PREFAZIONE

Questo libro nasce dall’utilità di riunire i racconti di Marco Ignazio de Santis, scritti in tempi diversi in qualcosa di più degli ultimi sette lustri, in un testo collettaneo che permetta una comparazione o, quanto meno, che garantisca la conservazione dei singoli scritti, salvaguardandoli dalla dispersione che, come si sa, è sempre in agguato nei confronti di racconti, poesie e brevi saggi singoli provenienti dalla scrivania di scrittori prolifici. Sicuramente, lo è de Santis: uno scrittore prolifico e versatile, che ha raggiunto un consolidato criterio di validità e di merito, come giornalista, saggista, prosatore e poeta, valentissimo critico letterario, studioso di storia, etnografia e dialettologia; insomma, non solo un autore creativo, ma anche un intellettuale impegnato a tempo pieno nella difesa e valorizzazione della nuova cultura attualmente in formazione, nonché nella conservazione della memoria di quella già esistente. Nel profluvio massivo dell’imponente opera intellettuale realizzata dallo scrittore molfettese, i racconti sono preziosi quanto una gemma di valore incastonata in una corona, che tuttavia bene ricapitola anche altre pietre.
Se si volesse cercare un carattere – ovvero un tema – di comunità ideativa e contenutistica presente nei dieci racconti che qui sono riuniti, lo si potrebbe indicare nel conflitto tra il reale e l’illusorio ovvero nell’indicibilità del vero o se si preferisce nell’anfibologia delle situazioni. Già il riferimento alle vaghe stelle contiene in sé la possibilità del doppio orientamento: se optare verso la pluralità degli infiniti leopardiani ovvero se puntare sulle connessioni psicologiche e “giallistiche” del film di Visconti. Ma questo sarebbe, in verità, solo una polivalenza metaforica del titolo, che non va in ogni caso caricata di significati rivelatori più di tanto. Quello che conta è il fatto che in ogni racconto il dato reale si palesa subito come una strada primaria, bene agibile e bene direzionata a una meta precisa, ma a poco a poco quella strada si trasforma in un sentiero disperso e contraddittorio e la meta si metamorfizza in una mistificazione di falsi scopi.
Nel racconto eponimo, «Vaghe stelle dell’Orsa», la protagonista Milena all’inizio della vicenda è indirizzata in modo sicuro e solare verso l’impegno letterario di natura creativa, in quanto si cimenta con passione e fiducia nella più impervia e aristocratica delle arti letterarie, la poesia. Ma ecco che, addentrandosi nell’intrico reale dei fatti e dei ricatti che l’esercizio poetico suscita intorno a sé, Milena ha modo di rendersi conto che quelle tali vaghe stelle, collocate in cielo a rappresentare una luce incorruttibile ed eternamente rappresentativa di serenità e di armonia, in realtà sono simbolo di miserabili pratiche umane di sopraffazione e di falsità di valori, quando anche non si trasformino in tentativi di violenza carnale o comunque in gravissime offese alla persona ignara del male. Non diversamente accade nel secondo racconto, Allo stadio, nel quale leggiamo come una speranza di futuro coltivata nell’animo di un giovane e riposta nel volto acqua e sapone di una graziosa studentessa incontrata per caso sul bus che conduce i due giovani a scuola – che mai si parlano, con il giovanotto che tuttavia fa crescere dentro di sé il simbolo femminile dell’armonia e della purezza rappresentato da quella anonima dolce fanciulla – sia destinato a rivelarsi tutta altra cosa, a pochi anni di distanza, all’insegna di una realtà fin troppo cruda e crudele, posta agli antipodi delle attese del ragazzo. Nello splendido terzo racconto, La villa di Clelia, il contrasto è rappresentato da una parte dalla dolcezza agreste di una natura rigogliosa e colorata, fatta di fiori e piante rare, raccolte quasi con devozione da un giovane botanico nei pressi di una villa signorile dal ridente giardino che è simbolo edenico di hortus conclusus e, quindi, tale da richiamare alla mente i giardini di erbe officinali dei monasteri, capaci di ergersi ad usbergo della buona salute sia del corpo sia dello spirito; ma dall’altra parte, è rappresentato dal più turpe ed antico dei vizi umani, di cui la splendida fanciulla Clelia diviene presto vittima, non si sa fino a che punto consenziente o discorde. Identico intrico di credenze rovesciate o di apparenze contraddette si muove nei due riuscitissimi racconti centrali, L’eremita, e La tarantola. Specie quest’ultimo è un quadro di rara perfezione compositiva e di mirabile equilibrio tra disparati elementi letterari, quali la fantasia, la ricostruzione storica, l’apporto di credenze popolari e folcloristiche, fino al punto di apparire un modello assoluto di arte novellistica. Ma in questo pieno e più che riuscito esempio di narrazione, la domanda resta la stessa: dove sta il vero? cosa accade ai tarantolati? I due magnifici racconti I briganti di Navarino e La caduta di Gaeta si discostano, invece, in modo sensibile dalla tesi di fondo del libro – quella dell’ineffabile inconsistenza del vero – per abbracciare una delle linee guida fondamentali della nostra illustre tradizione in prosa, cioè il racconto storico, alla cui sorgente stanno ovviamente Manzoni e Nievo. Bellissime pagine di ricostruzione ambientale e umana, scritte con grande sapienza ed efficacia espressiva sono quelle, in speciale modo, che fanno rivivere il sacrificio patriottico “inutile e misconosciuto” dei soldati borbonici che difesero eroicamente Gaeta dal cinico cannoneggiamento delle truppe piemontesi, decise a raccogliere una facile vittoria con il minimo dispendio bellico e con il massimo danno civile per la popolazione inerme. Nella città di Dite è un racconto che più di ogni altro svela gli interessi di critico letterario e di studioso della letteratura di Marco de Santis, che mette in campo un saggio-racconto alla maniera di Umberto Eco, facendo dell’erudizione filologica e letteraria una fonte più che valida di prosa romanzata, con apporto di fantasia e con sagace deformazione in chiave alternativa di vicende altresì universalmente note. Un racconto angosciante e totalmente fantastico, che assume per modello la fantasia e il mistero all’interno di uno scenario cupo inaugurato in modo magistrale e con grande successo da Edgar Allan Poe, è rappresentato dal racconto finale Apocalisse, che nuovamente rappresenta un perfetto esercizio letterario, eseguito con provetta bravura, sul versante horror e misterico della moderna narrativa.
I racconti di Marco Ignazio de Santis si richiamano quasi con provocazione alla vaghe stelle che sono simbolo della celeste incorruttibilità del vero e dell’eterno, per mettere in scena e per descrivere minutamente e con mirabile grazia sulla pagina letteraria, sempre realizzata con efficacia di forma e di contenuto, una casistica bene organizzata di mondi e di modi del racconto, nella quale il vero è una categoria astratta e contraddittoria di sé stessa, ma è anche il canone letterario sempre rincorso e riproposto, in un eterno bisticcio di affermazioni e di negazioni, nella storia della cultura occidentale e, in particolare, nelle vicende passate e più recenti della letteratura italiana.

Sandro Gros-Pietro

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