PREFAZIONE

La poesia di Walter Chiappelli è una sinfonia di lunga durata, che inizia circa trentacinque anni or sono con la pubblicazione di Vivi nel 1977, sua opera prima, cui ha fatto seguito a distanza di due il bel libro Il dolore disarmato, con prefazione di Alessandro Parronchi, voce e mente tra le più alte in assoluto della poesia italiana dello scorso secolo. Parronchi è stato il primo e il più grande a riconoscere in Chiappelli la presenza e il valore di una poesia di consistenza e di grande pregio. A datare dall’inizio del terzo millennio, Chiappelli ha as­sunto il ruolo di autore di riferimento nella casa editrice Genesi, dove ha sempre fedelmente pubblicato le sue poesie, lasciando l’impronta del suo stile e della sua opera in modo indelebile. La presenza di Chiappelli nella Genesi costituisce quasi un marchio di identificazione anche per la casa editrice, anche perché l’autore ha toccato con la sua produzione ben tre collane diverse del catalogo di edizioni.
Chiappelli è sicuramente scrittore di impostazione religiosa, ma non clericale. La ragione non risiede affatto in presunte riserve nei confronti del mondo ecclesiale, ma deriva invece dall’amore senza barriere che egli rivolge al creato, opera immensa e abbagliante del grande Facitore. Il poeta ama ogni singola creatura e tutte in modo eguale. Anche le creature più ordinarie e meno significative, come l’umile formica: “Se l’occhio la vede il piede di colpo / evita di schiacciare la fragile / possente formica indaffarata / intenta a spingere il chicco di grano; / sul suo corpicino brillano i raggi / del sole pare una fiammella ebbra / zigzagante tra sassolini-montagne / creatura della terra e della luce / la tua vita ravviva il mondo”. Certamente, Chiappelli ama l’uomo con l’immenso slancio di fraternità operosa e confidenziale che è ma­nifestata da chi segua con convinzione partecipativa l’invito cristiano espresso dalla buona novella. Ancora più dedizione, però, Chiappelli ha sviluppato nell’amore rivolto alla donna, di cui ha sempre cantato con armoniosa e sodale gioia la bella carne e il dolce spirito, materno e muliebre: “oh la grazia dei canti l’agili danze / le dolcissime poppe fluttuanti / l’accese gocce sull’accaldato volto”. All’interno dell’umanità, Chiappelli non fa alcuna distinzione, se non sulla base del sesso, proprio come fece Dio sia nell’Eden sia sulla terra: gli esseri umani sono tutti eguali, giovani e vecchi, di un colore o dell’altro, gli uomini si possono distinguere solo per sesso, tra creature che partoriscono e creature che fecondano, non stabat alias, non ci sono altre differenze, perché Dio non ne ha voluto fare altre. Il sacerdote, dunque, non ha precedenza sul laico, ma non ne sconta neppure la dipendenza. Nella visione di Chiappelli, il potere degli uomini sugli altri uomini non sortisce né dalla fede né dall’amore, ma sovente riesce ad imporsi da sé, con pratiche losche o violente. Questo modo di pensare la storia colloca Chiappelli lontano dagli autori con vocazione politica. Infatti, tutto il suo pensiero risponde a una visione che è nel contempo sia metafisica sia iper-realista, come fosse concepita in un ossimoro misterioso ed affascinante. Da un lato c’è la contemplazione di Dio; dall’altro lato c’è la contemplazione delle cose del mon­do. Volutamente manca la politica che fa delle cose del mondo la teoria e la pratica di scontri e di alleanze degli uomini fra di loro, cioè la politica. Dunque, Chiappelli è un poeta metafisico e realista, possiede fede e prassi, vive la vita con illuminata speranza e immediata partecipazione; è tuffato nell’effimera caducità del momento come se fosse l’estasi immobile dell’eternità. Non sorprende il riferimento così esplicito a Gertrude Stein, rose is a rose, is a rose, is a rose, contenuta nel poema Sacred Emily. Alla fine, anche per Chiappelli come per la Stein la parola conta più per l’effetto del suono che non per il suo significato: “La potenza canora e la sua grazia / inebriante racconta l’usignolo / cantando, i suoni sono parole / ineffabili donategli / dall’energia sublime / della natura eterna”. Il significato di una parola si è perduto – anzi, si è moltiplicato – nei labirinti della mente umana dove si è clonato in una sorta innumerevole di metafore, deviazioni, derivazioni, allegorie, traslazioni e altri fantasmi della semiologia. Ma diceva Shakespeare che una rosa anche se si chiamasse altrimenti sarebbe sempre una rosa per il suo profumo. Una rosa è una rosa per il suo suono, potrebbe dire – e forse lo dice – la Stein. Ma la ripetizione insistita significa che una rosa è sempre una rosa anche nella seriazione di tutti gli altri significati metaforici che si porta dietro e dentro di sé: il sesso, l’amore medievale, le proiezioni favolistiche, le emozioni umane, la divinità celeste e altre cose. Dunque, ci dice Chiappelli, la cosa è lì, davanti ai nostri occhi: è limitata, ma è anche infinita, è uno splendido ossimoro, qualunque cosa ami di lei, tu stai amando sempre lei. Attraverso questa strada, incredibilmente Chiappelli, uomo di profonda fede, reintroduce Dio in un mondo che ha ucciso dio sugli altari e nella vita quotidiana. Infatti, Chiappelli ci dice che Dio sta nell’infinità delle cose finite che ci circondano, è immanente nel creato, è la rosa che è una rosa che è una rosa, eccetera. Il che è come dire che, alla fine, Dio è consustanziale alla mente umana, e che non può essere data una mente umana che non ricrei dentro di sé il concetto e la visione di Dio e, quindi, anche tutte le altre coniugazioni possibili sul divino: credere, disperare, pregare, bestemmiare e tutti gli altri corollari. Tutto ciò è sempre Dio, qualunque azione si svolga è sempre un atto di congiungimento con lui, è una religio, perché una rosa è una rosa, è una rosa.
Lo stupore è il sentimento più nobile e gentile che possa provare l’uomo, e va da sé che esso sia una specialità dei poeti: “Oh, si autodipinge con arte divina / sul velo sanguigno dell’essere mio / la dolcezza dell’uva / il profumo armonioso della viola / il sogno della fonte l’acqua in canto / la letizia volante nell’azzurro / […] / Così contemplo / questi casti stupori terreni celestiali / in ogni attimo fuggente ch’io sono, / tanto li godo”. Lo stupore sfocia nella meraviglia del mondo che incanta e affascina prima di tutto con la musica delle sue voci, che sono altrettanti canti angelici, ma altresì anche con la fantasmagoria dei colori: “Oh i tuoi colori, / rifiorita natura, sì smaglianti/ anche dentro me sono in estasi eterna / l’attimo s’innamora della beltà / eccelsa e più non fugge la inanella / venga pure la brina tenace / sopra il cuore pulsante / la fredda nebbia nell’occhio radioso / nella mia mente maturano i frutti /della speranza”. Quest’ultima citazione si conclude con uno dei vocaboli di maggiore forza poetica del pensiero dello scrittore, la speranza, che è veramente l’orizzonte a tutto campo dell’intera poesia di Chiappelli: “tra l’incudine e il martello scintilla / il bronzeo fiore della speranza, vero? / No, la speranza è il fiore dei fiori / viva rosa nei verdi campi degli animi / il suo cangiante destino, vago / fermento primaverile, s’impone / alla cosmica sorte falce d’oro / che investe e annienta / ma speranza si sbuccia non si disfiora / – (anche la via della morte è speranza / – salvezza che non mente – / per chi non vede luce in questo mondo) –”. In questa visione di luce – e la luce, nel pensiero poetico di Chiappelli, è sinonimo di bellezza – tutto appare non solo accettabile, ma anche desiderabile e armonioso, compresa la vecchiaia: “Sì, invecchio: Bianche anche le ciglia, / il tempo non invecchia eterno occhio / nessuno può tarlare la sua luce / è costante affermazione è il potere / dominatore, si sa”. Altrove, leggiamo la ripresa dello stesso concetto, la luce degli occhi mantiene viva la bellezza anche nei vecchi: “Hanno occhi le rughe dei vecchi in forza / talvolta più bramosi / degli occhi accesi in volto, / dalle fitte rughe piccine e grandi / scoccano sguardi golosi di gioia / e gioia l’illumina / quando venere, levigata la pelle / quale buccia di mela fresco ardore / passa, in trasparenza il corpo voluttuoso”. Ma l’esempio più pieno della beltà senile sta nella celebrazione della mensa di un vecchio, che richiama alla mente le bellissime tele di Angelo Morbelli dipinte all’Ospizio del Trivulzio di Milano, così piene di luce, proporzioni e armonie, pur nella rappresentazione commossa e pietosa dell’ultima stagione della vita, quando la vita è quasi unicamente contenuta nell’evocazione memoriale del passato e lascia davanti agli occhi un effimero orizzonte di futuro, praticamente inesistente, contenuto nella povera ciotola del pasto o che va poco più in là. Ebbene, anche in quella ristretta definizione di vita giunta al capolinea, il poeta ricorda la felicità semplice e devota del suo babbo, come un esempio altissimo di religione per l’esistenza eterna, già concepita come iniziazione nella caducità della vita terrena: “Quando mangia un vecchio, se, anche, in salute, / contemplalo, pare d’assistere ad atti / sacrali, come fosse il piatto / sopra l’altare adorato e il vapore / l’incenso santo delle vivande; / […] / così babbo ti rivedo contento / ché nuova primavera in te fioriva / mentre pregustavi le vivande / che Silvana cucinava, / poi le godevi; / e più il tramonto a te s’avvicinava / più nel piatto colmo raggiava il sole / fragranza della vita […]”.
La poesia di Walter Chiappelli si realizza in una accorata e accorta sinestesia di suoni musicali resi dalle parole unite in armonia artistica con le immagini visive ricostruite nell’incantato stupore della mente. Le due forze unite insieme – parole e figure – suscitano e risvegliano nell’animo del lettore le nozioni più luminose della bellezza, fintanto che nella pagina prendono corpo e sostanza “visioni sublimi” e “angeli celesti”, cioè tutte le creature che volano nel cielo, camminano sulla terra e nuotano nelle acque e che abitano il pianeta degli uomini, dove l’umanità è anche e necessariamente espressione della divinità che in ogni cosa si permea come l’anima immanente del mondo.

Sandro Gros-Pietro

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