del nostro poeta non è angelicata, ma al contrario è carica del tormentoso dubbio amletico di scambiare l’apparenza con la realtà, anche con il patema che quest’ultima sia nel profondo ancora più insidiosa e deleteria di quanto possa sembrare in superficie. Da questo bisticcio irrisolvibile tra ciò che è un fantasma del reale e ciò che è concretamente vero nasce quel sentimento di inganno che attraversa tutta la produzione degli ultimi anni di Pinto e che è indubbiamente l’ossatura portante della sua poetica, come le alpi e gli appennini lo sono della bella penisola. Quindi, per concludere, è ovvio che vi è una matrice di irrisolvibile pessimismo nella poetica pintiana. Ma occorre anche parlare del suo indomabile spirito eroico, della sua irriducibile epicità, della sua irrinunciabile partecipazione con generosità al processo catalettico dell’esperienza umana, che va vissuta con atteggiamento socratico di convinta partecipazione, pure nel dubbio di ambiguità totale che essa suscita: bisogna bere fino in fondo la cicuta, nella piena consapevolezza che è un veleno e nel dubbio se, dopo averla bevuta, si starà meglio o peggio di prima, come ci racconta Platone nel suo Fedone. Proprio in questa sottolineata insistenza di continua riproposizione dei processi vitali e ingannatori della vita c’è il grido di Pinto, che non è quello di Munch, tipico della nevrosi e della pazzia moderna, ma che è il grido dell’eroe greco, l’urlo di Leonida contro Serse, e che nasce dalla consapevolezza che il massimo della bellezza sta nell’avere coscienza dell’inanità della sfida, ma anche ristà nell’impossibilità di sottrarsi ad essa, senza perciò perdere il valore profondo dell’umanità, che è nata per vivere generosamente e con partecipazione nel dubbio più totale delle sue azioni.
Proprio questo aspetto di superamento dell’io narrante e di abbandono della deriva autobiografica della poesia moderna e contemporanea e, contemporaneamente, di vocazione della mente e dello spirito ai grandi temi dell’esistenza c’è lo spessore e la ricchezza del discorso poetico di Nino Pinto: una grande rammemorazione della ricca eredità di pensiero e di azione che appartiene all’umanità e alla fatica dell’uomo di riproporsi come un eterno sconfitto degli dei, che mai sarà totalmente vinto e abbattuto.

Sandro Gros-Pietro

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